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Proposta PDL: Modifica 1°comma art. 1 della Costituzione

Ultimo Aggiornamento: 03/05/2011 00:37
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Utente Senior
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23/04/2011 13:02
 
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Ognuno è libero di indirizzare le proprie preferenze come vuole ma ascoltare anche un altro punto di vista aiuta sicuramente a formare una opinione più completa delle cose.
Ciò è vieppiù valido quando si è costretti a leggere anche delle colossali panzane.
Il discorso sulla riduzione delle tasse – diciamocelo – parla più alla pancia che alla testa delle persone, per cui è sempre difficile riportare le cose su un piano di comprensione e ragionevolezza.
Innanzitutto c’è una bella contraddizione che i nostri cari neoliberisti stentano a risolvere. Se ridurre le tasse ha un effetto positivo sui consumi, questi illuminati signori dovrebbero spiegarmi gentilmente a quale teoria del consumo si ispirano nel sostenere tali argomenti. Se Giusperito, per avventura, dovesse basare le sue idee sulle teorie monetariste, e quindi sulla visione del consumo secondo Milton Friedman (che è tra i suoi padri ideologici) allora sarebbe palese tutta la contraddittorietà che sta alla base della relazione tra una minore tassazione ed un aumento dei consumi. Difatti, la teoria monetarista sostiene vigorosamente che la teoria keynesiana del Consumo sia eccessivamente semplicistica. Non si può accettare, secondo Friedman, l’idea che il Consumo sia funzione crescente del reddito di un individuo sic et simpliciter. Il reddito per i monetaristi si distingue tra permanente e transitorio, e lo stesso Consumo si divide in permanente e transitorio a seconda del tipo di reddito utilizzato come variabile. Nella vita di un individuo, però, ciò che conta è logicamente il consumo permanente, perché quello transitorio, come è reso evidente anche dalla parola utilizzata, è un fenomeno momentaneo e soggetto a ciclicità. Il consumo permanente, in sintesi, è quello influenzato dal reddito permanente ed è relativamente stabile durante tutta la vita dell’individuo. Ora analizziamo questi concetti alla luce di una riduzione, grande o piccola che sia, delle imposte sul reddito dei cittadini. Un abbassamento delle aliquote genererà un aumento della liquidità nelle tasche delle persone che potrà essere imputato esclusivamente alla parte di reddito che prima abbiamo definito come temporaneo, perché si tratta di una riduzione una tantum. Se volessimo aumentare in modo considerevole il reddito permanente dei cittadini dovremmo attuare una politica di riduzione delle imposte durante l’intero ciclo vitale dell’individuo, e ciò sarebbe logicamente impossibile perché dovrebbe comportare una progressiva diminuzione delle aliquote fino a zero.
Per cui, una riduzione delle imposte non genererà necessariamente – secondo una teoria liberista del consumo – un aumento dei consumi perché il reddito permanente, che è l’unica componente rilevante, non trarrà benefici da tali politiche. Infatti la grande critica alla teoria keynesiana da parte dei monetaristi si basa proprio sulla rottura della relazione tra reddito e consumo. Ma Giusperito non era tra quelli che negavano l’effetto del moltiplicatore sul reddito? Ora, per onestà intellettuale, o il moltiplicatore funziona sempre, cioè sia grazie alla spesa pubblica sia grazie ai consumi, o non funziona mai perché non c’è relazione tra reddito e consumo. Delle due l’una.
Sempre questa bella teoria che vuole la riduzione delle imposte come panacea di tutti i mali, mutuata dal peggior pensiero offertista, si fonda su un aspetto facilmente confutabile di mera scienza economica. Dicono questi signori che abbassando le tasse aumenta l’incentivo a lavorare di più, perché al margine diventa più conveniente scambiare tempo dedicato al tempo libero con il tempo dedicato al lavoro; in poche parole se mi riduci le tasse lavoro più perché per me diventa più conveniente. Lavorando di più, quindi, aumenta il reddito prodotto e siamo tutti più ricchi (aggiungerei anche un vissero felici e contenti) ma c’è un però. Per affermare le proprie tesi, questi signori utilizzano solo parzialmente il modello matematico che stiamo analizzando. Infatti, una riduzione delle imposte non necessariamente fa aumentare le ore lavorate perché se è vero che diventa più conveniente sostituire lavoro a tempo libero, così ragionando si tiene in considerazione esclusivamente l’effetto sostituzione. Come appreso dai libri di economia e di scienza delle finanze, nei modelli paretiani di curve d’indifferenza si analizzano sia l’effetto sostituzione, sia l’effetto reddito. Proprio quest’ultimo non è tenuto in considerazione nell’analisi di cui sopra. Riducendo le imposte si sostituisce lavoro a tempo libero perché più conveniente ma l’effetto sostituzione in questo caso è compensato dall’effetto reddito che prima non è stato preso in esame. Se mi riduci le tasse ho un maggior reddito disponibile a parità di lavoro rispetto al periodo precedente la riduzione. Per cui il soggetto potrebbe essere invogliato a ridurre ulteriormente le ore lavorate perché tanto il reddito disponibile è comunque aumentato. Insomma, perché lavorare di più quando posso avere lo stesso reddito precedente la riduzione delle imposte ma lavorando di meno?
(Sarebbe utile avere a disposizione un bel paio di assi cartesiani per spiegare la cosa ma basterà aprire un manualetto di economia alla voce effetto reddito-effetto sostituzione).
Tutto ciò per dimostrare che l’idea che una minore imposizione fiscale sia sempre e comunque di stimolo all’economia non ha nessuna evidenza empirica.

Terza notazione. Sfatiamo il mito che le imposte servano esclusivamente ad un esercito di burocrati per ingrassare il proprio stomaco capiente e pagarsi costose trasferte per tutto l’orbe terraqueo. Prendo dei dati dello Statistical Abstract of the United States. Questi sono dati ufficiali, una sorta di Istat americano.
Utilizzo non a casa gli USA, un paese sicuramente non socialista. Questi dati sono relativi al periodo della presidenza Bush, così non c’è il sospetto che siano influenzati dalle politiche di Obama, e riportano in ordine decrescente come sono distribuiti i soldi delle imposte all’interno del bilancio federale.
Il 21,6% è destinato alla sicurezza sociale. Il 19% alla difesa. Il 14% agli interessi sul debito. 10,3% Medicare (servizio sanitario pubblico per gli anziani). 6% Medicaid (servizio sanitario pubblico per i non abbienti). Il 4,4% Pensioni per i dipendenti federali. Poi seguono trasporti, autostrade, benefici per i vetrani (2,6%), spese per amministrare la giustizia. Insomma, quante di queste voci sono davvero indesiderabili dalla popolazione? Tutti gli americani convengono che sia giusto assicurare sicurezza sociale ai più anziani, che sia prestigioso contare su una forza armata poderosa o che sia necessario pagare il proprio debito pubblico. Insomma è facile urlare che le imposte servono ad alimentare clientele, ma certo non si venga a dire che questo è un discorso ragionato perché basta analizzare un po’ di dati economici per vedere quanto qualunquismo ci sia in simili affermazioni. Ovvio che il clientelismo si alimenti con denaro pubblico però questo non è un buon argomento a favore della riduzione delle imposte perché col denaro pubblico si finanzia anche una spesa ritenuta dai più necessaria e desiderabile.
Pensavo che i supply siders fossero in via di estinzione ma vedo che Krugman ha ragione quando dice che "…non dovremmo mai sorprenderci quando persone eminenti dicono solenni sciocchezze economiche. La storia delle dottrine economiche ci insegna che l’influenza di un’idea può non avere nulla a che fare con la sua qualità".

P.S. Ho usato all’inizio dell’intervento il vocabolo "panzana" non a caso. Nell’intervento di Giusperito a un certo punto c’è una interpretazione degli equilibri di Nash davvero fantasiosa. Dire che gli egoismi individuali nella loro lotta antagonista eliminano gli aspetti cruenti e generano una situazione desiderabile per tutti altro non è che una interpretazione della mano invisibile di Smith. Il che è l’esatto contrario degli equilibri di Nash, i quali si basano sull’assunto che è impossibile raggiungere una situazione di ottimo per tutti. In un equilibrio di Nash i soggetti antagonisti possono anche trovare una soluzione migliore per sé ma non necessariamente quella sarà la situazione ottima per il gruppo.



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