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Proposta PDL: Modifica 1°comma art. 1 della Costituzione

Ultimo Aggiornamento: 03/05/2011 00:37
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20/04/2011 20:22
 
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Senza considerare che la parola Parlamento è pure cacofonica letta nel primo comma di una carta costituzionale! Mah! [SM=x43830]





. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Di fronte a questo brulichio di artisti e di bambini, di gente in vario modo allegra, chiedo che festa si stia celebrando. “Nessuna, qui da noi ogni giorno si festeggia la vita.”

Silvano Agosti – Lettere dalla Kirghisia
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20/04/2011 22:15
 
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Re: Re:
Maudit82, 20/04/2011 20.07:




o magari sul bunga bunga [SM=x43668]






aahahahahahhahahahahahhahahahahahahah [SM=x43673]
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Se piangi per una persona, vuol dire che quella persona è una cipolla
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20/04/2011 22:23
 
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Io dico da anni che va cambiato l'articolo 1, perché se non cambiamo i principi non cambierà mai niente. Ma questa proposta non va per niente bene.

Io lo vorrei così l'arti 1:

"L'Italia è una repubblica democratica fondata sulla difesa della libertà individuale e dei diritti soggettivi".
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20/04/2011 23:08
 
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Trix, ma mo' ti metti pure tu... che c'entra la costituzione con i principi.
Un pezzo di carta con tanti buoni propositi fatti il primo dell'anno. Poi inizia l'anno e i soliti vizi si ripresentano. Se proprio ti ricordi del pezzo di carta, inizi ad interpretarlo, a derogarlo e a trovare alibi.
Credo che lo slogan "il fascismo è libertà" valga più di mille argomentazioni.

Non è attraverso i principi consacrati in vecchie e polverose carte che cambierà qualcosa.
L'unica speranza di cambiamento è intercettare il sano egoismo degli individui per usarlo al fine di ridurre le tasse e, così, mettere la pallina sul piano inclinato.
21/04/2011 00:05
 
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Re:
giusperito, 20/04/2011 18.11:

Cosa cambierebbe?




esatto,e' semplicemente una stronzata ideologica,anzi manco ideologica,e' pura demagogia,parole prive di senso finalizzate ad usare il mandato elettorale come giustificazione per le loro schifezze.Schifezze per le quali vogliono pure cercare un fondamento addirittura costituzionale.
21/04/2011 00:09
 
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Re:
trixam, 20/04/2011 22.23:

Io dico da anni che va cambiato l'articolo 1, perché se non cambiamo i principi non cambierà mai niente. Ma questa proposta non va per niente bene.

Io lo vorrei così l'arti 1:

"L'Italia è una repubblica democratica fondata sulla difesa della libertà individuale e dei diritti soggettivi".





una Repubblica di senza scrupoli insomma,ma c''e gia'. [SM=x43668]
21/04/2011 00:09
 
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Re:
giusperito, 20/04/2011 23.08:

Trix, ma mo' ti metti pure tu... che c'entra la costituzione con i principi.
Un pezzo di carta con tanti buoni propositi fatti il primo dell'anno. Poi inizia l'anno e i soliti vizi si ripresentano. Se proprio ti ricordi del pezzo di carta, inizi ad interpretarlo, a derogarlo e a trovare alibi.
Credo che lo slogan "il fascismo è libertà" valga più di mille argomentazioni.

Non è attraverso i principi consacrati in vecchie e polverose carte che cambierà qualcosa.
L'unica speranza di cambiamento è intercettare il sano egoismo degli individui per usarlo al fine di ridurre le tasse e, così, mettere la pallina sul piano inclinato.



in che senso?
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21/04/2011 00:51
 
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In pratica riducendo le tasse otteniamo due risultati diretti:
1) le persone si ritrovano più denaro nelle loro tasche. Sicuramente una parte sarebbe destinato al consumo, generando sia una maggiore soddisfazione (essendo educato alla scuola neolib, collego consumo e felicità, consapevole che un francofortista potrebbe spararmi sul posto) sia una maggiore dinamicità del mercato (sarebbe d'accordo anche i keynesiani)
2) si ridurrebbe drasticamente la quantità di denaro da destinare alle spese pubbliche, che non vanno identificate in toto con i servizi pubblici.
Ora il primo risultato è sicuramente auspicabile, laddove sto ragionando sulla base della convinzione che quel denaro sarebbe meglio speso da chi lo produce che dallo Stato. Si tratta di un punto di vista non condivisibile da parte di chi parla di redistribuzione, ma possiamo ragionare prescindendo da questa valutazione che non riguarda il nostro ragionamento.
Il secondo punto è l'oggetto della questione e credo la base della tua domanda. Mi sembra di aver capito che la domanda sia pressappoco: in che modo ridurre le tasse renderebbe migliore la nostra democrazia?
Prima di rispondere direttamente a questa domanda, preciso che la democrazia (parola che grazie a quel pazzo falco neolib di trixam ho imparato ad amare poco, preferendole demarchia) non dipende solo dalla classe politica, ma in generale possiamo dire che dipenda in buona parte dalle scelte della classe politica.
Se noi riduciamo le tasse, i politici hanno una quantità di denaro inferiore per finanziare la spesa pubblica. A quel punto il politico deve operare delle scelte su come usare le risorse scarse che ha a disposizione. Potrà scegliere tra ridurre i servizi pubblici o le spese inutili. Sia nel primo che nel secondo caso perderà dei consensi. Tuttavia la riduzione dei servizi pubblici gli produrrà un danno elettorale decisamente superiore, ma realisticamente proverà ad azzardare riducendo i servizi. Una scelta del genere inevitabilmente produrrà un diffuso malcontento e una maggiore attenzione alla spesa pubblica che costringerà lui o i suoi avversari ad elaborare dei progetti alternativi destinati al contenimento delle spese inutili. E' ovvio che, però, la popolazione dovrebbe rifiutare qualsiasi aumento delle tasse. Inoltre la spesa inutile solitamente è destinata a posizioni clientelari che sono in re ipsa una distorsione della democrazia e della libertà di scelta.
Fermo il pippone, ma prima voglia porre l'attenzione su alcuni punti che non sviluppo per non appesantire il discorso.
1) lo Stato in sé, come entità autonoma, non esiste. Le scelte statali sono un coacervo di decisioni politiche e burocratiche. Tali scelte sono prodotte dagli uomini. I politici, come tutti gli uomini, hanno interesse a massimizzare le loro utilità. Non essendo più tollerabile illudersi che non sia così e che esista qualche pio tutore dell'interesse di tutti, è necessario trasformare il criterio su cui avviene la massimizzazione delle utilità. (inoltre il pio anche se esistesse, e non esiste, dovrebbe ricoprire tutti i ruoli e dovrebbe essere onnisciente).
2) gli uomini sono mossi da egoismo che, però, non è una cosa cattiva. La morale cristiana ci ha insegnato che è un male, ma è il naturale sistema di sopravvivenza (sul punto con te sfondo una porta aperta se cito Nietzsche). Attenzione non nel banale senso della legge del più forte, ma della capacità di tutelare la nostra vita badando al nostro interesse. L'egoismo ci permette di proteggerci dalla morte e dal dolore. Ogni nostro atto è improntato ad egoismo. Accendere il pc, scegliere il negozio più economico, prendere l'auto il sabato sera sono scelte egoistiche a cui non rinunciamo. Siamo cattivi? No, semplicemente tuteliamo la nostra vita e la nostra felicità. Solo attraverso questa tutela e questo vivere competitivo aumentiamo il nostro livello di benessere. Se siamo consapevoli dell'egoismo di fondo del nostro agire, riconosciamo l'egoismo nell'altro. In questa "lotta di tutti contro tutti" riconosciamo la necessità di eliminare gli aspetti cruenti dell'egoismo, puntando alla solidarietà e alla partecipazione. In questo modo integriamo alle scelte per noi, le scelte valide per il gruppo (una sorta di equilibrio di Nash).
Quanto detto mi serve per esprimere l'idea che gli uomini sono dominati dalle dinamiche economiche che gli permettono di realizzare la propria sopravvivenza attraverso lo scambio che è necessario in una società moderna dove ognuno compensa l'altro. La lotta per la riduzione delle tasse è, quindi, l'unico incentivo valido per spingere gli uomini a controllare la gestione delle cosa pubblica.
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21/04/2011 01:05
 
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Re:
giusperito, 21/04/2011 00.51:

In pratica riducendo le tasse otteniamo due risultati diretti:
1) le persone si ritrovano più denaro nelle loro tasche. Sicuramente una parte sarebbe destinato al consumo, generando sia una maggiore soddisfazione (essendo educato alla scuola neolib, collego consumo e felicità, consapevole che un francofortista potrebbe spararmi sul posto) sia una maggiore dinamicità del mercato (sarebbe d'accordo anche i keynesiani)
2) si ridurrebbe drasticamente la quantità di denaro da destinare alle spese pubbliche, che non vanno identificate in toto con i servizi pubblici.
Ora il primo risultato è sicuramente auspicabile, laddove sto ragionando sulla base della convinzione che quel denaro sarebbe meglio speso da chi lo produce che dallo Stato. Si tratta di un punto di vista non condivisibile da parte di chi parla di redistribuzione, ma possiamo ragionare prescindendo da questa valutazione che non riguarda il nostro ragionamento.
Il secondo punto è l'oggetto della questione e credo la base della tua domanda. Mi sembra di aver capito che la domanda sia pressappoco: in che modo ridurre le tasse renderebbe migliore la nostra democrazia?
Prima di rispondere direttamente a questa domanda, preciso che la democrazia (parola che grazie a quel pazzo falco neolib di trixam ho imparato ad amare poco, preferendole demarchia) non dipende solo dalla classe politica, ma in generale possiamo dire che dipenda in buona parte dalle scelte della classe politica.
Se noi riduciamo le tasse, i politici hanno una quantità di denaro inferiore per finanziare la spesa pubblica. A quel punto il politico deve operare delle scelte su come usare le risorse scarse che ha a disposizione. Potrà scegliere tra ridurre i servizi pubblici o le spese inutili. Sia nel primo che nel secondo caso perderà dei consensi. Tuttavia la riduzione dei servizi pubblici gli produrrà un danno elettorale decisamente superiore, ma realisticamente proverà ad azzardare riducendo i servizi. Una scelta del genere inevitabilmente produrrà un diffuso malcontento e una maggiore attenzione alla spesa pubblica che costringerà lui o i suoi avversari ad elaborare dei progetti alternativi destinati al contenimento delle spese inutili. E' ovvio che, però, la popolazione dovrebbe rifiutare qualsiasi aumento delle tasse. Inoltre la spesa inutile solitamente è destinata a posizioni clientelari che sono in re ipsa una distorsione della democrazia e della libertà di scelta.
Fermo il pippone, ma prima voglia porre l'attenzione su alcuni punti che non sviluppo per non appesantire il discorso.
1) lo Stato in sé, come entità autonoma, non esiste. Le scelte statali sono un coacervo di decisioni politiche e burocratiche. Tali scelte sono prodotte dagli uomini. I politici, come tutti gli uomini, hanno interesse a massimizzare le loro utilità. Non essendo più tollerabile illudersi che non sia così e che esista qualche pio tutore dell'interesse di tutti, è necessario trasformare il criterio su cui avviene la massimizzazione delle utilità. (inoltre il pio anche se esistesse, e non esiste, dovrebbe ricoprire tutti i ruoli e dovrebbe essere onnisciente).
2) gli uomini sono mossi da egoismo che, però, non è una cosa cattiva. La morale cristiana ci ha insegnato che è un male, ma è il naturale sistema di sopravvivenza (sul punto con te sfondo una porta aperta se cito Nietzsche). Attenzione non nel banale senso della legge del più forte, ma della capacità di tutelare la nostra vita badando al nostro interesse. L'egoismo ci permette di proteggerci dalla morte e dal dolore. Ogni nostro atto è improntato ad egoismo. Accendere il pc, scegliere il negozio più economico, prendere l'auto il sabato sera sono scelte egoistiche a cui non rinunciamo. Siamo cattivi? No, semplicemente tuteliamo la nostra vita e la nostra felicità. Solo attraverso questa tutela e questo vivere competitivo aumentiamo il nostro livello di benessere. Se siamo consapevoli dell'egoismo di fondo del nostro agire, riconosciamo l'egoismo nell'altro. In questa "lotta di tutti contro tutti" riconosciamo la necessità di eliminare gli aspetti cruenti dell'egoismo, puntando alla solidarietà e alla partecipazione. In questo modo integriamo alle scelte per noi, le scelte valide per il gruppo (una sorta di equilibrio di Nash).
Quanto detto mi serve per esprimere l'idea che gli uomini sono dominati dalle dinamiche economiche che gli permettono di realizzare la propria sopravvivenza attraverso lo scambio che è necessario in una società moderna dove ognuno compensa l'altro. La lotta per la riduzione delle tasse è, quindi, l'unico incentivo valido per spingere gli uomini a controllare la gestione delle cosa pubblica.


Non ti conosco, se mai dovessi candidarti per qualche elezioni avvisami. Il mio voto è assicurato!
Complimenti [SM=x43625]

21/04/2011 17:45
 
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Re:
giusperito, 21/04/2011 00.51:

In pratica riducendo le tasse otteniamo due risultati diretti:
1) le persone si ritrovano più denaro nelle loro tasche. Sicuramente una parte sarebbe destinato al consumo, generando sia una maggiore soddisfazione (essendo educato alla scuola neolib, collego consumo e felicità, consapevole che un francofortista potrebbe spararmi sul posto) sia una maggiore dinamicità del mercato (sarebbe d'accordo anche i keynesiani)
2) si ridurrebbe drasticamente la quantità di denaro da destinare alle spese pubbliche, che non vanno identificate in toto con i servizi pubblici.
Ora il primo risultato è sicuramente auspicabile, laddove sto ragionando sulla base della convinzione che quel denaro sarebbe meglio speso da chi lo produce che dallo Stato. Si tratta di un punto di vista non condivisibile da parte di chi parla di redistribuzione, ma possiamo ragionare prescindendo da questa valutazione che non riguarda il nostro ragionamento.
Il secondo punto è l'oggetto della questione e credo la base della tua domanda. Mi sembra di aver capito che la domanda sia pressappoco: in che modo ridurre le tasse renderebbe migliore la nostra democrazia?
Prima di rispondere direttamente a questa domanda, preciso che la democrazia (parola che grazie a quel pazzo falco neolib di trixam ho imparato ad amare poco, preferendole demarchia) non dipende solo dalla classe politica, ma in generale possiamo dire che dipenda in buona parte dalle scelte della classe politica.
Se noi riduciamo le tasse, i politici hanno una quantità di denaro inferiore per finanziare la spesa pubblica. A quel punto il politico deve operare delle scelte su come usare le risorse scarse che ha a disposizione. Potrà scegliere tra ridurre i servizi pubblici o le spese inutili. Sia nel primo che nel secondo caso perderà dei consensi. Tuttavia la riduzione dei servizi pubblici gli produrrà un danno elettorale decisamente superiore, ma realisticamente proverà ad azzardare riducendo i servizi. Una scelta del genere inevitabilmente produrrà un diffuso malcontento e una maggiore attenzione alla spesa pubblica che costringerà lui o i suoi avversari ad elaborare dei progetti alternativi destinati al contenimento delle spese inutili. E' ovvio che, però, la popolazione dovrebbe rifiutare qualsiasi aumento delle tasse. Inoltre la spesa inutile solitamente è destinata a posizioni clientelari che sono in re ipsa una distorsione della democrazia e della libertà di scelta.
Fermo il pippone, ma prima voglia porre l'attenzione su alcuni punti che non sviluppo per non appesantire il discorso.
1) lo Stato in sé, come entità autonoma, non esiste. Le scelte statali sono un coacervo di decisioni politiche e burocratiche. Tali scelte sono prodotte dagli uomini. I politici, come tutti gli uomini, hanno interesse a massimizzare le loro utilità. Non essendo più tollerabile illudersi che non sia così e che esista qualche pio tutore dell'interesse di tutti, è necessario trasformare il criterio su cui avviene la massimizzazione delle utilità. (inoltre il pio anche se esistesse, e non esiste, dovrebbe ricoprire tutti i ruoli e dovrebbe essere onnisciente).
2) gli uomini sono mossi da egoismo che, però, non è una cosa cattiva. La morale cristiana ci ha insegnato che è un male, ma è il naturale sistema di sopravvivenza (sul punto con te sfondo una porta aperta se cito Nietzsche). Attenzione non nel banale senso della legge del più forte, ma della capacità di tutelare la nostra vita badando al nostro interesse. L'egoismo ci permette di proteggerci dalla morte e dal dolore. Ogni nostro atto è improntato ad egoismo. Accendere il pc, scegliere il negozio più economico, prendere l'auto il sabato sera sono scelte egoistiche a cui non rinunciamo. Siamo cattivi? No, semplicemente tuteliamo la nostra vita e la nostra felicità. Solo attraverso questa tutela e questo vivere competitivo aumentiamo il nostro livello di benessere. Se siamo consapevoli dell'egoismo di fondo del nostro agire, riconosciamo l'egoismo nell'altro. In questa "lotta di tutti contro tutti" riconosciamo la necessità di eliminare gli aspetti cruenti dell'egoismo, puntando alla solidarietà e alla partecipazione. In questo modo integriamo alle scelte per noi, le scelte valide per il gruppo (una sorta di equilibrio di Nash).
Quanto detto mi serve per esprimere l'idea che gli uomini sono dominati dalle dinamiche economiche che gli permettono di realizzare la propria sopravvivenza attraverso lo scambio che è necessario in una società moderna dove ognuno compensa l'altro. La lotta per la riduzione delle tasse è, quindi, l'unico incentivo valido per spingere gli uomini a controllare la gestione delle cosa pubblica.





In linea di massima sono tutte cose abbastanza condivisibili.E'un'analisi frutto del paese in cui vivi:gli aspetti negativi che hai evidenziato sono tipicamente italiani.
Se le tasse sono troppo alte e' giusto chiudere i rubinetti,soprattutto se il beneficio che apportano e' al di sotto del livello che ci spetterebbe.Poi,che chiami egoismo il "patto sociale",non fa molta differenza,alla fine sempre qualcuno dovra' mandare avanti la baracca ancorandosi alla solidarieta' e la partecipazione.E'importante ridurre le tasse dove e' necessario,ma non sono convinta che sia l'unico fattore che possa portare a controllare la gestione della cosa pubblica,puo' essere un inizio,ma io spingerei piu' sul tema della "responsabilita",che dovrebbe essere meno burocratica,piu'snella e certa e che si perde nei "particolari"di leggi,leggine,enti,e cosi via...
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22/04/2011 00:29
 
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Re: Re:
biond@85, 21/04/2011 01.05:


Non ti conosco, se mai dovessi candidarti per qualche elezioni avvisami. Il mio voto è assicurato!
Complimenti [SM=x43625]





Grazie... fa sempre piacere veder crescere la mia minoranza [SM=x43610]
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Re: Re:
--letizia22--, 21/04/2011 17.45:





In linea di massima sono tutte cose abbastanza condivisibili.E'un'analisi frutto del paese in cui vivi:gli aspetti negativi che hai evidenziato sono tipicamente italiani.
Se le tasse sono troppo alte e' giusto chiudere i rubinetti,soprattutto se il beneficio che apportano e' al di sotto del livello che ci spetterebbe.Poi,che chiami egoismo il "patto sociale",non fa molta differenza,alla fine sempre qualcuno dovra' mandare avanti la baracca ancorandosi alla solidarieta' e la partecipazione.E'importante ridurre le tasse dove e' necessario,ma non sono convinta che sia l'unico fattore che possa portare a controllare la gestione della cosa pubblica,puo' essere un inizio,ma io spingerei piu' sul tema della "responsabilita",che dovrebbe essere meno burocratica,piu'snella e certa e che si perde nei "particolari"di leggi,leggine,enti,e cosi via...



Moral hazard applicato alla politica e la responsabilità diventa un buon proposito....

Incentivi e disincentivi ecco l'unica risposta.
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Re: Re:
Maudit82, 20/04/2011 20.07:




o magari sul bunga bunga [SM=x43668]






stavo per postarlo io!
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22/04/2011 18:02
 
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Ma voi vi applicate pure su queste stronzate?!?!?

E' palese che si tratti di sparate per distogliere l'attenzione del popolo dai problemi reali...

quindi...
non ci applichiamo.
[Modificato da nando85 22/04/2011 18:02]
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22/04/2011 22:51
 
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L'omaggio alla libertà
Una costituzione è fatta di principi e di regole che devono dare corpo ai quei principi. La dimensione simbolica di una carta costituzionale non è meno importante delle sue regole operative.

La questione dell'articolo 1 della Costituzione è tornata ora alla ribalta per l'iniziativa di un deputato del Pdl, Remigio Ceroni, che ne ha proposto una radicale revisione. L'iniziativa è figlia della situazione di conflitto politico feroce che stiamo oggi vivendo e seguirà, presumibilmente, la sorte di altre prese di posizione legate al clima del momento: finirà fortunatamente nel dimenticatoio.

Resterà però, al di là delle vicende contingenti, il problema rappresentato dalla formulazione del primo comma dell'articolo 1 il quale, come è noto, recita: «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». All'Assemblea costituente due esponenti della cultura politica liberale, Ugo La Malfa e Gaetano Martino, avevano proposto una diversa versione che richiamava i «diritti di libertà» come primo fondamento della Repubblica. Ma la maggioranza (democristiani, socialisti e comunisti) scelse diversamente. Come ha ricordato Michele Ainis nel suo editoriale di ieri sul Corriere, la proposta di sostituire la parola «lavoro» con la parola «libertà» ritorna periodicamente. È stata avanzata formalmente qualche anno fa dai radicali e spesso rilanciata da altri uomini di cultura liberale, come Mario Segni o Renato Brunetta.

Ainis afferma che sarebbe superfluo un simile intervento dal momento che la libertà, secondo lui, già albergherebbe, «come noce nel mallo», nella democrazia evocata nello stesso articolo 1. Dissento da Ainis e spiego perché. La libertà degli individui (e non, come scrive Ainis, del «popolo» che è soltanto una astrazione) non è affatto già contenuta nella parola democrazia. Questa assimilazione non funziona né dal punto di vista concettuale né da quello storico ed empirico. Sul piano concettuale, democrazia e libertà sono cose diverse (hanno anche una origine storica diversa). Tanto è vero che quando usiamo, per brevità, la parola «democrazia» siamo quasi sempre costretti a precisare che ci stiamo riferendo a una sua particolare versione, quella liberale appunto, la liberaldemocrazia, la versione che combina democrazia e libertà e non ad altre forme di democrazia (popolare, consigliare, eccetera). Né l'assimilazione regge sul piano empirico. Non solo è perfettamente concepibile una democrazia illiberale ma, per giunta, ne esistono in giro molti esemplari: l'attuale Federazione Russa è un esempio.

Ecco perché non si dà alcuna ridondanza se la Repubblica democratica viene fondata sulla libertà anziché sul lavoro. Ma non sono quisquilie, dirà qualcuno? Non abbiamo problemi più seri di cui occuparci? Se la dimensione simbolica di una costituzione è importante, allora quisquilie non sono. I liberali di questo Paese hanno sempre vissuto con grande disagio e come prova del proprio stato di esigua minoranza, il fatto che la nostra carta d'identità collettiva, anziché con un omaggio alla libertà, si aprisse con una formulazione che rivelava la lontananza di tanti membri della Assemblea costituente dai principi della tradizione liberale. Viste le numerose conversioni (verbali) al liberalismo a cui abbiamo assistito dopo la caduta del comunismo forse sarà il caso, quando se ne troverà il tempo, di porre termine a quel disagio.

Angelo Panebianco
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23/04/2011 13:02
 
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Ognuno è libero di indirizzare le proprie preferenze come vuole ma ascoltare anche un altro punto di vista aiuta sicuramente a formare una opinione più completa delle cose.
Ciò è vieppiù valido quando si è costretti a leggere anche delle colossali panzane.
Il discorso sulla riduzione delle tasse – diciamocelo – parla più alla pancia che alla testa delle persone, per cui è sempre difficile riportare le cose su un piano di comprensione e ragionevolezza.
Innanzitutto c’è una bella contraddizione che i nostri cari neoliberisti stentano a risolvere. Se ridurre le tasse ha un effetto positivo sui consumi, questi illuminati signori dovrebbero spiegarmi gentilmente a quale teoria del consumo si ispirano nel sostenere tali argomenti. Se Giusperito, per avventura, dovesse basare le sue idee sulle teorie monetariste, e quindi sulla visione del consumo secondo Milton Friedman (che è tra i suoi padri ideologici) allora sarebbe palese tutta la contraddittorietà che sta alla base della relazione tra una minore tassazione ed un aumento dei consumi. Difatti, la teoria monetarista sostiene vigorosamente che la teoria keynesiana del Consumo sia eccessivamente semplicistica. Non si può accettare, secondo Friedman, l’idea che il Consumo sia funzione crescente del reddito di un individuo sic et simpliciter. Il reddito per i monetaristi si distingue tra permanente e transitorio, e lo stesso Consumo si divide in permanente e transitorio a seconda del tipo di reddito utilizzato come variabile. Nella vita di un individuo, però, ciò che conta è logicamente il consumo permanente, perché quello transitorio, come è reso evidente anche dalla parola utilizzata, è un fenomeno momentaneo e soggetto a ciclicità. Il consumo permanente, in sintesi, è quello influenzato dal reddito permanente ed è relativamente stabile durante tutta la vita dell’individuo. Ora analizziamo questi concetti alla luce di una riduzione, grande o piccola che sia, delle imposte sul reddito dei cittadini. Un abbassamento delle aliquote genererà un aumento della liquidità nelle tasche delle persone che potrà essere imputato esclusivamente alla parte di reddito che prima abbiamo definito come temporaneo, perché si tratta di una riduzione una tantum. Se volessimo aumentare in modo considerevole il reddito permanente dei cittadini dovremmo attuare una politica di riduzione delle imposte durante l’intero ciclo vitale dell’individuo, e ciò sarebbe logicamente impossibile perché dovrebbe comportare una progressiva diminuzione delle aliquote fino a zero.
Per cui, una riduzione delle imposte non genererà necessariamente – secondo una teoria liberista del consumo – un aumento dei consumi perché il reddito permanente, che è l’unica componente rilevante, non trarrà benefici da tali politiche. Infatti la grande critica alla teoria keynesiana da parte dei monetaristi si basa proprio sulla rottura della relazione tra reddito e consumo. Ma Giusperito non era tra quelli che negavano l’effetto del moltiplicatore sul reddito? Ora, per onestà intellettuale, o il moltiplicatore funziona sempre, cioè sia grazie alla spesa pubblica sia grazie ai consumi, o non funziona mai perché non c’è relazione tra reddito e consumo. Delle due l’una.
Sempre questa bella teoria che vuole la riduzione delle imposte come panacea di tutti i mali, mutuata dal peggior pensiero offertista, si fonda su un aspetto facilmente confutabile di mera scienza economica. Dicono questi signori che abbassando le tasse aumenta l’incentivo a lavorare di più, perché al margine diventa più conveniente scambiare tempo dedicato al tempo libero con il tempo dedicato al lavoro; in poche parole se mi riduci le tasse lavoro più perché per me diventa più conveniente. Lavorando di più, quindi, aumenta il reddito prodotto e siamo tutti più ricchi (aggiungerei anche un vissero felici e contenti) ma c’è un però. Per affermare le proprie tesi, questi signori utilizzano solo parzialmente il modello matematico che stiamo analizzando. Infatti, una riduzione delle imposte non necessariamente fa aumentare le ore lavorate perché se è vero che diventa più conveniente sostituire lavoro a tempo libero, così ragionando si tiene in considerazione esclusivamente l’effetto sostituzione. Come appreso dai libri di economia e di scienza delle finanze, nei modelli paretiani di curve d’indifferenza si analizzano sia l’effetto sostituzione, sia l’effetto reddito. Proprio quest’ultimo non è tenuto in considerazione nell’analisi di cui sopra. Riducendo le imposte si sostituisce lavoro a tempo libero perché più conveniente ma l’effetto sostituzione in questo caso è compensato dall’effetto reddito che prima non è stato preso in esame. Se mi riduci le tasse ho un maggior reddito disponibile a parità di lavoro rispetto al periodo precedente la riduzione. Per cui il soggetto potrebbe essere invogliato a ridurre ulteriormente le ore lavorate perché tanto il reddito disponibile è comunque aumentato. Insomma, perché lavorare di più quando posso avere lo stesso reddito precedente la riduzione delle imposte ma lavorando di meno?
(Sarebbe utile avere a disposizione un bel paio di assi cartesiani per spiegare la cosa ma basterà aprire un manualetto di economia alla voce effetto reddito-effetto sostituzione).
Tutto ciò per dimostrare che l’idea che una minore imposizione fiscale sia sempre e comunque di stimolo all’economia non ha nessuna evidenza empirica.

Terza notazione. Sfatiamo il mito che le imposte servano esclusivamente ad un esercito di burocrati per ingrassare il proprio stomaco capiente e pagarsi costose trasferte per tutto l’orbe terraqueo. Prendo dei dati dello Statistical Abstract of the United States. Questi sono dati ufficiali, una sorta di Istat americano.
Utilizzo non a casa gli USA, un paese sicuramente non socialista. Questi dati sono relativi al periodo della presidenza Bush, così non c’è il sospetto che siano influenzati dalle politiche di Obama, e riportano in ordine decrescente come sono distribuiti i soldi delle imposte all’interno del bilancio federale.
Il 21,6% è destinato alla sicurezza sociale. Il 19% alla difesa. Il 14% agli interessi sul debito. 10,3% Medicare (servizio sanitario pubblico per gli anziani). 6% Medicaid (servizio sanitario pubblico per i non abbienti). Il 4,4% Pensioni per i dipendenti federali. Poi seguono trasporti, autostrade, benefici per i vetrani (2,6%), spese per amministrare la giustizia. Insomma, quante di queste voci sono davvero indesiderabili dalla popolazione? Tutti gli americani convengono che sia giusto assicurare sicurezza sociale ai più anziani, che sia prestigioso contare su una forza armata poderosa o che sia necessario pagare il proprio debito pubblico. Insomma è facile urlare che le imposte servono ad alimentare clientele, ma certo non si venga a dire che questo è un discorso ragionato perché basta analizzare un po’ di dati economici per vedere quanto qualunquismo ci sia in simili affermazioni. Ovvio che il clientelismo si alimenti con denaro pubblico però questo non è un buon argomento a favore della riduzione delle imposte perché col denaro pubblico si finanzia anche una spesa ritenuta dai più necessaria e desiderabile.
Pensavo che i supply siders fossero in via di estinzione ma vedo che Krugman ha ragione quando dice che "…non dovremmo mai sorprenderci quando persone eminenti dicono solenni sciocchezze economiche. La storia delle dottrine economiche ci insegna che l’influenza di un’idea può non avere nulla a che fare con la sua qualità".

P.S. Ho usato all’inizio dell’intervento il vocabolo "panzana" non a caso. Nell’intervento di Giusperito a un certo punto c’è una interpretazione degli equilibri di Nash davvero fantasiosa. Dire che gli egoismi individuali nella loro lotta antagonista eliminano gli aspetti cruenti e generano una situazione desiderabile per tutti altro non è che una interpretazione della mano invisibile di Smith. Il che è l’esatto contrario degli equilibri di Nash, i quali si basano sull’assunto che è impossibile raggiungere una situazione di ottimo per tutti. In un equilibrio di Nash i soggetti antagonisti possono anche trovare una soluzione migliore per sé ma non necessariamente quella sarà la situazione ottima per il gruppo.



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JuanManuelFangio, 23/04/2011 13.02:

Ognuno è libero di indirizzare le proprie preferenze come vuole ma ascoltare anche un altro punto di vista aiuta sicuramente a formare una opinione più completa delle cose.
Ciò è vieppiù valido quando si è costretti a leggere anche delle colossali panzane.
Il discorso sulla riduzione delle tasse – diciamocelo – parla più alla pancia che alla testa delle persone, per cui è sempre difficile riportare le cose su un piano di comprensione e ragionevolezza.
Innanzitutto c’è una bella contraddizione che i nostri cari neoliberisti stentano a risolvere. Se ridurre le tasse ha un effetto positivo sui consumi, questi illuminati signori dovrebbero spiegarmi gentilmente a quale teoria del consumo si ispirano nel sostenere tali argomenti. Se Giusperito, per avventura, dovesse basare le sue idee sulle teorie monetariste, e quindi sulla visione del consumo secondo Milton Friedman (che è tra i suoi padri ideologici) allora sarebbe palese tutta la contraddittorietà che sta alla base della relazione tra una minore tassazione ed un aumento dei consumi. Difatti, la teoria monetarista sostiene vigorosamente che la teoria keynesiana del Consumo sia eccessivamente semplicistica. Non si può accettare, secondo Friedman, l’idea che il Consumo sia funzione crescente del reddito di un individuo sic et simpliciter. Il reddito per i monetaristi si distingue tra permanente e transitorio, e lo stesso Consumo si divide in permanente e transitorio a seconda del tipo di reddito utilizzato come variabile. Nella vita di un individuo, però, ciò che conta è logicamente il consumo permanente, perché quello transitorio, come è reso evidente anche dalla parola utilizzata, è un fenomeno momentaneo e soggetto a ciclicità. Il consumo permanente, in sintesi, è quello influenzato dal reddito permanente ed è relativamente stabile durante tutta la vita dell’individuo. Ora analizziamo questi concetti alla luce di una riduzione, grande o piccola che sia, delle imposte sul reddito dei cittadini. Un abbassamento delle aliquote genererà un aumento della liquidità nelle tasche delle persone che potrà essere imputato esclusivamente alla parte di reddito che prima abbiamo definito come temporaneo, perché si tratta di una riduzione una tantum. Se volessimo aumentare in modo considerevole il reddito permanente dei cittadini dovremmo attuare una politica di riduzione delle imposte durante l’intero ciclo vitale dell’individuo, e ciò sarebbe logicamente impossibile perché dovrebbe comportare una progressiva diminuzione delle aliquote fino a zero.


Sei pretestuoso. La teoria di Friedman al riguardo è citata bene, ma usata male. Il consumo sarebbe orientato sulla base del reddito che so non tassato di qui a sempre. Oggi se guadagno 100.000€ euro so che il 43% del mio sforzo produttivo viene drenato dallo Stato (restando solo all'imposta sul reddito). Ora immagino che anche domani sarà così e lo sarà dopodomani, anzi immagino che, essendoci scarsa cura del livello di imposizione, domani potrei ritrovarmi tassato ancora di più. Quando parlo di riduzione delle imposte non parlo di un provvedimento occasionale. Mi riferisco ad una riduzione di quell'aliquota. Nel momento in cui l'aliquota si attesta su un livello progressivamente discendente (43->40->38) o direttamente su un livello più basso (35)il consumatore sa che potrà godere della restante parte di reddito. Non è assolutamente vero che la diminuzione dell'imposta sul reddito deve arrivare a zero, ma deve stabilizzarsi intorno ad una determinata aliquota. Visto che citi Friedman, avremmo dovuto parlare della flat rate tax con il minimo esente, che tu sai quanto io prediliga. In quel caso come la metti?



Per cui, una riduzione delle imposte non genererà necessariamente – secondo una teoria liberista del consumo – un aumento dei consumi perché il reddito permanente, che è l’unica componente rilevante, non trarrà benefici da tali politiche. Infatti la grande critica alla teoria keynesiana da parte dei monetaristi si basa proprio sulla rottura della relazione tra reddito e consumo. Ma Giusperito non era tra quelli che negavano l’effetto del moltiplicatore sul reddito? Ora, per onestà intellettuale, o il moltiplicatore funziona sempre, cioè sia grazie alla spesa pubblica sia grazie ai consumi, o non funziona mai perché non c’è relazione tra reddito e consumo. Delle due l’una.


Ciò che varia è la portata del moltiplicatore. Ti linko questo: online.wsj.com/article/SB10001424052748704471504574440723298786...
Detta in soldoni per tutti. La spesa pubblica produce un moltiplicatore inferiore a quello prodotto dalla riduzione delle tasse. La risposta è che si fa di più e meglio con la riduzione delle tasse.



Sempre questa bella teoria che vuole la riduzione delle imposte come panacea di tutti i mali, mutuata dal peggior pensiero offertista, si fonda su un aspetto facilmente confutabile di mera scienza economica. Dicono questi signori che abbassando le tasse aumenta l’incentivo a lavorare di più, perché al margine diventa più conveniente scambiare tempo dedicato al tempo libero con il tempo dedicato al lavoro; in poche parole se mi riduci le tasse lavoro più perché per me diventa più conveniente. Lavorando di più, quindi, aumenta il reddito prodotto e siamo tutti più ricchi (aggiungerei anche un vissero felici e contenti) ma c’è un però. Per affermare le proprie tesi, questi signori utilizzano solo parzialmente il modello matematico che stiamo analizzando. Infatti, una riduzione delle imposte non necessariamente fa aumentare le ore lavorate perché se è vero che diventa più conveniente sostituire lavoro a tempo libero, così ragionando si tiene in considerazione esclusivamente l’effetto sostituzione. Come appreso dai libri di economia e di scienza delle finanze, nei modelli paretiani di curve d’indifferenza si analizzano sia l’effetto sostituzione, sia l’effetto reddito. Proprio quest’ultimo non è tenuto in considerazione nell’analisi di cui sopra. Riducendo le imposte si sostituisce lavoro a tempo libero perché più conveniente ma l’effetto sostituzione in questo caso è compensato dall’effetto reddito che prima non è stato preso in esame. Se mi riduci le tasse ho un maggior reddito disponibile a parità di lavoro rispetto al periodo precedente la riduzione. Per cui il soggetto potrebbe essere invogliato a ridurre ulteriormente le ore lavorate perché tanto il reddito disponibile è comunque aumentato. Insomma, perché lavorare di più quando posso avere lo stesso reddito precedente la riduzione delle imposte ma lavorando di meno?
(Sarebbe utile avere a disposizione un bel paio di assi cartesiani per spiegare la cosa ma basterà aprire un manualetto di economia alla voce effetto reddito-effetto sostituzione).
Tutto ciò per dimostrare che l’idea che una minore imposizione fiscale sia sempre e comunque di stimolo all’economia non ha nessuna evidenza empirica.



L'effetto di reddito lo conosciamo, ma il discorso è mal posto. Per aver senso non ridurre le tasse dovremmo avere un effetto di reddito superiore all'effetto di sostituzione.




Terza notazione. Sfatiamo il mito che le imposte servano esclusivamente ad un esercito di burocrati per ingrassare il proprio stomaco capiente e pagarsi costose trasferte per tutto l’orbe terraqueo. Prendo dei dati dello Statistical Abstract of the United States. Questi sono dati ufficiali, una sorta di Istat americano.
Utilizzo non a casa gli USA, un paese sicuramente non socialista. Questi dati sono relativi al periodo della presidenza Bush, così non c’è il sospetto che siano influenzati dalle politiche di Obama, e riportano in ordine decrescente come sono distribuiti i soldi delle imposte all’interno del bilancio federale.
Il 21,6% è destinato alla sicurezza sociale. Il 19% alla difesa. Il 14% agli interessi sul debito. 10,3% Medicare (servizio sanitario pubblico per gli anziani). 6% Medicaid (servizio sanitario pubblico per i non abbienti). Il 4,4% Pensioni per i dipendenti federali. Poi seguono trasporti, autostrade, benefici per i vetrani (2,6%), spese per amministrare la giustizia. Insomma, quante di queste voci sono davvero indesiderabili dalla popolazione? Tutti gli americani convengono che sia giusto assicurare sicurezza sociale ai più anziani, che sia prestigioso contare su una forza armata poderosa o che sia necessario pagare il proprio debito pubblico. Insomma è facile urlare che le imposte servono ad alimentare clientele, ma certo non si venga a dire che questo è un discorso ragionato perché basta analizzare un po’ di dati economici per vedere quanto qualunquismo ci sia in simili affermazioni. Ovvio che il clientelismo si alimenti con denaro pubblico però questo non è un buon argomento a favore della riduzione delle imposte perché col denaro pubblico si finanzia anche una spesa ritenuta dai più necessaria e desiderabile.


Qua hai fatto un capolavoro di malafede. Possiamo vedere a quanto ammonta in maniera percentuale la spesa sanitaria campana? Visto che si parla di una percentuale vicina al 70%, dovremmo avere gli ospedali d'oro.
Il problema non è rimuovere la spesa, ma come quella spesa avviene. Le tue percentuali non dimostrano nulla. Non ho mai parlato di ridurre i servizi, ma di ridurre gli sprechi nei servizi.
Se ti parlo della sanità campana, vinco facile. Il punto è che un servizio come, ad esempio, la guardia medica ha dei costi superiori al 200% di quanto sarebbe necessario per svolgere lo stesso servizio.
Nessuno vuole rinunciare alla spesa sanitaria, ma nessuno vuole che la spesa sanitaria costi di più del necessario. In pratica è come se per un taglietto al dito tu non usassi un cerotto, ma mille cerotti.


Pensavo che i supply siders fossero in via di estinzione ma vedo che Krugman ha ragione quando dice che "…non dovremmo mai sorprenderci quando persone eminenti dicono solenni sciocchezze economiche. La storia delle dottrine economiche ci insegna che l’influenza di un’idea può non avere nulla a che fare con la sua qualità".

P.S. Ho usato all’inizio dell’intervento il vocabolo "panzana" non a caso. Nell’intervento di Giusperito a un certo punto c’è una interpretazione degli equilibri di Nash davvero fantasiosa. Dire che gli egoismi individuali nella loro lotta antagonista eliminano gli aspetti cruenti e generano una situazione desiderabile per tutti altro non è che una interpretazione della mano invisibile di Smith. Il che è l’esatto contrario degli equilibri di Nash, i quali si basano sull’assunto che è impossibile raggiungere una situazione di ottimo per tutti. In un equilibrio di Nash i soggetti antagonisti possono anche trovare una soluzione migliore per sé ma non necessariamente quella sarà la situazione ottima per il gruppo.

Sono stato impreciso e lo ammetto. Quando mi sono riferito a Nash, usando il termine una sorta mi riferivo alla semplificazione: fare ciò che è meglio per sé e per il gruppo.





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24/04/2011 20:25
 
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l'ennesima cazzata.

chi lo porta il conto?

ormai hanno detto tutto ed il contrario di tutto (B. mi pare volesse toglierlo da mezzo il parlamento)

e cmq, cazzata a parte, è il concetto che non va. Basta questo per dire no.



...Kusovme
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Re:
JuanManuelFangio, 23/04/2011 13.02:

Ognuno è libero di indirizzare le proprie preferenze come vuole ma ascoltare anche un altro punto di vista aiuta sicuramente a formare una opinione più completa delle cose.
Ciò è vieppiù valido quando si è costretti a leggere anche delle colossali panzane.
Il discorso sulla riduzione delle tasse – diciamocelo – parla più alla pancia che alla testa delle persone, per cui è sempre difficile riportare le cose su un piano di comprensione e ragionevolezza.
Innanzitutto c’è una bella contraddizione che i nostri cari neoliberisti stentano a risolvere. Se ridurre le tasse ha un effetto positivo sui consumi, questi illuminati signori dovrebbero spiegarmi gentilmente a quale teoria del consumo si ispirano nel sostenere tali argomenti. Se Giusperito, per avventura, dovesse basare le sue idee sulle teorie monetariste, e quindi sulla visione del consumo secondo Milton Friedman (che è tra i suoi padri ideologici) allora sarebbe palese tutta la contraddittorietà che sta alla base della relazione tra una minore tassazione ed un aumento dei consumi. Difatti, la teoria monetarista sostiene vigorosamente che la teoria keynesiana del Consumo sia eccessivamente semplicistica. Non si può accettare, secondo Friedman, l’idea che il Consumo sia funzione crescente del reddito di un individuo sic et simpliciter. Il reddito per i monetaristi si distingue tra permanente e transitorio, e lo stesso Consumo si divide in permanente e transitorio a seconda del tipo di reddito utilizzato come variabile. Nella vita di un individuo, però, ciò che conta è logicamente il consumo permanente, perché quello transitorio, come è reso evidente anche dalla parola utilizzata, è un fenomeno momentaneo e soggetto a ciclicità. Il consumo permanente, in sintesi, è quello influenzato dal reddito permanente ed è relativamente stabile durante tutta la vita dell’individuo. Ora analizziamo questi concetti alla luce di una riduzione, grande o piccola che sia, delle imposte sul reddito dei cittadini. Un abbassamento delle aliquote genererà un aumento della liquidità nelle tasche delle persone che potrà essere imputato esclusivamente alla parte di reddito che prima abbiamo definito come temporaneo, perché si tratta di una riduzione una tantum. Se volessimo aumentare in modo considerevole il reddito permanente dei cittadini dovremmo attuare una politica di riduzione delle imposte durante l’intero ciclo vitale dell’individuo, e ciò sarebbe logicamente impossibile perché dovrebbe comportare una progressiva diminuzione delle aliquote fino a zero.
Per cui, una riduzione delle imposte non genererà necessariamente – secondo una teoria liberista del consumo – un aumento dei consumi perché il reddito permanente, che è l’unica componente rilevante, non trarrà benefici da tali politiche. Infatti la grande critica alla teoria keynesiana da parte dei monetaristi si basa proprio sulla rottura della relazione tra reddito e consumo. Ma Giusperito non era tra quelli che negavano l’effetto del moltiplicatore sul reddito? Ora, per onestà intellettuale, o il moltiplicatore funziona sempre, cioè sia grazie alla spesa pubblica sia grazie ai consumi, o non funziona mai perché non c’è relazione tra reddito e consumo. Delle due l’una.
Sempre questa bella teoria che vuole la riduzione delle imposte come panacea di tutti i mali, mutuata dal peggior pensiero offertista, si fonda su un aspetto facilmente confutabile di mera scienza economica. Dicono questi signori che abbassando le tasse aumenta l’incentivo a lavorare di più, perché al margine diventa più conveniente scambiare tempo dedicato al tempo libero con il tempo dedicato al lavoro; in poche parole se mi riduci le tasse lavoro più perché per me diventa più conveniente. Lavorando di più, quindi, aumenta il reddito prodotto e siamo tutti più ricchi (aggiungerei anche un vissero felici e contenti) ma c’è un però. Per affermare le proprie tesi, questi signori utilizzano solo parzialmente il modello matematico che stiamo analizzando. Infatti, una riduzione delle imposte non necessariamente fa aumentare le ore lavorate perché se è vero che diventa più conveniente sostituire lavoro a tempo libero, così ragionando si tiene in considerazione esclusivamente l’effetto sostituzione. Come appreso dai libri di economia e di scienza delle finanze, nei modelli paretiani di curve d’indifferenza si analizzano sia l’effetto sostituzione, sia l’effetto reddito. Proprio quest’ultimo non è tenuto in considerazione nell’analisi di cui sopra. Riducendo le imposte si sostituisce lavoro a tempo libero perché più conveniente ma l’effetto sostituzione in questo caso è compensato dall’effetto reddito che prima non è stato preso in esame. Se mi riduci le tasse ho un maggior reddito disponibile a parità di lavoro rispetto al periodo precedente la riduzione. Per cui il soggetto potrebbe essere invogliato a ridurre ulteriormente le ore lavorate perché tanto il reddito disponibile è comunque aumentato. Insomma, perché lavorare di più quando posso avere lo stesso reddito precedente la riduzione delle imposte ma lavorando di meno?
(Sarebbe utile avere a disposizione un bel paio di assi cartesiani per spiegare la cosa ma basterà aprire un manualetto di economia alla voce effetto reddito-effetto sostituzione).
Tutto ciò per dimostrare che l’idea che una minore imposizione fiscale sia sempre e comunque di stimolo all’economia non ha nessuna evidenza empirica.

Terza notazione. Sfatiamo il mito che le imposte servano esclusivamente ad un esercito di burocrati per ingrassare il proprio stomaco capiente e pagarsi costose trasferte per tutto l’orbe terraqueo. Prendo dei dati dello Statistical Abstract of the United States. Questi sono dati ufficiali, una sorta di Istat americano.
Utilizzo non a casa gli USA, un paese sicuramente non socialista. Questi dati sono relativi al periodo della presidenza Bush, così non c’è il sospetto che siano influenzati dalle politiche di Obama, e riportano in ordine decrescente come sono distribuiti i soldi delle imposte all’interno del bilancio federale.
Il 21,6% è destinato alla sicurezza sociale. Il 19% alla difesa. Il 14% agli interessi sul debito. 10,3% Medicare (servizio sanitario pubblico per gli anziani). 6% Medicaid (servizio sanitario pubblico per i non abbienti). Il 4,4% Pensioni per i dipendenti federali. Poi seguono trasporti, autostrade, benefici per i vetrani (2,6%), spese per amministrare la giustizia. Insomma, quante di queste voci sono davvero indesiderabili dalla popolazione? Tutti gli americani convengono che sia giusto assicurare sicurezza sociale ai più anziani, che sia prestigioso contare su una forza armata poderosa o che sia necessario pagare il proprio debito pubblico. Insomma è facile urlare che le imposte servono ad alimentare clientele, ma certo non si venga a dire che questo è un discorso ragionato perché basta analizzare un po’ di dati economici per vedere quanto qualunquismo ci sia in simili affermazioni. Ovvio che il clientelismo si alimenti con denaro pubblico però questo non è un buon argomento a favore della riduzione delle imposte perché col denaro pubblico si finanzia anche una spesa ritenuta dai più necessaria e desiderabile.
Pensavo che i supply siders fossero in via di estinzione ma vedo che Krugman ha ragione quando dice che "…non dovremmo mai sorprenderci quando persone eminenti dicono solenni sciocchezze economiche. La storia delle dottrine economiche ci insegna che l’influenza di un’idea può non avere nulla a che fare con la sua qualità".

P.S. Ho usato all’inizio dell’intervento il vocabolo "panzana" non a caso. Nell’intervento di Giusperito a un certo punto c’è una interpretazione degli equilibri di Nash davvero fantasiosa. Dire che gli egoismi individuali nella loro lotta antagonista eliminano gli aspetti cruenti e generano una situazione desiderabile per tutti altro non è che una interpretazione della mano invisibile di Smith. Il che è l’esatto contrario degli equilibri di Nash, i quali si basano sull’assunto che è impossibile raggiungere una situazione di ottimo per tutti. In un equilibrio di Nash i soggetti antagonisti possono anche trovare una soluzione migliore per sé ma non necessariamente quella sarà la situazione ottima per il gruppo.






26/04/2011 17:31
 
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Re: Re: Re:
giusperito, 22/04/2011 00.29:




Grazie... fa sempre piacere veder crescere la mia minoranza [SM=x43610]




[SM=x43604]
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