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Travaglio VS Saviano: ora chi avrà più ragione dei due?

Ultimo Aggiornamento: 13/11/2010 00:55
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12/11/2010 00:26
 
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I dati d’ascolto hanno già fatto giustizia delle censure preventive tentate dai Tafazzi della Rai contro Vieni via con me. Sulla qualità del programma nessuno ha avuto nulla da ridire: sarebbe curioso il contrario, in una tv farcita di politicanti, servi, mignotte di regime e silicone. Solo in un Paese ridotto a lazzaretto uno scrittore del calibro di Saviano attenderebbe quattro anni dal trionfo di Gomorra prima di avere in tv uno spazio tutto suo. Ciò premesso, Roberto potrebbe convenire con noi che molti, da uno come lui, si aspettavano qualcosa in più.

Non c’era bisogno di scomodare lui per dire che Falcone era un uomo giusto e per questo fu vilipeso in vita e beatificato post mortem: tutte cose ampiamente risapute. Da Saviano ci si attende che parli dei vivi, non dei morti già santificati: cioè di quei personaggi (magistrati, ma non solo) che oggi rappresentano una pietra d’inciampo per il regime e proprio per questo, come Falcone, vengono boicottati, screditati e infangati appena osano sfiorare certi santuari. Elencarli è superfluo, li conosciamo bene. E conosciamo gli argomenti tabù di cui in tv conviene non parlare, perché chiunque ci abbia provato s’è ritrovato in mezzo a una strada o in un dossier di Pio Pompa e i suoi fratelli.

L’impressione è che, nel programma di Fazio e Saviano, si sia deciso di rinviare ad altra data i temi più scottanti (mafia e Stato, trattative sulle stragi, monnezza e politica camorrista, casi Dell’Utri, Cuffaro, Schifani), lasciando al magnifico Benigni il ruolo del rompighiaccio. Speriamo che vengano recuperati nelle prossime puntate. La critica, dunque, investe non tanto Saviano, quanto i suoi autori, che hanno allestito il perfetto presepe della sinistra politicamente corretta, con tutti i santini, gli angioletti, i pastori, le pecorelle e le altre statuine leccate e laccate, pettinate e patinate. La versione televisiva delle figurine Panini veltroniane. Da quel presepe, in cui è appena entrata la statuina di un Vendola sempre più imparruccato, devono sparire le figure controverse, scapigliate, borderline.

E allora, per una malintesa par condicio, ecco l’assurdo parallelo tra la “fabbrica del fango” dei corvi anti-Falcone e chi, magari sbagliando ma mettendoci la faccia, criticò il giudice poi morto ammazzato. Chi scrive pensa che il grande Sciascia, mal consigliato, prese un’epica cantonata accomunando Borsellino ai “professionisti dell’antimafia”, infatti ne fece pubblica ammenda in un incontro con Borsellino. Ma tutt’altro discorso meritano i rilievi che molti suoi amici mossero a Falcone quando andò a lavorare per il ministro Martelli nel governo Andreotti. Saviano ha mostrato l’avvocato Alfredo Galasso mentre, sul palco di Costanzo, invitava l’amico Giovanni a “uscire dal palazzo” maleodorante di cui entrambi conoscevano i padroni di casa e i rapporti con la mafia già immortalati – Leoluca Orlando lo ricordò quella sera, nella staffetta Santoro-Costanzo – nelle relazioni dell’Antimafia. Chi l’ha detto che avesse torto Galasso e ragione Falcone?

Il fatto che Falcone sia un martire cristallino della lotta alla mafia non significa che non abbia mai sbagliato in vita sua. Il suo primo progetto di Superprocura (assoggettata al governo) disegnato con Martelli suscitò la rivolta di centinaia di magistrati, Borsellino compreso. E in ogni caso Galasso le critiche a Falcone le mosse vis à vis, senza nascondere la faccia o la mano in dossier o lettere anonime. Che c’entra allora Galasso con la fabbrica del fango? Non a torto, Aldo Grasso ha definito gli eccessi di retorica di Vieni via con me come un antipasto del governo di unità nazionale. Lunedì sera il conformismo “de sinistra” che pettina tutti allo stesso modo ha sbaragliato il conformismo berlusconiano del Grande Fratello. Ma c’è da dubitare che sia quello l’antidoto al berlusconismo. Questo sarà pure al tramonto, ma almeno è durato trent’anni. Il presepe del perfetto progressista rischia di stufare molto prima.

[SM=x43638]
[Modificato da giusperito 12/11/2010 00:29]
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12/11/2010 00:30
 
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come messo in grassetto il passo su Vendola..
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12/11/2010 01:05
 
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Ma il discorso è di travaglio? Se è così lo capisco, poveretto deve sentirsi scavalcato a sinistra da saviano.
Tra i due la differenza è che Saviano forse è ancora in buon fede, mentre Travaglio è un falsario conclamato, almeno per chi conosce bene i fatti che racconta con le dovute glosse.

1) Se non ho capito male rimprovera a Saviano di non aver accennato alla cosiddetta trattativa tra mafia e stato che è diventata l'ossessione di travaglio e del fatto quotidiano, oltre che della procura di palermo, che è una PALLA conclamata.
E non lo dico io, ma le sentenze del tribunale di PALERMO. Falcone e Borsellino furono uccisi perché si stavano occupando dell'indagine su Mafia e Appalti, che coinvolgeva gli interessi occulti della meglio società italiana, compresi molti magistrati. I due magistrati morirono, mentre gli uomini che si occuparono di quella indagine, autentici eroi dell'antimafia, gente come il capitano Giuseppe De donno(uno dei pochi che desse del tu a falcone), il generale Mori, il colonello de caprio, solo per citarne alcuni, furono crocifissi pubblicamente dai magistrati che tanto picciano a travaglio.
Magistrati che poi si è scoperto si facevno ristrutturare la villetta al mare da michele ajiello, il braccio destro di provenzano, ed avevano come consulenti principali il maresciallo ciuro, nota spia della mafia condannato nel processo cuffaro, su cui non avevano mai avuto sospetti, chissà perchè. Maresciallo ciuro che era poi anche l'amico del cuore di Marco, l'uomo che gli passava tutte le dritte per i suoi scoop.
Questo aspetto del processo cuffaro marco lo tace sempre.

2) la critica su Galasso è giusta, lì Saviano è stato penoso, ma per una cosa ben differente, cioè perché non ha citato il vero scandalo, che anche travaglio si dimentica.
Cioè che su quel palco LEOLUCA ORLANDO, oggi deputato dell'IDV, accusò falcone di tenere le carte nei cassetti per proteggere i suoi amici politici. Cosa che Falcone visse, giustamente, come una enorme offesa alla sua dignità di magistrato.
E travaglio si dimentica che in prima linea nell'opera di delegittimazione di falcone ci furono i magistrati di magistratura democratica, che gli votarono sempre contro nel consiglio superiore della magistratura, a cominciare dal 1988 quando si trattò della nomina a capo istruttore di palermo, quando gli preferirono quel losco figuro di antonino meli che mise falcone a fare il passacarte.
Durante un convegno di magistratura democratica, lo racconta la dottoressa boccassini che è insospettabile, falcone fu definito un NEMICO POLITICO. Ma tutto questo a Marconiglio che importa?

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12/11/2010 12:28
 
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beh è un pò quello ce dicevo io della trasmissione,Saviano a volte scade nelle retorica,direi molte volte.
Ricordo quando a un seminario di procedura penale,3 anni fa se non erro, un giudice,uno di quelli silenziosi(che non va in Tv) lo asserì apertamente, suscitando il sarcasmo dei più.
Secondo me le cose vanno giudicate con il giusto distacco, Saviano è diventato troppo presto una persona cd. intoccabile ,qualsiasi critica gli si rivolga viene quasi quasi inserita in una lotta Stato-mafia.Non capisco seriamente il perchè,rimane il fatto che diventando personaggio mediatico ,evidentemente di sinistra sta anche sciupando ciò che di buono,in modo neutrale,ha fatto e avrei sperato continuasse a fare con i libri ,contro la camorra

purtroppo è salito sul carro degli anti -berlusconi e berluscones,ciò pagherà in termini di credibilità
[Modificato da legittimagiustizia 12/11/2010 12:33]









IO NON VESTO!! IO COPRO IL MONDO
12/11/2010 12:37
 
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letto:certo sono gli idoli che si contendono il favore dei delusi del centro sinitra,travaglio mi fa molto"regina spodestasta",ma in effetti le considerazioni che fa su saviano,sul fatto che poteva osare di piu sono condivisibili,ma l'accoppiata con fazio aveva gia' reso tutto molto chiaro che la linea del programma sarebbe stata oggettivamente un'altra,piu letteraria e autocelebrativa,che politica in senso stretto(ovvero posizioni costruttive,e non solo delegittimanti di un qualcosa che e' gia delegittimato).
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12/11/2010 14:00
 
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Saviano a differenza di Travaglio secondo me, non e' cosi' aprioristicamente schierato. A me da' l' impressione di un intellettuale che osserva i fatti, denunciandone il marciume, indipendentemente dal fatto che esso venga da destra o sinitra. Non so se mi spiego, lui parla, affronta tanto un argomento che puo' essere "la macchina del fango" quanto un discorso in difesa dello stato di Israele...
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12/11/2010 14:34
 
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Solo in un Paese ridotto a lazzaretto uno scrittore del calibro di Saviano attenderebbe quattro anni dal trionfo di Gomorra prima di avere in tv uno spazio tutto suo.


Ma dico: è mai possibile che si debba guardare alla tv come necessario approdo anche per uno scrittore? Non vedo nessun rapporto di causa ad effetto tra lo scrivere un'opera letteraria (anche di alto contenuto civile) e il meritarisi "in tv uno spazio tutto suo". In nessuna paese del mondo civile si pretende per gli scrittori un approdo televisivo.

Quanto alla favola bella (letta su tutti i giornali di destra come quelli di sinistra) che Saviano non c'entrerebbe niente con la sinistra, mi piacerebbe che lo stesso Saviano dicesse una volta e per tutte chiaramente la sua storia. Molti la conoscono. E sanno di quali fossero le sue idee di sinistra ultra radicale. Nulla di male. Ma almeno si dica la verità!
[Modificato da maximilian1983 12/11/2010 14:35]






Nolite conformari huic saeculo sed reformamini in novitate sensus vestri.
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12/11/2010 15:21
 
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ho sentito al tg3 che è stato vietato al programma di fazio-saviano

di ospitare bersani e fini in quanto il programma non prevede

"ospiti politici"
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12/11/2010 17:51
 
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Re:
maximilian1983, 12/11/2010 14.34:



Quanto alla favola bella (letta su tutti i giornali di destra come quelli di sinistra) che Saviano non c'entrerebbe niente con la sinistra, mi piacerebbe che lo stesso Saviano dicesse una volta e per tutte chiaramente la sua storia. Molti la conoscono. E sanno di quali fossero le sue idee di sinistra ultra radicale. Nulla di male. Ma almeno si dica la verità!



davvero?
io ho conosciuto Saviano ai tempi del liceo ed era un fascistone... [SM=x43667]
(intendiamoci: non nel senso letterale del termine, ma è sempre stato molto di destra)
[Modificato da gran generale 12/11/2010 17:52]
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12/11/2010 19:12
 
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Re: Re:
gran generale, 12/11/2010 17.51:



davvero?
io ho conosciuto Saviano ai tempi del liceo ed era un fascistone... [SM=x43667]
(intendiamoci: non nel senso letterale del termine, ma è sempre stato molto di destra)




Però nel periodo in cui scriveva gomorra lavorava per il manifesto.
Io me lo ricordo che lo incontrai sei anni fa e si presentò come giornalista di quel giornale.
Sarà stato del PNF(per necessità di famiglia).

Comunque è vero che saviano non può essere definito di sinistra, ma nemmeno uno di destra nel senso classico, se non per il fatto che spesso le sue idee pratiche sono vicine a quelle del prefetto mori di cui mi aspetto un prossimo elogio.
Saviano è un esponente della cultura idealistica meridionale che ha una lunga tradizione sia a destra che a sinistra, che ha come base di fondo l'idea che tutti i problemi della vita si trasformino in questioni morali dove ognugno, cercando l'eroe che è in sé, deve trovare la forza morale per battersi contro il "male". Questo è il tema che pervade tutto il suo racconto, la retorica sulla forza della parole, la questione su cui batteva moltissimo degli africani che si erano ribellati ecc. In pratica una cultura che nel contesto meridionalistico dominato dal fatalismo finisce per far si che l'eroe solitario, cioè nel caso di specie lui, sia l'unica che, per dirla alla star wars, ha la forza con se e dunque va ammirato e rispettato a prescindere.

[Modificato da trixam 12/11/2010 19:13]
12/11/2010 19:31
 
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Re: Re: Re:
trixam, 12/11/2010 19.12:




Però nel periodo in cui scriveva gomorra lavorava per il manifesto.
Io me lo ricordo che lo incontrai sei anni fa e si presentò come giornalista di quel giornale.
Sarà stato del PNF(per necessità di famiglia).

Comunque è vero che saviano non può essere definito di sinistra, ma nemmeno uno di destra nel senso classico, se non per il fatto che spesso le sue idee pratiche sono vicine a quelle del prefetto mori di cui mi aspetto un prossimo elogio.
Saviano è un esponente della cultura idealistica meridionale che ha una lunga tradizione sia a destra che a sinistra, che ha come base di fondo l'idea che tutti i problemi della vita si trasformino in questioni morali dove ognugno, cercando l'eroe che è in sé, deve trovare la forza morale per battersi contro il "male". Questo è il tema che pervade tutto il suo racconto, la retorica sulla forza della parole, la questione su cui batteva moltissimo degli africani che si erano ribellati ecc. In pratica una cultura che nel contesto meridionalistico dominato dal fatalismo finisce per far si che l'eroe solitario, cioè nel caso di specie lui, sia l'unica che, per dirla alla star wars, ha la forza con se e dunque va ammirato e rispettato a prescindere.





questo e' vero fino ad un certo punto,ma penso o almeno mi sembra che abbia smesso i panni dell'eroe,al massimo ora potrebbe essere definito un intellettuale che tenta o che ha la presunzione di risvegliare le coscienze,pur non avendo le qualita'artistiche e personali per portare avanti un progetto cosi ambizioso.
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12/11/2010 19:33
 
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Re: Re: Re:
trixam, 12/11/2010 19.12:


Però nel periodo in cui scriveva gomorra lavorava per il manifesto.
Io me lo ricordo che lo incontrai sei anni fa e si presentò come giornalista di quel giornale.
Sarà stato del PNF(per necessità di famiglia).




non saprei dirti.. ho solo riferito quello che ricordo (e bene) [SM=x43606]
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12/11/2010 19:49
 
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Re: Re:
gran generale, 12/11/2010 17.51:



davvero?
io ho conosciuto Saviano ai tempi del liceo ed era un fascistone... [SM=x43667]
(intendiamoci: non nel senso letterale del termine, ma è sempre stato molto di destra)




Non è difficile trovare persone che dalla scuola all'università (specie lettere e filosofia) oppure nel corso della loro vita fanno una torsione a 180 gradi (che poi nella mia visione delle cose equivale a 360 gradi [SM=x43668] ) delle loro tendenze politiche. Anche Fazio (inteso Fabiofazio) era del Fuan. Come Fini. Ma anche Mussolini, tutto sommato.






Nolite conformari huic saeculo sed reformamini in novitate sensus vestri.
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12/11/2010 20:53
 
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Mi sono ricordato di un lungo articolo di Andrea Scanzi apparso su Micromega nel febbraio del 2009. Secondo me c'è la cifra della lettura del programma sulla base delle critiche di Scanzi a Fazio (e il programma risente di un accentuato "fazismo", nonostante i grandi ospiti). L'articolo anche se è di quasi due anni fa (in pieno veltronismo, sebbene in fase decadente) è secondo me ancora attualissimo. E corrisponde a certi appunti da parte di Travaglio (collega di Scanzi a Micromega). Anzi guardando la trasmissione mi sono ricordato dell'articolo che allora condivisi in pieno, nonostante la mia lontananza abissale, in termini politici, dall'autore. Ve lo ripropongo. E' molto lungo, ma ne vale la pena.

Il veltronismo, ideologia debole per un partito liquido, è dotato di una galassia molto ricca di icone e figurine artistiche e culturali. Benigni, Celentano, Jovanotti… Ma soprattutto Fabio Fazio, il cantore del ‘volemosebenismo’, il maestro del ‘paraculismo d’essai’, il campione dell’‘arborismo iper-familiare’, il Paolo Limiti di sinistra che ‘sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia’. Un personaggio che come nessuno ha saputo tramutare ‘la pavidità in cifra stilistica’. di Andrea Scanzi, da MicroMega 1/2009

Fazio, Benigni, Celentanotti: i santini del veltronismo. Ognuno diverso, ognuno uguale.
Il più santino di tutti è Fabio Fazio, che andrebbe forse scritto tutto attaccato, come un’orazione, come un’omelia, come un rosario progressista: Fabiofazio, alla Daniele Luttazzi. Oppure Faziofabio, alla Antonio Albanese.
Fazio è un fantasista che ha smesso di essere prestissimo tale. Inizialmente smarrito tra l’arte dell’imitazione e quella della conduzione, Fazio ha presto abbracciato un arborismo iper-familiare. Mansueto per scelta, disinnescato per vocazione.
Negli anni ha saputo costruire un proprio codice mediatico, divenendo straordinario creatore di consenso, intercettando l’auditel e imponendo l’unanimismo fazioso: qualcosa che va (quasi) al di là delle fazioni e dello share.
Il successo definitivo è coinciso con la sua definitiva elezione a Paolo Limiti di sinistra, prima con Quelli che il calcio (che ai tempi di Odeon Tv si chiamava Forza Italia) e poi con Anima mia.
Che tempo che fa ha sancito un ulteriore passaggio. Il conduttore si è fatto demiurgo, simulacro. Il padrone di casa è divenuto sacerdote culturale, per meglio dire dispensatore primo dell’idea che un elettore medio del Partito democratico può avere della cultura in un programma su RaiTre.
Fabio Fazio ha meriti innegabili. È capace di portare in tivù coloro che la tivù non la amano, da Nanni Moretti a Umberto Eco, da Roberto Saviano al compianto Enzo Biagi. Per fare anche solo un esempio, il suo colloquio con Beppino Englaro – lo scorso 10 gennaio – è stato un toccante momento di televisione «civica».
Fazio ha un talento naturale nell’essere «amico di». Quasi tutte le migliori menti italiane si fidano di lui, o più prosaicamente sanno che oggi il convento mediatico non passa di meglio, sin dai tempi delle feste di Cuore. Se Massimo Troisi ironizzava sulla rubrica magica di Gianni Minà (uno dei primi personaggi imitati dal giovane Fazio), al conduttore di Che tempo che fa nulla è precluso. Persino edificare una riuscita serata-tributo per il decennale della scomparsa di Fabrizio De André. Persino orchestrare una puntata monografica su Adriano Celentano, dopo che il Molleggiato lo aveva definito (nel 2001) «un ipocrita dai modi gentilini e perbenini esperto in lavaggi del cervello». Opinione tranciante, ma non così isolata, se si oltrepassa il velo di intoccabilità che ammanta Fazio.
Il quale, seguendo la regola del «meno peggio», è uno dei primi da salvare. Chiaro che meglio lui (o meno peggio lui) di molti altri burattinai dell’etere. E poi Che tempo che fa non è solo Fazio: è Luciana Littizzetto, è (soprattutto) Antonio Albanese.
Dov’è, allora, il problema? Da nessuna parte, per chi si accontenta. Per i più esigenti risiede invece nel santino, nel simulacro. Nel Fabiofazio, nel Faziofabio. Nella sensazione che i suoi programmi siano belli nonostante lui. Come una macchina di Formula Uno così ben congegnata da vincere a dispetto di un pilota che pare più che altro un tassista.
Gli ospiti sono quasi sempre notevoli. Basterebbe poco, una stimolazione minima, per esaltarli. Ma Fazio non stimola: titilla. Per scelta. Tutto, in lui, è calcolato.
Quando era solo un imitatore, un quasi-fantasista, si divertiva a raffigurare Biagi (il suo mito) come un inquisitore che crivellava implacabilmente l’intervistato. Fabiofazio è esattamente l’opposto, a partire dal declassamento (che per lui è atto d’educazione) a cui sottopone gli amici che siedono alla sua sinistra, come apostoli accondiscendenti: non «intervistati», bensì «ospiti». Il perché è evidente, lo ha spiegato lui stesso: «Le domande scomode sono un mito, che bisogno c’è di essere cattivi?».
Certo, che bisogno c’è? Perché scoperchiare disgraziatamente qualche verità e rischiare – ancor più disgraziatamente – il posto di lavoro e i due milioni di euro annui che percepisce dalla Rai? «Nel talk show le persone sono ospiti, non intervistati. Le tratto in modo gentile non perché sia la strada più comoda, ma per educazione».
Il Codice di Fabiofazio è la non-intervista. Non è che lui insegua la prima domanda, men che meno la seconda: no, lui rinuncia a prescindere alla con-versazione filosoficamente intesa. È un intervistatore senza interviste, un domandante senza domande, un colloquiante senza colloquio. Ossimori tanto bizzarri (come un angelo senza ali, un tennista senza racchetta, un fantasista senza fantasia) quanto redditizi.
Una sua tecnica consolidata è quella di declinare la discussione in cazzeggio, disinnescandola a priori. In questo è maestro. Così, di fronte a Gianluca Vialli, uno dei suoi ottomila miti, Fazio si guarda bene dal toccare argomenti scabrosi come doping e processo Juventus, preferendo buttarla democraticamente in vacca, chiedendo all’acme del colloquio: «È vero che in Inghilterra non c’è il bidet?».
Domande vibranti, si converrà. Come quelle con cui ha accolto Margherita Hack. Si poteva incentrare la conversazione su temi come testamento biologico, eutanasia. Oltretutto era la stessa puntata di Beppino Englaro. Anche qui, Fazio ha indossato il sorrisetto di default – perché non solo il cosa, anche il come (gesti, sguardi, prossemica) deve rassicurare – e ha sciorinato il suo rosario di facezie: «Come stanno i suoi gatti? Perché le piace Pinocchio ma non Harry Potter?».
Chiamatelo, se volete, giornalismo d’assalto. O, forse, giornalismo assaltato.
Naturale che, di fronte a una Iper-Nemesi come Marco Travaglio, da lui verosimilmente invitato sotto gli stessi fumi che portarono John Lennon a scrivere I am the walrus, Fazio (che è sì beatlesiano, ma ovviamente mccartneiano), sia sbiancato.
Dal canto suo, Travaglio ha finto di non sapere che, se si va da Fazio, lo si fa per fini commerciali (per gli esperti una sua ospitata frutta 20 mila copie di libri venduti). Se si accetta l’invito, bisogna stare al gioco. Da Fazio non c’è contenuto, solo forma. Si parla, ma non si dice nulla. Si muove la bocca, ma quel che ne esce è solo suono. Da Fazio si è pesci con l’audio. Travaglio invece prendeva ogni pretesto per tornare sul contingente, tramutando la fumosità consapevole delle domande («Il senso di apocalisse decadente che si esprime nei tuoi libri, è qualcosa di nuovo o ha ragione Baricco che ci ha insegnato come da sempre viviamo in una perenne mutazione dei barbari?») in appiglio per parlare di mafia. E Fazio, sempre col sorriso sulle labbra (guai a corrucciarsi), ripeteva afflitto: «Mi tocca dissociarmi, non sono d’accordo su niente con te». Poi, nei giorni successivi, l’eroica Via Crucis. Prima ha letto diligentemente le scuse Rai a firma Claudio Cappon, poi si è cosparso il cherubino crine di cenere penitenziale, asserendo – con ammiccamento a Schifani – che «rispettare la doppia libertà, quella di chi c’è e di chi non c’è, è sempre stato e rimarrà l’obiettivo di questa trasmissione». E giù, applausi dalla claque radical-chic.
Fazio sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia. È intimamente terrorizzato all’idea di essere oscurato, e il bello è che lui crede veramente di correre questo rischio. Gli è bastato un allentamento da La7 – con una buonuscita che da sola sfamerebbe il Belize – per convincersi di poter essere percepito come reale minaccia politica.
Ogni volta che viene minimamente criticato, quasi sempre da un eminente statista di centro-destra – tipo Maurizio Gasparri – lui si dissocia da se stesso e chiede scusa. Come nel dicembre scorso, quando di fronte alle lamentele di Gasparri (appunto), che sosteneva come a Che tempo che fa andassero solo ospiti di centro-sinistra, Fazio ha pugnacemente difeso la libertà. Come? Dando interamente ragione al potere (che per il «suo» De André, ontologicamente, non poteva essere buono): «Gasparri, per quanto mi riguarda, ha perfettamente ragione. Sono però certo che entro maggio rispetteremo i numeri che ci hanno sempre contraddistinto, con una sostanziale parità tra centro-sinistra e centro-destra».
Sì, ma non è un approccio un po’ troppo sussiegoso, si domanderà forse a questo punto il solito estremista? «La politica non è il mio editore», replica lui. «Non posso scendere al livello di chi parla di lacché, servi e quelle altre definizioni. Non rispondo che al pubblico e devo avere rispetto del pubblico. Se sento di riuscire in questo non mi interessa altro».
Amen.
Nessuno si era mai abbarbicato così ferocemente al quieto vivere, al volemosebenismo. Nessuno aveva mai saputo tramutare in ambito giornalistico la «pavidità» in cifra stilistica. Men che meno a sinistra, parte (se ancora esiste) d’Italia teoricamente allignante di uomini esigenti, dallo spiccato senso critico e dalla fiera aspirazione a qualcosa che non ha mai intaccato le ambizioni di Fazio: andare oltre il senso e il luogo comune.
Laddove nessuno pare più esigere dall’artista (o dal conduttore) un ulteriore batter d’ali affinché un minimo si elevi, per oltrepassare il fascio conformista e omologante, per alludere almeno a un gaberiano altrove, appare quasi fisiologico il successo di Fabiofazio. Un tempo con i comici ci si indignava, ad esempio con il Su la testa! di Paolo Rossi (che Fazio ha avuto il merito di riportare in tivù). Oggi, no: in mancanza di meglio e surplus di meno peggio, va benissimo Faziofabio.
Se un programma così lo facesse Emilio Fede (e un po’ lo fa), la critica di sinistra lo demolirebbe (e infatti lo demolisce). Con Fazio no, non si può. La sua calibratissima esegesi del paraculismo d’essai piace a grandi e piccini, guru e vestali. Di più: chi si azzarda a muovergli un minimo appunto, subisce la mitraglia della sinistra perennemente à la page: «Così fate il gioco della destra».
Fabiofazio non è un giornalista: è un sacramento. L’undicesimo comandamento del veltronismo. Se il Porta a porta di Bruno Vespa è la terza Camera dello Stato, Che tempo che fa è l’attico della sinistra snob, convinta che gli spostamenti della storia seguano unicamente il vento che ogni giorno fa oscillare l’amaca di Michele Serra (toh, uno degli autori del programma).
Faziofabio è il padrone della casa in collina dell’intellighenzia, che dall’alto della sua sempre più supposta superiorità ci spiega cosa pensiamo, come il Don Raffaè del De André da lui tanto amato – a margine: è incredibile come Fazio aneli ai suoi opposti. Se il credo di De André era procedere «in direzione ostinata e contraria», quello di Fazio è andare in autostrada in seconda corsia, mai contromano, mai a fari spenti nella notte. Un dolcemente viaggiare, rallentando senza mai accelerare.
Che tempo che fa è un programma che piace alla gente che (si) piace. Tutto è bello, nel Paese delle Meraviglie di Alice-Fazio. De Gregori è sempre bravo, Battiato è sempre bravo, perfino Vecchioni è sempre bravo. Sono tutti bravi. Anche quelli di centro-destra. Anche Christian De Sica, anche Boldi. Bravi. Tutti. E belli. E buoni. Perché noi di sinistra, lascia intendere Lui, i bambini mica li abbiamo mai mangiati. Noi siamo casti, illibati. Laici, ma anche (cit) cattolici e apostolici (e forse pure romani).
Che tempo che fa è l’Om Mani Padme Hum dei Democratici. La schiuma del centro-sinistra: soffice, morbida, bianca. Lieve lieve. Sembra panna, sembra neve. E la schiuma, si sa, è una cosa buona: «come la mamma, che ti accarezza la testa quando sei triste e stanco. Una mamma enorme, una mamma in bianco».
Ecco: Fabiofazio è lo shampoo del centro-sinistra. La mamma enorme del veltronismo. Una mamma bianca, che dispensa sacramenti e benedice mischiamenti.
S’i fosse foco, sarebbe acqua.
Ogni liturgia vive di rituali immutabili, e la trama della Messa Laica fabiofaziana non cambia mai. Di fronte a un comico, sia esso realmente dissacrante (Albanese) o sguaiatamente innocuo (Littizzetto), Fabiofazio si erge a pompiere, gesticola, si dissocia. Declina se stesso in caricatura, lascia che la sua spontaneità sia letta come sketch. Funziona perché è se stesso negando se stesso.
Se invece ha di fronte un ospite dotto, interpreta le vesti del fan perennemente abbacinato, del tifoso della Sampdoria che ad ogni gol agita il foulard (si noti: foulard, non sciarpa) come un bambino che fa «ooooh!» ogni volta che sale sulla giostra del Luna Park, anche se ormai è la settecentesima volta e conosce a menadito le impercettibili oscillazioni del volo a bassa quota. È un infante cresciuto, rimasto impigliato in un Viagra d’incanto, che non sai se reputare sincero, ingenuo o diabolicamente scaltro.
Guai a fare una domanda scomoda. Stonerebbe. Paragonato al parterre di cui dispone, Faziofabio è come un Diego Armando Maradona che colpisce solo di destro. Talento, e mezzi, sprecati. Dal Pibe de Oro al Chierichetto di Celle Ligure: poteva andarci meglio. A noi, più che a lui.
Sì, perché in un momento nel quale il centro-sinistra fa di tutto per adeguarsi al berlusconismo pur di vincere (col risultato di perdere ancora di più), Fabiofazio è perfetto come Arcivescovo della Chiesa Veltroniana. Certo, non ha votato alle primarie; certo, ha osato scrivere che «sono confuso: anzi, grazie al Partito democratico ho scoperto di essere confuso da un bel pezzo» (meglio tardi che mai). Buffetti, non critiche. Tenere carezze al Palazzo di riferimento. Del quale, ovviamente, non butta via niente. «Stimo moltissimo Veltroni, non capisco la storia del buonismo? Il contrario del cattivismo? E non capisco questa mania di voler mettere a tutti i costi uno contro l’altro D’Alema e Veltroni. Veltroni rappresenta la sinistra che abbiamo sempre sognato e mentre lo affermo dichiaro che anche D’Alema è uno statista clamoroso, importantissimo, bravissimo».
Se Fazio fosse il leader del Pd, per prima cosa farebbe una Bicamerale con Berlusconi, e subito dopo lascerebbe interamente confluire il partito nel centro-destra: così, per solidarietà nazionale. Per amor patrio. Per eccesso di zelo. Veltrusconista, direbbe Beppe Grillo. Quel Grillo che gli rinfaccia di essere stato troppo tenero con Umberto Veronesi sugli inceneritori. Quel Grillo di cui Fazio ha detto: «Sono più pessimista di lui». Quasi a dire: sembro buono, ma in realtà so cose che voi umani neanche osate immaginare. Ad esempio che non c’è speranza.
E qui si entra nell’ultimo aspetto della fenomenologia di Fabiofazio: la latente doppia personalità, Dottor Fonzie e Mister Ricky Cunningham – ovviamente, come tutti i «leader di sinistra», Fazio si è vantato di essere cresciuto guardando Happy Days, che per Nanni Moretti (in Aprile) è una di quelle cose che «non c’entra ma c’entra» con il depauperamento culturale della immarcescibile nomenklatura sinistroide (più che sinistrata) di cui Fabiofazio è parte integrante, nonché simbionte.
Il Fabio dominante è quello sussiegoso, che nelle interviste ricorda amenamente, col consueto feticcio per la nostalgia a prescindere (vanno bene tanto un Hulk che un Cugino di Campagna per commuoversi), come sua madre lo vestisse – «abito grigio cangiante, capelli lunghi, cravatta di pelle blu» – prima di andare dalla Carrà a Pronto Raffaella. È un Fazio pentecostale, che al Messaggero non ce la faceva a parlar male dei programmi che non gli piacevano, così misericordioso da beccarsi la pitiriasi quando lo accusarono (ingiustamente) di abusivismo edilizio. Un Fazio mai abbaiante, sempre gaio: Sunday, Monday, Happy Days.
Poi però c’è l’altro Fazio, il non dominante, con la sua vocazione a imitare (e qui si torna all’imprinting) Daniele Luttazzi. Una tendenza nata fin dal 1990, quando Luttazzi preparò a Banane (Tmc) uno sketck in cui Marzullo intervistava Hitler e Gesù. Il produttore Sandro Parenzo censurò la gag, che fece poi – edulcorandola – Fazio: alle sue spalle, c’era pure l’orologio di Luttazzi.
Nel 2001, Luttazzi portò in Italia il format del David Letterman Show, intervistò Travaglio a Satyricon e – a differenza di altri – non solo non si dissociò, ma solidarizzò con il giornalista. A quel punto Fazio «non si fece scrupolo», ha scritto Luttazzi, «di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l’idea in blocco». Ovvero un Letterman all’italiana. Cioè, no: un Letterman alla Fazio. Un Letterman senza Letterman, un Fazio con Fazio.
Il grado ultimo del paraculismo d’essai: dal partito liquido veltroniano alla tivù gassosa faziosa. Analcolica come una SevenUp, persistente come un Tavernello bianco.
Nel mezzo, l’ennesimo capolavoro mediatico: l’aver fatto credere a lungo, con il placet di politici (Fassino) e giornali (Repubblica), che nell’ukase bulgaro del 2002 il terzo censurato – accanto a Biagi e Santoro – fosse Fazio. Siamo al parossismo: la censura sognata. Il martirologio immaginario.
In realtà Silvio Berlusconi non ha neanche mai lontanamente pensato a Fabiofazio come a un avversario. Può detestare alcuni ospiti, non Fazio. Perfino il format di Che tempo che fa è ora in concessione a Berlusconi (Endemol). In merito, dopo le iniziali perplessità («È un’ipotesi che mi impressiona molto, per uno come me che crede che esiste il conflitto di interessi è un bel problema»), Fazio neanche sette giorni dopo ha risolto lo struggimento: la sua unica condizione è la libertà autoriale, «a queste condizioni continuerei per i prossimi dieci anni».
Già nell’Ottanta Berlusconi voleva scritturare Fazio. Il conduttore ha raccontato di avere rifiutato 150 milioni per Risatissima e Drive In, lasciando intendere che fu un atto di eroismo perché in Rai prendeva 80 mila lire a puntata. Diversa la versione di Dagospia: «A metà anni Ottanta, sotto raccomandazione del Partito del Garofano, Fabio Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del suo Gruppo (allora Fininvest). Si racconta che Fazio – forte della sua raccomandazione – pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d’Italia, l’idea venne abbandonata».
Dici Garofano e pensi a Craxi. Quindi alla «querelle militare». Nel maggio del 2007, Luttazzi ha raccontato che Fazio gli aveva rivelato di non aver fatto il militare grazie a una raccomandazione di Craxi. L’ammissione era avvenuta di fronte a più persone, nel 1992, durante T’amo tv (Tmc).
Conduceva Fazio, tra i comici c’era Luttazzi. Che, a un certo punto, fece una battuta sui militari. Fazio bloccò tutto e gli chiese di non ironizzare sul tema. «Perché l’ho raccontato?», ha spiegato Luttazzi. «Perché il tema iniziale era la sua paraculaggine infinita».
Fazio l’ha presa malissimo. Ancor più quando Antonio Ricci (che lo detesta) gli ha fatto consegnare il Tapiro. Di fronte a Valerio Staffelli si è mostrato monumentalmente stizzito, minacciando che «non vi autorizzo a mandare in onda» (ovviamente è andato tutto in onda). Di fatto non ha mai contraddetto efficacemente Luttazzi. Men che meno querelato. Ci ha solo scherzato piccatamente sopra: «Chiesi la raccomandazione a Reagan e Gorbac?ëv, poi cadde il Muro e finì lì». Variante ridanciana della smentita che non smentisce.
Questa ciclicità di intrecci Fazio-Luttazzi ha del freudiano. Quasi che, sotto le caste vesti, si celasse un rivoluzionario disatteso. Lo conferma il sogno recondito di Fazio: «Mi piacerebbe fare un colpo di testa, andare in televisione e dire una cosa pazzesca. Poi sparire per sempre».
Più facile che Sandro Bondi scriva una bella poesia.

Il caso Fabiofazio è paradigmatico non solo giornalisticamente. Il veltronismo è un fenomeno antropologico che si veicola anche a livello artistico, e con Veltroni la cultura è scesa al livello delle Figurine Panini. Con il Partito democratico non c’è più differenza tra Rossellini e Muccino, Fenoglio e Baricco, De André e Pelù, Pelè e Palombo. Il veltronismo, ideologia debole, ha bisogno di «pensatori» – e veicolatori – deboli.
Da qui la creazione di un pattern dell’artista gradito da Don Walter e Fra’ Fabio: contenuti vacui, inconsistenza politica, rinuncia al coraggio, quieto vivere, buonismo sbarazzino.
Chiaro che, di fronte al paradigma Fabiofazio, tutto il resto è diminutio. Perfino un premio Oscar in odor di santità come Roberto Benigni. Se del veltrusconismo Fazio è sacerdote, Benigni ne è cantore. L’ecumenico in salsa celestial-dantesca.
Anche qui: ad averne. Artista non di rado geniale, capace – in un paese che non deborda di conoscenza – di rendere nazionalpopolare Dante e far rivivere il Pierino di Prokof’ev.
Gran parte del pubblico lo avrebbe voluto perennemente toscanaccio, e adesso ci rimane male nel constatarne ogni volta lo slittamento da «eversivo» scapigliato a «comico zuppo d’amore».
Nulla da dire, guai all’artista che si cristallizza. Benigni sa bene che non è sempre (altra) domenica e che il tempo scorre anche per i clown. Il Benigni «popolano dotto» è poi erede, nella vena dello stornello come del rimario dantesco, di una certa tradizione toscana che sa naturalmente conciliare sacro e profano.
Da un punto di vista artistico, Benigni è sempre stato un atipico. Bravissimo sulla breve distanza, meno sulla lunga. Indimenticabile come ospite televisivo, vagamente dilettantesco in veste di regista. Dopo La vita è bella (qualcuno direbbe anche prima) non ha indovinato un film. E c’è poi la questione Nicoletta Braschi, moglie e musa. La sua Beatrice, la sua Yoko Ono. Di sicuro non la nuova Giulietta Masina. Se l’unica parte ben recitata coincide con quella di una donna in coma, qualcosa forse vorrà dire.
Ma non è tanto questo il problema. Benigni si è abilmente liberato dal clichè del toscano scurrile, consapevole che perfino Peter Pan e Willy Wonka invecchiano. La trovata di Dante, in questo senso, è geniale. Molto meno quel suo presentarsi perennemente illuminato, a straparlar di bontà e amore, ogni volta ripetendo che «la vita è una cosa meravigliosa» e «il mio corpo è tutto uno straboccar di gioia». Un altro in overdose da incanto, come e più di Fazio.
Le perplessità vere sono però altrove. Da un lato legate al suo passato, dall’altro alla acquiescenza politica.
In ogni (rara) intervista concessa, Benigni si guarda bene dall’accettare il gioco dei ricordo (tranne che per i genitori, Troisi e Fellini). Come se i tempi del Cioni Mario e Carlo Monni fossero qualcosa di cui vergognarsi, se rapportati alla beata letizia odierna.
C’è, in questo imbarazzo, la stessa fretta di risciacquarsi in Arno cara a Veltroni e ai suoi, che del tempo andato hanno buttato via il bambino ma non l’acqua sporca. Perché il bambino (non l’acqua sporca) era un bagaglio scomodo. Non alla moda. Inadatto al contesto. Come il Cioni Mario.
Più ancora, dell’ultimo Benigni stupisce – come Veltroni – la totale incapacità di fare male. Il suo, più che un rifugiarsi, è un crogiolarsi nel privato.
L’ultima prova di questo deliberato auto-disinnescamento l’ha data l’ultimo numero del 2008 dell’Espresso. Benigni in prima pagina. Strillo: «Ecco chi metto all’inferno». Sottotitolo: «Berlusconi in un girone solo per lui. E poi Brunetta. Ma Tremonti e la Gelmini no. E neppure Veltroni».
Nella realtà, per tutto il colloquio, il giornalista Wlodek Goldkorn ha disperatamente tentato di trarre qualcosa di minimamente «forte». Con risultati deprimenti. L’intervista era pungente come un brano heavy metal cantato da Orietta Berti.
Incalzato (o qualcosa del genere) da un sempre più inconsolabile Goldkorn, Benigni si è guardato bene dal fare i nomi dei pochi colleghi criticati («Farli sarebbe volgare davvero»), ha detto che Brunetta «mi fa schiantare dal ridere» e poi ammesso di aver pensato a uno spettacolo tutto su Berlusconi. Perché non lo ha fatto? «Perché sarebbe cabaret. Preferisco la Commedia».
Ahi, ci risiamo: scelta artistica o paraculismo (ops)? Dubbio rilanciato da una successiva affermazione: «La satira è mirata. È ad personam. Io preferisco la comicità che parla a tutti e prende di mira tutti». E allora viene da pensare a come un artista col talento di Benigni finga di non sapere che colpir tutti, ancor più se con battute a salve, è colpir nessuno. A maggior ragione se ieri si prendeva in braccio Enrico Berlinguer e oggi Clemente Mastella, quasi che le defunte feste dell’Unità fossero oggi giganteschi Barnum-Bagaglino di (quasi) sinistra.
I conduttori si fanno santini, i comici santi, e in questo presepe del veltronismo manca il terzo re Magio: il santone. E se fosse Adriano Celentano? Chi se non lui, Joan Lui?
Se si volesse riassumere il desolante smarrimento della sinistra italiana, basterebbe notare come quello che nei Settanta era il paladino della famiglia democristiana e del «chi lavora non fa l’amore», dopo sbornie ripetute – pannelliano, verde-con-foca, quasi-berlusconiano, cristologico, populista, mogol-battista – sia quasi divenuto il guru del Partito democratico.
Solo che qui, nella sua pantagruelica incoerenza, Celentano è alla fine il più coerente, oltre che l’unico realmente capace di miracoli televisivi (anche se lui ambirebbe a epifanie più ultraterrene). È lui che nel 2001 ha portato in prima serata Gaber, Jannacci, Fo e Albanese. È lui, pur con tutta la retorica del caso, che per primo ha richiamato in Rai Sabina Guzzanti e Michele Santoro (e fosse stato per lui ci sarebbero state altre due sedie per Biagi e Luttazzi, che cortesemente declinarono).
Venti anni fa, quando c’era ancora bisogno di una enciclica micheleserriana per sdoganare tardivamente Lucio Battisti a sinistra, Celentano era un «cretino di talento» (Giorgio Bocca). Oggi Bocca è ancora di quell’avviso, ma nel frattempo Bingo Bongo ha bruciato le tappe, superando con ampie falcate (e stivale a mezza caviglia) l’uomo di Cro Magnon e il Sapiens, assurgendo a Modello para-ideologico. Anche se, politicamente, era e resta confusissimo. E un modello politico confuso di un partito a sua volta smarrito, non può che generare pressappochismo al cubo e inconsistenza al quadrato: tradotto, il nulla.
Il terzo re Magio – Gaspare, Melchiorre o Baldassarre, fate voi – è però un altro Re degli ignoranti. Più giovane ma non meno provvisorio ideologicamente: Jovanotti.
Dal gimmefivismo al pensopositivismo. La sua carriera sta tutta qua. Dotato, nel suo ambito. Solo che Jovanotti tende a travalicare, tracimare, esondare. A sermoneggiare. Come Adriano: Celentanotti, più che Jovanotti.
Se a Celentano attribuiresti la strepitosa definizione che Jannacci ha dato di sé, «sono geniale ma non intelligente», a Jovanotti appiopperesti goliardicamente un riadattamento mogoliano: «Tu non sei molto bello/e neanche intelligente/ma non ti importa niente/perché tu non lo sai».
Lorenzo Cherubini (nomen omen: qua son tutti santi mancati in odor di beatificazione) è un efficace costruttore di ballate serenamente innocue. Bravo, anche nel tributo a De André di Fazio (tra santini si somigliano e pigliano). Bravo. Ma Lorenzo travalica, politicheggia. Non lo fermi, la sua è una mission. Da quando ha trovato la sua Chiesa, che parte da Che Guevara e fa rima con Maria Teresa, passando da Malcolm X dopo una deviazione per San Patrignano, si è convinto che per parlare di politica basti aver letto la quarta di copertina di Insciallah e il Siddharta di Hesse.
Munito di queste armi alternativo-adolescenziali, una volta andò da Bruno Vespa, vivendo il suo Golgota di fronte a un Vittorio Sgarbi smisuratamente sadico. E quando a fine 2007 ha dovuto parlare del V-Day di Grillo, che ai tempi del «No Vasco io non ci casco» lo definì «cureggina», ha sentenziato: «Se dessimo retta a Grillo, Mandela non sarebbe presidente in Sudafrica». Asserzione, questa, su cui tuttora i politologi elucubrano sgomenti.
Lasciando stare le poco celebrative vulgate cortonesi, il paese in cui vive, e dando per falso il notevole aneddoto che narra di quando salì a cavallo al contrario, generando l’ira funesta dell’addestratore, Jovanotti fa tornare alla mente Tzvetan Todorov. Addirittura? Addirittura. Nel suo paradigma spontaneista, Todorov sosteneva che «l’autore porta i panini e il lettore organizza il picnic». Ecco: i panini di Jovanotti non hanno sapore (non per nulla è vegetariano e quasi astemio). Per questo Chef Lorenzo piace a Veltroni: perché è insipido. L’ovvio di Walter, più che del popolo. Perfetto come nuovo inno del Partito.
Troppo ambiziosa, quasi onirica, La canzone popolare di Fossati. Meglio, molto meglio Mi fido di te, a partire da quella strofa involontariamente auto-cassandrica: «Mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?». Risposta: di sicuro le elezioni.

(5 febbraio 2009)







Nolite conformari huic saeculo sed reformamini in novitate sensus vestri.
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12/11/2010 21:28
 
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A me fa ridere l'approccio e lo sviluppo del topic: chi appoggia Saviano o Travaglio o Fazio, ecc, ecc...lo fa per partito preso, in modo assoluto e irrevocabile.
Anche il titolo del topic è indicativo: adesso come la mettete?! Chi sceglierete tra i due?!
Perchè, essendo entrambi critici con la destra italiana( anche con la sinistra ma questo non conta [SM=x43824] ....), sono gli idoli dei delusi di sinistra( citazione).
Questi ultimi, caproni che non sono altro, non sono capaci di andare oltre le etichette e le prese di posizione....Non potrebbero aver apprezzato il programma per la comicità e l'arguzia di Benigni, per le parole dette da Saviano oppure per il confronto con il nulla che ha offerto il palinsesto televisivo quella sera( per non dire ciò che offre da anni e anni...).
Allora Fazio deve per forza piacere al deluso di sinistra così come Saviano. E se quest'ultimo è in contrasto con Travaglio, nel deluso di sinistra, si apre un conflitto interiore irrisolvibile.....

Un programma, quelli di sinistra, lo apprezzano solo se ideologicamente schierato. [SM=x43827]
Un programma è ideologicamente schierato se il conduttore è Fazio o Saviano e gli ospiti sono Benigni e Abbado.
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12/11/2010 21:59
 
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Che poi si possa criticare il merito degli interventi questo è chiaro ed assodato.
Ciò che è inspiegabile è l'etichetta di trasmissione faziosa e scorretta che molti vogliono affibbiarle. La bocciatura come programma culturale e la riduzione a sollazzamento per i delusi di sinistra, canale di sfogo delle frustazioni anti-berlusconiane o anche macchina per muovere voti.... [SM=x43827] . Manco fosse stato un editoriale di Minzolini.



12/11/2010 22:13
 
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Re:
nekonika, 12/11/2010 21.59:

Che poi si possa criticare il merito degli interventi questo è chiaro ed assodato.
Ciò che è inspiegabile è l'etichetta di trasmissione faziosa e scorretta che molti vogliono affibbiarle. La bocciatura come programma culturale e la riduzione a sollazzamento per i delusi di sinistra, canale di sfogo delle frustazioni anti-berlusconiane o anche macchina per muovere voti.... [SM=x43827] . Manco fosse stato un editoriale di Minzolini.







una descrizione perfetta! [SM=x43668]


cmq ho gia' espresso le mie considerazioni che di certo nn si limitano all'espressione "i delusi di sinistra",che cmq mi fanno molta tenerezza.
12/11/2010 22:21
 
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Re:
maximilian1983, 12/11/2010 20.53:

Mi sono ricordato di un lungo articolo di Andrea Scanzi apparso su Micromega nel febbraio del 2009. Secondo me c'è la cifra della lettura del programma sulla base delle critiche di Scanzi a Fazio (e il programma risente di un accentuato "fazismo", nonostante i grandi ospiti). L'articolo anche se è di quasi due anni fa (in pieno veltronismo, sebbene in fase decadente) è secondo me ancora attualissimo. E corrisponde a certi appunti da parte di Travaglio (collega di Scanzi a Micromega). Anzi guardando la trasmissione mi sono ricordato dell'articolo che allora condivisi in pieno, nonostante la mia lontananza abissale, in termini politici, dall'autore. Ve lo ripropongo. E' molto lungo, ma ne vale la pena.

Il veltronismo, ideologia debole per un partito liquido, è dotato di una galassia molto ricca di icone e figurine artistiche e culturali. Benigni, Celentano, Jovanotti… Ma soprattutto Fabio Fazio, il cantore del ‘volemosebenismo’, il maestro del ‘paraculismo d’essai’, il campione dell’‘arborismo iper-familiare’, il Paolo Limiti di sinistra che ‘sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia’. Un personaggio che come nessuno ha saputo tramutare ‘la pavidità in cifra stilistica’. di Andrea Scanzi, da MicroMega 1/2009

Fazio, Benigni, Celentanotti: i santini del veltronismo. Ognuno diverso, ognuno uguale.
Il più santino di tutti è Fabio Fazio, che andrebbe forse scritto tutto attaccato, come un’orazione, come un’omelia, come un rosario progressista: Fabiofazio, alla Daniele Luttazzi. Oppure Faziofabio, alla Antonio Albanese.
Fazio è un fantasista che ha smesso di essere prestissimo tale. Inizialmente smarrito tra l’arte dell’imitazione e quella della conduzione, Fazio ha presto abbracciato un arborismo iper-familiare. Mansueto per scelta, disinnescato per vocazione.
Negli anni ha saputo costruire un proprio codice mediatico, divenendo straordinario creatore di consenso, intercettando l’auditel e imponendo l’unanimismo fazioso: qualcosa che va (quasi) al di là delle fazioni e dello share.
Il successo definitivo è coinciso con la sua definitiva elezione a Paolo Limiti di sinistra, prima con Quelli che il calcio (che ai tempi di Odeon Tv si chiamava Forza Italia) e poi con Anima mia.
Che tempo che fa ha sancito un ulteriore passaggio. Il conduttore si è fatto demiurgo, simulacro. Il padrone di casa è divenuto sacerdote culturale, per meglio dire dispensatore primo dell’idea che un elettore medio del Partito democratico può avere della cultura in un programma su RaiTre.
Fabio Fazio ha meriti innegabili. È capace di portare in tivù coloro che la tivù non la amano, da Nanni Moretti a Umberto Eco, da Roberto Saviano al compianto Enzo Biagi. Per fare anche solo un esempio, il suo colloquio con Beppino Englaro – lo scorso 10 gennaio – è stato un toccante momento di televisione «civica».
Fazio ha un talento naturale nell’essere «amico di».
Quasi tutte le migliori menti italiane si fidano di lui, o più prosaicamente sanno che oggi il convento mediatico non passa di meglio, sin dai tempi delle feste di Cuore. Se Massimo Troisi ironizzava sulla rubrica magica di Gianni Minà (uno dei primi personaggi imitati dal giovane Fazio), al conduttore di Che tempo che fa nulla è precluso. Persino edificare una riuscita serata-tributo per il decennale della scomparsa di Fabrizio De André. Persino orchestrare una puntata monografica su Adriano Celentano, dopo che il Molleggiato lo aveva definito (nel 2001) «un ipocrita dai modi gentilini e perbenini esperto in lavaggi del cervello». Opinione tranciante, ma non così isolata, se si oltrepassa il velo di intoccabilità che ammanta Fazio.
Il quale, seguendo la regola del «meno peggio», è uno dei primi da salvare. Chiaro che meglio lui (o meno peggio lui) di molti altri burattinai dell’etere. E poi Che tempo che fa non è solo Fazio: è Luciana Littizzetto, è (soprattutto) Antonio Albanese.
Dov’è, allora, il problema? Da nessuna parte, per chi si accontenta. Per i più esigenti risiede invece nel santino, nel simulacro. Nel Fabiofazio, nel Faziofabio. Nella sensazione che i suoi programmi siano belli nonostante lui. Come una macchina di Formula Uno così ben congegnata da vincere a dispetto di un pilota che pare più che altro un tassista.
Gli ospiti sono quasi sempre notevoli. Basterebbe poco, una stimolazione minima, per esaltarli. Ma Fazio non stimola: titilla. Per scelta. Tutto, in lui, è calcolato.
Quando era solo un imitatore, un quasi-fantasista, si divertiva a raffigurare Biagi (il suo mito) come un inquisitore che crivellava implacabilmente l’intervistato. Fabiofazio è esattamente l’opposto, a partire dal declassamento (che per lui è atto d’educazione) a cui sottopone gli amici che siedono alla sua sinistra, come apostoli accondiscendenti: non «intervistati», bensì «ospiti». Il perché è evidente, lo ha spiegato lui stesso: «Le domande scomode sono un mito, che bisogno c’è di essere cattivi?».
Certo, che bisogno c’è? Perché scoperchiare disgraziatamente qualche verità e rischiare – ancor più disgraziatamente – il posto di lavoro e i due milioni di euro annui che percepisce dalla Rai? «Nel talk show le persone sono ospiti, non intervistati. Le tratto in modo gentile non perché sia la strada più comoda, ma per educazione».
Il Codice di Fabiofazio è la non-intervista. Non è che lui insegua la prima domanda, men che meno la seconda: no, lui rinuncia a prescindere alla con-versazione filosoficamente intesa. È un intervistatore senza interviste, un domandante senza domande, un colloquiante senza colloquio. Ossimori tanto bizzarri (come un angelo senza ali, un tennista senza racchetta, un fantasista senza fantasia) quanto redditizi.
Una sua tecnica consolidata è quella di declinare la discussione in cazzeggio, disinnescandola a priori. In questo è maestro. Così, di fronte a Gianluca Vialli, uno dei suoi ottomila miti, Fazio si guarda bene dal toccare argomenti scabrosi come doping e processo Juventus, preferendo buttarla democraticamente in vacca, chiedendo all’acme del colloquio: «È vero che in Inghilterra non c’è il bidet?».
Domande vibranti, si converrà. Come quelle con cui ha accolto Margherita Hack. Si poteva incentrare la conversazione su temi come testamento biologico, eutanasia. Oltretutto era la stessa puntata di Beppino Englaro. Anche qui, Fazio ha indossato il sorrisetto di default – perché non solo il cosa, anche il come (gesti, sguardi, prossemica) deve rassicurare – e ha sciorinato il suo rosario di facezie: «Come stanno i suoi gatti? Perché le piace Pinocchio ma non Harry Potter?».
Chiamatelo, se volete, giornalismo d’assalto. O, forse, giornalismo assaltato.
Naturale che, di fronte a una Iper-Nemesi come Marco Travaglio, da lui verosimilmente invitato sotto gli stessi fumi che portarono John Lennon a scrivere I am the walrus, Fazio (che è sì beatlesiano, ma ovviamente mccartneiano), sia sbiancato.
Dal canto suo, Travaglio ha finto di non sapere che, se si va da Fazio, lo si fa per fini commerciali (per gli esperti una sua ospitata frutta 20 mila copie di libri venduti). Se si accetta l’invito, bisogna stare al gioco. Da Fazio non c’è contenuto, solo forma. Si parla, ma non si dice nulla. Si muove la bocca, ma quel che ne esce è solo suono. Da Fazio si è pesci con l’audio. Travaglio invece prendeva ogni pretesto per tornare sul contingente, tramutando la fumosità consapevole delle domande («Il senso di apocalisse decadente che si esprime nei tuoi libri, è qualcosa di nuovo o ha ragione Baricco che ci ha insegnato come da sempre viviamo in una perenne mutazione dei barbari?») in appiglio per parlare di mafia. E Fazio, sempre col sorriso sulle labbra (guai a corrucciarsi), ripeteva afflitto: «Mi tocca dissociarmi, non sono d’accordo su niente con te». Poi, nei giorni successivi, l’eroica Via Crucis. Prima ha letto diligentemente le scuse Rai a firma Claudio Cappon, poi si è cosparso il cherubino crine di cenere penitenziale, asserendo – con ammiccamento a Schifani – che «rispettare la doppia libertà, quella di chi c’è e di chi non c’è, è sempre stato e rimarrà l’obiettivo di questa trasmissione». E giù, applausi dalla claque radical-chic.
Fazio sta all’urticanza televisiva come Rocco Buttiglione alla filosofia. È intimamente terrorizzato all’idea di essere oscurato, e il bello è che lui crede veramente di correre questo rischio. Gli è bastato un allentamento da La7 – con una buonuscita che da sola sfamerebbe il Belize – per convincersi di poter essere percepito come reale minaccia politica.
Ogni volta che viene minimamente criticato, quasi sempre da un eminente statista di centro-destra – tipo Maurizio Gasparri – lui si dissocia da se stesso e chiede scusa. Come nel dicembre scorso, quando di fronte alle lamentele di Gasparri (appunto), che sosteneva come a Che tempo che fa andassero solo ospiti di centro-sinistra, Fazio ha pugnacemente difeso la libertà. Come? Dando interamente ragione al potere (che per il «suo» De André, ontologicamente, non poteva essere buono): «Gasparri, per quanto mi riguarda, ha perfettamente ragione. Sono però certo che entro maggio rispetteremo i numeri che ci hanno sempre contraddistinto, con una sostanziale parità tra centro-sinistra e centro-destra».
Sì, ma non è un approccio un po’ troppo sussiegoso, si domanderà forse a questo punto il solito estremista? «La politica non è il mio editore», replica lui. «Non posso scendere al livello di chi parla di lacché, servi e quelle altre definizioni. Non rispondo che al pubblico e devo avere rispetto del pubblico. Se sento di riuscire in questo non mi interessa altro».
Amen.
Nessuno si era mai abbarbicato così ferocemente al quieto vivere, al volemosebenismo. Nessuno aveva mai saputo tramutare in ambito giornalistico la «pavidità» in cifra stilistica. Men che meno a sinistra, parte (se ancora esiste) d’Italia teoricamente allignante di uomini esigenti, dallo spiccato senso critico e dalla fiera aspirazione a qualcosa che non ha mai intaccato le ambizioni di Fazio: andare oltre il senso e il luogo comune.
Laddove nessuno pare più esigere dall’artista (o dal conduttore) un ulteriore batter d’ali affinché un minimo si elevi, per oltrepassare il fascio conformista e omologante, per alludere almeno a un gaberiano altrove, appare quasi fisiologico il successo di Fabiofazio. Un tempo con i comici ci si indignava, ad esempio con il Su la testa! di Paolo Rossi (che Fazio ha avuto il merito di riportare in tivù). Oggi, no: in mancanza di meglio e surplus di meno peggio, va benissimo Faziofabio.
Se un programma così lo facesse Emilio Fede (e un po’ lo fa), la critica di sinistra lo demolirebbe (e infatti lo demolisce). Con Fazio no, non si può. La sua calibratissima esegesi del paraculismo d’essai piace a grandi e piccini, guru e vestali. Di più: chi si azzarda a muovergli un minimo appunto, subisce la mitraglia della sinistra perennemente à la page: «Così fate il gioco della destra».
Fabiofazio non è un giornalista: è un sacramento. L’undicesimo comandamento del veltronismo. Se il Porta a porta di Bruno Vespa è la terza Camera dello Stato, Che tempo che fa è l’attico della sinistra snob, convinta che gli spostamenti della storia seguano unicamente il vento che ogni giorno fa oscillare l’amaca di Michele Serra (toh, uno degli autori del programma).
Faziofabio è il padrone della casa in collina dell’intellighenzia, che dall’alto della sua sempre più supposta superiorità ci spiega cosa pensiamo, come il Don Raffaè del De André da lui tanto amato – a margine: è incredibile come Fazio aneli ai suoi opposti. Se il credo di De André era procedere «in direzione ostinata e contraria», quello di Fazio è andare in autostrada in seconda corsia, mai contromano, mai a fari spenti nella notte. Un dolcemente viaggiare, rallentando senza mai accelerare.
Che tempo che fa è un programma che piace alla gente che (si) piace. Tutto è bello, nel Paese delle Meraviglie di Alice-Fazio. De Gregori è sempre bravo, Battiato è sempre bravo, perfino Vecchioni è sempre bravo. Sono tutti bravi. Anche quelli di centro-destra. Anche Christian De Sica, anche Boldi. Bravi. Tutti. E belli. E buoni. Perché noi di sinistra, lascia intendere Lui, i bambini mica li abbiamo mai mangiati. Noi siamo casti, illibati. Laici, ma anche (cit) cattolici e apostolici (e forse pure romani).
Che tempo che fa è l’Om Mani Padme Hum dei Democratici. La schiuma del centro-sinistra: soffice, morbida, bianca. Lieve lieve. Sembra panna, sembra neve. E la schiuma, si sa, è una cosa buona: «come la mamma, che ti accarezza la testa quando sei triste e stanco. Una mamma enorme, una mamma in bianco».
Ecco: Fabiofazio è lo shampoo del centro-sinistra. La mamma enorme del veltronismo. Una mamma bianca, che dispensa sacramenti e benedice mischiamenti.
S’i fosse foco, sarebbe acqua.
Ogni liturgia vive di rituali immutabili, e la trama della Messa Laica fabiofaziana non cambia mai. Di fronte a un comico, sia esso realmente dissacrante (Albanese) o sguaiatamente innocuo (Littizzetto), Fabiofazio si erge a pompiere, gesticola, si dissocia. Declina se stesso in caricatura, lascia che la sua spontaneità sia letta come sketch. Funziona perché è se stesso negando se stesso.
Se invece ha di fronte un ospite dotto, interpreta le vesti del fan perennemente abbacinato, del tifoso della Sampdoria che ad ogni gol agita il foulard (si noti: foulard, non sciarpa) come un bambino che fa «ooooh!» ogni volta che sale sulla giostra del Luna Park, anche se ormai è la settecentesima volta e conosce a menadito le impercettibili oscillazioni del volo a bassa quota. È un infante cresciuto, rimasto impigliato in un Viagra d’incanto, che non sai se reputare sincero, ingenuo o diabolicamente scaltro.
Guai a fare una domanda scomoda. Stonerebbe. Paragonato al parterre di cui dispone, Faziofabio è come un Diego Armando Maradona che colpisce solo di destro. Talento, e mezzi, sprecati. Dal Pibe de Oro al Chierichetto di Celle Ligure: poteva andarci meglio. A noi, più che a lui.
Sì, perché in un momento nel quale il centro-sinistra fa di tutto per adeguarsi al berlusconismo pur di vincere (col risultato di perdere ancora di più), Fabiofazio è perfetto come Arcivescovo della Chiesa Veltroniana. Certo, non ha votato alle primarie; certo, ha osato scrivere che «sono confuso: anzi, grazie al Partito democratico ho scoperto di essere confuso da un bel pezzo» (meglio tardi che mai). Buffetti, non critiche. Tenere carezze al Palazzo di riferimento. Del quale, ovviamente, non butta via niente. «Stimo moltissimo Veltroni, non capisco la storia del buonismo? Il contrario del cattivismo? E non capisco questa mania di voler mettere a tutti i costi uno contro l’altro D’Alema e Veltroni. Veltroni rappresenta la sinistra che abbiamo sempre sognato e mentre lo affermo dichiaro che anche D’Alema è uno statista clamoroso, importantissimo, bravissimo».
Se Fazio fosse il leader del Pd, per prima cosa farebbe una Bicamerale con Berlusconi, e subito dopo lascerebbe interamente confluire il partito nel centro-destra: così, per solidarietà nazionale. Per amor patrio. Per eccesso di zelo. Veltrusconista, direbbe Beppe Grillo. Quel Grillo che gli rinfaccia di essere stato troppo tenero con Umberto Veronesi sugli inceneritori. Quel Grillo di cui Fazio ha detto: «Sono più pessimista di lui». Quasi a dire: sembro buono, ma in realtà so cose che voi umani neanche osate immaginare. Ad esempio che non c’è speranza.
E qui si entra nell’ultimo aspetto della fenomenologia di Fabiofazio: la latente doppia personalità, Dottor Fonzie e Mister Ricky Cunningham – ovviamente, come tutti i «leader di sinistra», Fazio si è vantato di essere cresciuto guardando Happy Days, che per Nanni Moretti (in Aprile) è una di quelle cose che «non c’entra ma c’entra» con il depauperamento culturale della immarcescibile nomenklatura sinistroide (più che sinistrata) di cui Fabiofazio è parte integrante, nonché simbionte.
Il Fabio dominante è quello sussiegoso, che nelle interviste ricorda amenamente, col consueto feticcio per la nostalgia a prescindere (vanno bene tanto un Hulk che un Cugino di Campagna per commuoversi), come sua madre lo vestisse – «abito grigio cangiante, capelli lunghi, cravatta di pelle blu» – prima di andare dalla Carrà a Pronto Raffaella. È un Fazio pentecostale, che al Messaggero non ce la faceva a parlar male dei programmi che non gli piacevano, così misericordioso da beccarsi la pitiriasi quando lo accusarono (ingiustamente) di abusivismo edilizio. Un Fazio mai abbaiante, sempre gaio: Sunday, Monday, Happy Days.
Poi però c’è l’altro Fazio, il non dominante, con la sua vocazione a imitare (e qui si torna all’imprinting) Daniele Luttazzi. Una tendenza nata fin dal 1990, quando Luttazzi preparò a Banane (Tmc) uno sketck in cui Marzullo intervistava Hitler e Gesù. Il produttore Sandro Parenzo censurò la gag, che fece poi – edulcorandola – Fazio: alle sue spalle, c’era pure l’orologio di Luttazzi.
Nel 2001, Luttazzi portò in Italia il format del David Letterman Show, intervistò Travaglio a Satyricon e – a differenza di altri – non solo non si dissociò, ma solidarizzò con il giornalista. A quel punto Fazio «non si fece scrupolo», ha scritto Luttazzi, «di approfittare della mia defenestrazione politica per rubarmi l’idea in blocco». Ovvero un Letterman all’italiana. Cioè, no: un Letterman alla Fazio. Un Letterman senza Letterman, un Fazio con Fazio.
Il grado ultimo del paraculismo d’essai: dal partito liquido veltroniano alla tivù gassosa faziosa. Analcolica come una SevenUp, persistente come un Tavernello bianco.
Nel mezzo, l’ennesimo capolavoro mediatico: l’aver fatto credere a lungo, con il placet di politici (Fassino) e giornali (Repubblica), che nell’ukase bulgaro del 2002 il terzo censurato – accanto a Biagi e Santoro – fosse Fazio. Siamo al parossismo: la censura sognata. Il martirologio immaginario.
In realtà Silvio Berlusconi non ha neanche mai lontanamente pensato a Fabiofazio come a un avversario. Può detestare alcuni ospiti, non Fazio. Perfino il format di Che tempo che fa è ora in concessione a Berlusconi (Endemol). In merito, dopo le iniziali perplessità («È un’ipotesi che mi impressiona molto, per uno come me che crede che esiste il conflitto di interessi è un bel problema»), Fazio neanche sette giorni dopo ha risolto lo struggimento: la sua unica condizione è la libertà autoriale, «a queste condizioni continuerei per i prossimi dieci anni».
Già nell’Ottanta Berlusconi voleva scritturare Fazio. Il conduttore ha raccontato di avere rifiutato 150 milioni per Risatissima e Drive In, lasciando intendere che fu un atto di eroismo perché in Rai prendeva 80 mila lire a puntata. Diversa la versione di Dagospia: «A metà anni Ottanta, sotto raccomandazione del Partito del Garofano, Fabio Fazio incontrò Silvio Berlusconi in via Rovani a Milano. Il Berlusca gli propose di entrare a far parte del cast di Premiatissima, show della rete ammiraglia del suo Gruppo (allora Fininvest). Si racconta che Fazio – forte della sua raccomandazione – pretendeva però di avere addirittura la conduzione, ma dopo averlo sperimentato ad una soirée di Capodanno tenutasi a Campione d’Italia, l’idea venne abbandonata».
Dici Garofano e pensi a Craxi. Quindi alla «querelle militare». Nel maggio del 2007, Luttazzi ha raccontato che Fazio gli aveva rivelato di non aver fatto il militare grazie a una raccomandazione di Craxi. L’ammissione era avvenuta di fronte a più persone, nel 1992, durante T’amo tv (Tmc).
Conduceva Fazio, tra i comici c’era Luttazzi. Che, a un certo punto, fece una battuta sui militari. Fazio bloccò tutto e gli chiese di non ironizzare sul tema. «Perché l’ho raccontato?», ha spiegato Luttazzi. «Perché il tema iniziale era la sua paraculaggine infinita».
Fazio l’ha presa malissimo. Ancor più quando Antonio Ricci (che lo detesta) gli ha fatto consegnare il Tapiro. Di fronte a Valerio Staffelli si è mostrato monumentalmente stizzito, minacciando che «non vi autorizzo a mandare in onda» (ovviamente è andato tutto in onda). Di fatto non ha mai contraddetto efficacemente Luttazzi. Men che meno querelato. Ci ha solo scherzato piccatamente sopra: «Chiesi la raccomandazione a Reagan e Gorbac?ëv, poi cadde il Muro e finì lì». Variante ridanciana della smentita che non smentisce.
Questa ciclicità di intrecci Fazio-Luttazzi ha del freudiano. Quasi che, sotto le caste vesti, si celasse un rivoluzionario disatteso. Lo conferma il sogno recondito di Fazio: «Mi piacerebbe fare un colpo di testa, andare in televisione e dire una cosa pazzesca. Poi sparire per sempre».
Più facile che Sandro Bondi scriva una bella poesia.

Il caso Fabiofazio è paradigmatico non solo giornalisticamente. Il veltronismo è un fenomeno antropologico che si veicola anche a livello artistico, e con Veltroni la cultura è scesa al livello delle Figurine Panini. Con il Partito democratico non c’è più differenza tra Rossellini e Muccino, Fenoglio e Baricco, De André e Pelù, Pelè e Palombo. Il veltronismo, ideologia debole, ha bisogno di «pensatori» – e veicolatori – deboli.
Da qui la creazione di un pattern dell’artista gradito da Don Walter e Fra’ Fabio: contenuti vacui, inconsistenza politica, rinuncia al coraggio, quieto vivere, buonismo sbarazzino.
Chiaro che, di fronte al paradigma Fabiofazio, tutto il resto è diminutio. Perfino un premio Oscar in odor di santità come Roberto Benigni. Se del veltrusconismo Fazio è sacerdote, Benigni ne è cantore. L’ecumenico in salsa celestial-dantesca.
Anche qui: ad averne. Artista non di rado geniale, capace – in un paese che non deborda di conoscenza – di rendere nazionalpopolare Dante e far rivivere il Pierino di Prokof’ev.
Gran parte del pubblico lo avrebbe voluto perennemente toscanaccio, e adesso ci rimane male nel constatarne ogni volta lo slittamento da «eversivo» scapigliato a «comico zuppo d’amore».
Nulla da dire, guai all’artista che si cristallizza. Benigni sa bene che non è sempre (altra) domenica e che il tempo scorre anche per i clown. Il Benigni «popolano dotto» è poi erede, nella vena dello stornello come del rimario dantesco, di una certa tradizione toscana che sa naturalmente conciliare sacro e profano.
Da un punto di vista artistico, Benigni è sempre stato un atipico. Bravissimo sulla breve distanza, meno sulla lunga. Indimenticabile come ospite televisivo, vagamente dilettantesco in veste di regista. Dopo La vita è bella (qualcuno direbbe anche prima) non ha indovinato un film. E c’è poi la questione Nicoletta Braschi, moglie e musa. La sua Beatrice, la sua Yoko Ono. Di sicuro non la nuova Giulietta Masina. Se l’unica parte ben recitata coincide con quella di una donna in coma, qualcosa forse vorrà dire.
Ma non è tanto questo il problema. Benigni si è abilmente liberato dal clichè del toscano scurrile, consapevole che perfino Peter Pan e Willy Wonka invecchiano. La trovata di Dante, in questo senso, è geniale. Molto meno quel suo presentarsi perennemente illuminato, a straparlar di bontà e amore, ogni volta ripetendo che «la vita è una cosa meravigliosa» e «il mio corpo è tutto uno straboccar di gioia». Un altro in overdose da incanto, come e più di Fazio.
Le perplessità vere sono però altrove. Da un lato legate al suo passato, dall’altro alla acquiescenza politica.
In ogni (rara) intervista concessa, Benigni si guarda bene dall’accettare il gioco dei ricordo (tranne che per i genitori, Troisi e Fellini). Come se i tempi del Cioni Mario e Carlo Monni fossero qualcosa di cui vergognarsi, se rapportati alla beata letizia odierna.
C’è, in questo imbarazzo, la stessa fretta di risciacquarsi in Arno cara a Veltroni e ai suoi, che del tempo andato hanno buttato via il bambino ma non l’acqua sporca. Perché il bambino (non l’acqua sporca) era un bagaglio scomodo. Non alla moda. Inadatto al contesto. Come il Cioni Mario.
Più ancora, dell’ultimo Benigni stupisce – come Veltroni – la totale incapacità di fare male. Il suo, più che un rifugiarsi, è un crogiolarsi nel privato.
L’ultima prova di questo deliberato auto-disinnescamento l’ha data l’ultimo numero del 2008 dell’Espresso. Benigni in prima pagina. Strillo: «Ecco chi metto all’inferno». Sottotitolo: «Berlusconi in un girone solo per lui. E poi Brunetta. Ma Tremonti e la Gelmini no. E neppure Veltroni».
Nella realtà, per tutto il colloquio, il giornalista Wlodek Goldkorn ha disperatamente tentato di trarre qualcosa di minimamente «forte». Con risultati deprimenti. L’intervista era pungente come un brano heavy metal cantato da Orietta Berti.
Incalzato (o qualcosa del genere) da un sempre più inconsolabile Goldkorn, Benigni si è guardato bene dal fare i nomi dei pochi colleghi criticati («Farli sarebbe volgare davvero»), ha detto che Brunetta «mi fa schiantare dal ridere» e poi ammesso di aver pensato a uno spettacolo tutto su Berlusconi. Perché non lo ha fatto? «Perché sarebbe cabaret. Preferisco la Commedia».
Ahi, ci risiamo: scelta artistica o paraculismo (ops)? Dubbio rilanciato da una successiva affermazione: «La satira è mirata. È ad personam. Io preferisco la comicità che parla a tutti e prende di mira tutti». E allora viene da pensare a come un artista col talento di Benigni finga di non sapere che colpir tutti, ancor più se con battute a salve, è colpir nessuno. A maggior ragione se ieri si prendeva in braccio Enrico Berlinguer e oggi Clemente Mastella, quasi che le defunte feste dell’Unità fossero oggi giganteschi Barnum-Bagaglino di (quasi) sinistra.
I conduttori si fanno santini, i comici santi, e in questo presepe del veltronismo manca il terzo re Magio: il santone. E se fosse Adriano Celentano? Chi se non lui, Joan Lui?
Se si volesse riassumere il desolante smarrimento della sinistra italiana, basterebbe notare come quello che nei Settanta era il paladino della famiglia democristiana e del «chi lavora non fa l’amore», dopo sbornie ripetute – pannelliano, verde-con-foca, quasi-berlusconiano, cristologico, populista, mogol-battista – sia quasi divenuto il guru del Partito democratico.
Solo che qui, nella sua pantagruelica incoerenza, Celentano è alla fine il più coerente, oltre che l’unico realmente capace di miracoli televisivi (anche se lui ambirebbe a epifanie più ultraterrene). È lui che nel 2001 ha portato in prima serata Gaber, Jannacci, Fo e Albanese. È lui, pur con tutta la retorica del caso, che per primo ha richiamato in Rai Sabina Guzzanti e Michele Santoro (e fosse stato per lui ci sarebbero state altre due sedie per Biagi e Luttazzi, che cortesemente declinarono).
Venti anni fa, quando c’era ancora bisogno di una enciclica micheleserriana per sdoganare tardivamente Lucio Battisti a sinistra, Celentano era un «cretino di talento» (Giorgio Bocca). Oggi Bocca è ancora di quell’avviso, ma nel frattempo Bingo Bongo ha bruciato le tappe, superando con ampie falcate (e stivale a mezza caviglia) l’uomo di Cro Magnon e il Sapiens, assurgendo a Modello para-ideologico. Anche se, politicamente, era e resta confusissimo. E un modello politico confuso di un partito a sua volta smarrito, non può che generare pressappochismo al cubo e inconsistenza al quadrato: tradotto, il nulla.
Il terzo re Magio – Gaspare, Melchiorre o Baldassarre, fate voi – è però un altro Re degli ignoranti. Più giovane ma non meno provvisorio ideologicamente: Jovanotti.
Dal gimmefivismo al pensopositivismo. La sua carriera sta tutta qua. Dotato, nel suo ambito. Solo che Jovanotti tende a travalicare, tracimare, esondare. A sermoneggiare. Come Adriano: Celentanotti, più che Jovanotti.
Se a Celentano attribuiresti la strepitosa definizione che Jannacci ha dato di sé, «sono geniale ma non intelligente», a Jovanotti appiopperesti goliardicamente un riadattamento mogoliano: «Tu non sei molto bello/e neanche intelligente/ma non ti importa niente/perché tu non lo sai».
Lorenzo Cherubini (nomen omen: qua son tutti santi mancati in odor di beatificazione) è un efficace costruttore di ballate serenamente innocue. Bravo, anche nel tributo a De André di Fazio (tra santini si somigliano e pigliano). Bravo. Ma Lorenzo travalica, politicheggia. Non lo fermi, la sua è una mission. Da quando ha trovato la sua Chiesa, che parte da Che Guevara e fa rima con Maria Teresa, passando da Malcolm X dopo una deviazione per San Patrignano, si è convinto che per parlare di politica basti aver letto la quarta di copertina di Insciallah e il Siddharta di Hesse.
Munito di queste armi alternativo-adolescenziali, una volta andò da Bruno Vespa, vivendo il suo Golgota di fronte a un Vittorio Sgarbi smisuratamente sadico. E quando a fine 2007 ha dovuto parlare del V-Day di Grillo, che ai tempi del «No Vasco io non ci casco» lo definì «cureggina», ha sentenziato: «Se dessimo retta a Grillo, Mandela non sarebbe presidente in Sudafrica». Asserzione, questa, su cui tuttora i politologi elucubrano sgomenti.
Lasciando stare le poco celebrative vulgate cortonesi, il paese in cui vive, e dando per falso il notevole aneddoto che narra di quando salì a cavallo al contrario, generando l’ira funesta dell’addestratore, Jovanotti fa tornare alla mente Tzvetan Todorov. Addirittura? Addirittura. Nel suo paradigma spontaneista, Todorov sosteneva che «l’autore porta i panini e il lettore organizza il picnic». Ecco: i panini di Jovanotti non hanno sapore (non per nulla è vegetariano e quasi astemio). Per questo Chef Lorenzo piace a Veltroni: perché è insipido. L’ovvio di Walter, più che del popolo. Perfetto come nuovo inno del Partito.
Troppo ambiziosa, quasi onirica, La canzone popolare di Fossati. Meglio, molto meglio Mi fido di te, a partire da quella strofa involontariamente auto-cassandrica: «Mi fido di te, cosa sei disposto a perdere?». Risposta: di sicuro le elezioni.

(5 febbraio 2009)





certe uscite sono strepitose...
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12/11/2010 22:25
 
Quota

Nientedimeno lunedi come ospite ci sarà pure il nuovo idolo della sinistra Gianfranco Fini?
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12/11/2010 22:39
 
Quota

Re: Re:
--letizia22--, 12/11/2010 22.13:




una descrizione perfetta! [SM=x43668]


cmq ho gia' espresso le mie considerazioni che di certo nn si limitano all'espressione "i delusi di sinistra",che cmq mi fanno molta tenerezza.




Immaginavo ti sarebbe piaciuta. E' quello che stai dicendo in continuazione...A me fanno tenerezza altre cose: i gattini, i bimbi, i coniglietti [SM=x43607]
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