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Lettera di una mamma italiana alla Gelmini

Ultimo Aggiornamento: 03/07/2010 01:14
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02/07/2010 20:01
 
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Re: Re:
Selkis, 02/07/2010 17.29:




...anche quando lo è?




se ignoranza e incompetenza son palmari è inutile ricordarle,
semmai ce se ne potrebbe servire nella propria argomentazione in maniera più sottile, elegante e ironica...

IMHO [SM=x2244087]

Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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02/07/2010 20:03
 
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Re: Re: Re:
nekonika, 02/07/2010 19.56:




In più una giurista che definisce un diritto privilegio è alquanto ridicola.




Nel senso che sembra definire il diritto come una condizione eccezionalmente favorevole per la donna, un'esagerazione.
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02/07/2010 20:12
 
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ragazzi la soglia tra "diritto" e "privilegio" e molto sottile...spesso li si confonde.... per me questo è un privilegio...
e poi scusate...ma da quando uno deve OBBLIGATORIAMENTE usufruire di questo "diritto"
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Re:
Pata1991, 02/07/2010 20:12:

ragazzi la soglia tra "diritto" e "privilegio" e molto sottile...spesso li si confonde.... per me questo è un privilegio...
e poi scusate...ma da quando uno deve OBBLIGATORIAMENTE usufruire di questo "diritto"




...in questo caso la parola sarebbe DOVERE [SM=x43665]




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02/07/2010 20:31
 
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Io lo dicevo che era frustrata. E per certi versi c'è anche da capirla.

Comunque non la vorrei come insegnante.






Precaria della scuola, precaria della vita
--------------------------------------------------------------------------------
di Rosalinda Gianguzzi


www.camminandoscalzi.it/wordpress/precariato-scuola-vita.html#...

Precaria della scuola, precaria della vita.

27 ottobre 2009 — Rosalinda Gianguzzi

Ciao,

sono Rosalinda Gianguzzi, precaria della scuola e, come spesso accade, un po’ precaria della vita.

Oggi, per noi precari, sentir parlare di “elogio al posto fisso” sembra quasi una beffa, soprattutto considerando che, contemporaneamente alle interviste raccatta-consensi, bagarre, scorrettezze procedurali e continui richiami a mostrare maggiore interesse alle discussioni in aula, il parlamento nei fatti sancisce il precariato a vita per i pochi superstiti dai tagli.

Ho deciso proprio per questo di lasciarvi memoria, in stile “romanzo storico” (la storia cioè raccontata dai suoi protagonisti anche più semplici), di cosa sia questa specie in estinzione dei precari della scuola.

La parola precariato è spesso associata ad un’immagine preconcetta che rappresenta giovani “Peter pan”, bamboccioni che guadagnano quattro lire -forse con un certo compiacimento- perché questo dà loro la possibilità di poter spendere quello che guadagnano e continuare ad essere mantenuti dalla famiglia. In parte è vero, soprattutto parlando di retribuzioni, ma la situazione differisce radicalmente quando in un calderone sono inseriti i precari di call center privati con i precari della pubblica amministrazione/precari della scuola. Il precariato della scuola è del tutto diverso da qualunque altro precariato, e lo dimostra l’età degli “aspiranti insegnanti” o “supplenti” inseriti nelle graduatorie ad esaurimento. Questi sono i termini che sono utilizzati per definirci, ma per la verità di “aspirante” abbiamo ben poco dato che molti di noi insegnano da decine d’anni e c’è persino chi va in pensione da precario, spesso senza “supplire” nessuno. In realtà sono su posti vacanti, posti che esistono al solo fine di risparmiare sugli scatti di anzianità degli insegnanti o, alla peggio, per poter tagliare cattedre, innalzando il numero legale di alunni per classe. Un altro aspetto che ci permette di differirci dagli altri precari è il non essere legati a logiche clientelari, vale a dire che a Natale non abbiamo grosse ceste piene di prelibatezze da regalare per ringraziare qualcuno. Tutto quello che abbiamo e che siamo, lo abbiamo costruito negli anni attraverso lo studio permanente, i concorsi e il servizio.

In una sola parola: IL MERITO.

Allora mi si potrebbe chiedere come sono diventata precaria della scuola (io e buona parte degli altri 299999 colleghi)?

La mia avventura comincia da diciottenne appena diplomata, con la voglia di essere la nuova Maria Montessori e la presunzione che le magistrali mi avessero dato tutti gli strumenti per entrare nella testa e nel cuore di ogni alunno, per dar loro le chiavi per costruire il proprio giudizio critico e la propria coscienza intellettuale.

La mia formazione scolastica e universitaria attacca il nozionismo e, come risposta ad una società complessa e in rapida trasformazione, vuole offrire ai discenti chiavi di lettura che permettano loro di essere costruttori e attori della propria formazione. Per la verità ci sono voluti una laurea, due master e diciotto anni d’insegnamento, per capire ogni giorno che non esiste “una ricetta buona e perfetta” per ogni alunno. Ognuno è un universo a sé, vuole essere preso con il proprio verso, con i propri tempi, con strumenti educativi differenti. La prima “palestra” sono state le scuole private, veri e propri “centri d’addestramento”, in cui la voglia di fare fa i conti con “il cliente che ha sempre ragione”. Posti in cui la libertà di insegnamento diventa libertà di fare ciò che dicono i direttori, non dare rogne con i genitori e non dispiacere troppo l’alunno. Dopo anni di mobbing, soprusi vari, contratti “aggiustati”, la mia avventura prosegue nella scuola pubblica. Tutto inizia con l’attesa del telefono che squilla: significa essere vestita e pronta per uscire la mattina alle otto, senza sapere se e dove sarai impegnata. Che felicità quando al cellulare sento la musichetta “We are the champions”, associata ai numeri delle scuole. Per non parlare di quando arrivano gli assegni, festeggiati con un “acquisto gratificante”. Nel frattempo gli anni passano, “la chiamata” diventa la regola e arriva finalmente l’incarico: da settembre a giugno o da settembre ad agosto, non sostituisco nessuno, sono in realtà la titolare di una cattedra vacante. Non importa se in un’isola, in un carcere, in un paese di montagna o nella scuola sotto casa. E’ la mia cattedra per un anno. E sono dodici punti che, come gradini, mi permettono di scalare la difficile montagna della stabilizzazione. A questo punto penso di poter affrontare persino un progetto di vita insieme all’uomo che amo e di concedermi un “matrimonio gratificante”. Il sindacalista di turno mi rassicura: “una volta preso l’incarico, sei dentro”.

Così divento precaria sostanzialmente nella sede e nel dover vivere i piccoli grandi disagi dell’“ultima arrivata”. Una precaria, infatti, è quella che deve accontentarsi quando si formula l’orario, quella a cui, in termini di rendimento, è richiesto sempre di più. Anche le mie figlie diventano “precarie”. Sono abituate ad essere lasciate alla nonna, alla zia, alla vicina o a chiunque disponibile, spesso ancora con il pigiama, avvolte in una coperta e quando capita anche febbricitanti perché “oggi non posso mancare”. La mamma non ha tempo per consolarle quando piangono per andare all’asilo, come non ha tempo per rimanere alle loro feste di Natale a scuola. Quando posso, prendo un’ora di permesso, per sorridergli o per rassicurarle quando recitano la loro poesia. Sono ormai abituate a fare i loro compitini e le loro cose da sole, magari in un banco di un’aula vuota, in silenzio, mentre la mamma compila i registri e programma insieme ai colleghi.

Ma fino a due anni fa, una certezza: punto dopo punto, anno dopo anno, avrei avuto l’agognato ruolo. Poi c’è stato l’avvicendarsi -come in una contraddanza- di vari ministri che, con le loro “novità”, ci facevano fare chi tre passi indietro, rimescolando fasce e graduatorie, chi due passi avanti, con una buona tornata d’immissioni in ruolo. Ma la mia certezza rimaneva: loro si avvicendavano, ma noi eravamo sempre lì, con la nostra borsa sempre più logora, piena di fotocopie e penne, per noi e per l’alunno distratto di fiducia.

Io non ho mai chiesto altro: una classe tutta mia, perché insegnare è tutto ciò che so e voglio fare.

Poi arriva il terremoto Berlusconi/Tremonti/Gelmini/Brunetta: raccontano che siamo fannulloni, che “pochi pagati bene” sono meglio di “molti che vivono dignitosamente”, senza dire cosa deve fare chi resta fuori da questo setaccio. Assicurano che vogliono “riformare” la scuola, modernizzarla: tagliano cattedre, chiudono scuole, tolgono insegnanti di sostegno, eliminano i tre insegnanti specialisti su due classi della scuola primaria per averne una tuttologa, eliminano le compresenze che permettono di far fare gite, eliminano informatica, eliminano il supplire i colleghi che mancano -dato che le scuole non sempre possono pagare i supplenti- senza dividere le classi, riducono le ore di italiano alle superiori e accorpano classi e materie. E poi ancora la coda/pettine, e gli incarichi fuori e salvaprecari (che altro non è che un escamotage per aggirare le sentenze dei tribunali, che ci danno ragione sul nostro diritto ad essere stabilizzati).

Insomma un vero tsunami per la scuola pubblica.

E cosa ne sarà dei precari? E di me?

Il desiderio è quello di contrastare in ogni modo: scioperi, manifestazioni, comizi, sit in, forum, azioni di protesta, ma soprattutto puntare su di un’informazione vera.

Il tutto finalizzato a prendere tempo e restare in gioco perché -come è successo finora- la politica cambia.

Loro sono i veri precari. Noi vogliamo solo continuare a lavorare.

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03/07/2010 01:14
 
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discorso bello, ma regge fino ad un certo punto..perchè non si può pensare che la scuola sia un serbatoio capace di assorbire tutti i precari creati sulla base di false aspettative e al di fuori delle necessità. La poltiica ha inciso troppo nel settore lavorativo ed ha creato queste follie solo per voti e poltrone..
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