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Istat:: "Bamboccioni" per forza non scelta, ma necessità"

Ultimo Aggiornamento: 28/05/2010 12:26
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26/05/2010 13:49
 
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Situazione preoccupante
ROMA - L'Italia ha il più alto numero di giovani che non lavorano e non studiano. Si chiamano Neet (Non in education, employment or training) e nel nostro paese sono oltre 2 milioni. Per questo, ha il primato europeo. Hanno un'età fra i 15 e 29 anni (il 21,2% di questa fascia di età), per lo più maschi, e sono a rischio esclusione. Lo denuncia l'Istat nel rapporto annuale presentato oggi. Questi giovani sono coinvolti nell'area dell'inattività (65,8%). Il numero dei giovani Neet è molto cresciuto nel 2009, a causa della crisi economica: 126 mila in più, concentrati al nord (+85 mila) e al centro (+27 mila). Tuttavia il maggior numero, oltre un milione, si trova nel Mezzogiorno. Fra i Neet si trovano anche laureati (21% della classe di età) e diplomati (20,2%). E' un fenomeno in crescita; nel 2007 (dati Ocse), l'Italia già registrava il 10,2% di Neet contro il 5,8% dell'Ue). Chi sono i giovani Neet? Sono coloro che perdono il lavoro e quanto più dura questo stato di inattività tanto più hanno difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro. Tra il primo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2009 la probabilità di rimanere nella condizione di Neet è stata del 73,3% (l'anno precedente era il 68,6%), con valori più elevati per i maschi residenti al nord. Alla più elevata permanenza nello stato di Neet si accompagna anche un incremento del flusso in entrata di questa condizione degli studenti non occupati (dal 19,9% al 21,4%) ed una diminuzione delle uscite verso l'occupazione.

FIGLI NON PIU' BAMBOCCIONI, FORZATI VIVERE CON GENITORI - A casa con mamma e papà ma non più per scelta né per piacere. I 'bamboccioni' lasciano il posto ai conviventi forzati con i genitori, costretti dai problemi economici. Nonostante le aspirazioni, i 30-34enni che rimangono in famiglia sono quasi triplicati dal 1983 (dall'11,8% al 28,9% del 2009). Rilevante è anche la crescita dei 25-29enni, dal 34,5% al 59,2%.

Nel complesso, i celibi e le nubili fra i 18 e 34 anni che vivono con i genitori sono passati dal 49% al 58,6%. L'Istat, nel rapporto annuale, afferma che in sei anni (dal 2003 al 2009) sono calati di ben nove punti i giovani (18-34 anni) che per scelta vogliono vivere nella casa dei genitori: la prolungata convivenza dei figli con genitori dipende soprattutto da questioni economiche (40,2%) e dalla necessità di proseguire gli studi (34%); la scelta vera e propria arriva solo come terza battuta (31,4%), era la prima qualche anno fa. In particolare, la percentuale di giovani che dichiara di voler uscire dalla famiglia di origine nei prossimi tre anni cresce dal 45,1% del 2003 al 51,9% del 2009, aumentando di più tra i 20-29 anni che tra i 30-34 anni. Il calo è registrato soprattutto nelle zone più ricche del Paese (-16 punti nel nord-est e -13 nel nord-ovest), dove la propensione ad essere 'bamboccioni' era maggiormente segnata nel passato. Tra le motivazioni economiche, spiccano le difficoltà nel trovare casa (26,5%) e quella di trovare lavoro (21%).

VERSO CONSOLIDAMENTO RIPRESA, MA NON PER COSTRUZIONI - La ripresa si avvia verso una fase di "progressivo consolidamento" nei prossimi mesi in tutti i settori "ad eccezione delle costruzioni" che restano a picco, in Italia così come in altri Paesi europei quali Francia e Spagna. Lo afferma il Rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del Paese nel 2009, avvertendo tuttavia che il recupero dei livelli pre-crisi, a partire dalla produzione industriale, non sarà rapido. Il settore delle costruzioni, fortemente colpito dalla recessione, non mostra segnali di recupero e anzi, dice l'Istat, "non sembra avere ancora toccato il minimo ciclico": per i Paesi dell'Unione monetaria a gennaio-febbraio 2010 l'indice ha segnato un calo congiunturale del 2,9% sul bimestre precedente.

DA UE 400 MLD A FAMIGLIE E IMPRESE IN BIENNIO CRISI - Nel biennio 2008-2009 i paesi europei hanno destinato risorse per circa 400 miliardi di euro, ossia il 3% del Pil dell'Ue, a imprese e famiglie. E' uno dei dati contenuti nel Rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del Paese, in cui da un lato si riconosce che la recessione ha avuto una durata "relativamente breve" - circa un anno, tra la primavera 2008 e la primavera 2009 - anche grazie ad un intervento di "contenimento senza precedenti da parte delle autorità di governo". Dall'altro, tuttavia, sottolinea ancora il Rapporto, le misure anti-crisi hanno spinto in alto la spesa e provocato "un notevole peggioramento a medio termine dei conti pubblici".

IN ITALIA PRESSIONE FISCALE A 43,2%, SALE STACCO UE - La pressione fiscale in Italia è salita al 43,2% nel 2009, aumentando di tre decimi di punto rispetto all'anno precedente (42,9% nel 2008) e ampliando lo stacco di oltre tre punti percentuali con la media Ue che l'anno scorso si è attestata al 39,5% (dal 40,3% del 2008). E' quanto si evince dal Rapporto annuale dell'Istat. "Caso unico" tra le grandi economie, sottolinea l'Istituto nazionale di statistica, nel Paese risultano in forte crescita le imposte in conto capitale (per quasi 12 miliardi di euro), sospinte da circa 5 miliardi di euro per il cosiddetto 'scudo fiscale' e dal versamento una tantum per l'imposta sostitutiva di alcuni tributi. E' invece calato del 4,2% il gettito delle imposte indirette (già diminuito del 4,9% nel 2008), del 7,1% quello delle imposte dirette e dello 0,5% quello dei contributi sociali effettivi.

POTERE ACQUISTO SCIVOLATO SOTTO LIVELLO INIZIO 2000 - Nel 2009 il potere d'acquisto pro capite italiano è scivolato sotto il livello del 2000. Lo rileva il Rapporto annuale dell'Istat presentato oggi alla Camera. In particolare, al netto dell'effetto dell'aumento di popolazione, la discesa del potere d'acquisto delle famiglie è stata di circa 3 punti percentuali in un biennio, "con un profilo simile a quanto accaduto nella crisi del 1992-93". La riduzione del reddito pro capite nel 2009 è risultata del 2,3% rispetto al 2000 che, in altri termini, è corrisposto ad una perdita di oltre 300 euro per abitante ai prezzi del 2000. I consumi, tuttavia, ne hanno risentito comparativamente meno perché contestualmente si è registrata una riduzione della propensione al risparmio, scesa al 14% dal 14,7% del 2008, al di sotto dei livelli di tutte le altre maggiori economie dei paesi dell'Unione monetaria.

15% FAMIGLIE IN DISAGIO ECONOMICO, UNA SU 4 AL SUD - Oltre il 15% delle famiglie vive in condizioni di disagio economico, con una percentuale che supera il 25% nel Mezzogiorno; una su tre non riesce a sostenere spese impreviste, quasi una su due non può permettersi una settimana di ferie lontano da casa, mentre ci si indebita sempre più. E' la fotografia scattata dal Rapporto annuale dell'Istat sulla situazione del Paese nel 2009, presentato oggi alla Camera. La crisi, tuttavia - viene evidenziato - ha colpito le famiglie che già stavano peggio, tanto che la maggior parte (il 60%) di quelle in condizioni di disagio economico lo era già nel 2008. Da un lato, infatti, la percentuale delle cosiddette famiglie 'deprivate' risulta essere nel 2009 pari al 15,3%, un valore sintetico sostanzialmente stabile rispetto all'anno precedente. Ma scorrendo le singoli voci di disagio, tra il 2008 e il 2009 si nota come sia cresciuto il numero delle famiglie indifese nel far fronte a spese impreviste (passate dal 32% al 33,4% nella media nazionale), quelle in arretrato col pagamento di debiti diversi dal mutuo (dal 10,5% al 13,6% di quelle che hanno debiti) e quelle che si sono indebitate (salite dal 14,8% al 16,4%). Allo stesso modo sale al 40,6% (dal 39,4% del 2008) la quota di famiglie per cui una settimana di ferie in un anno lontano da casa è solo un miraggio. Ma non manca neppure chi, allo stremo, dichiara di non aver avuto avuto almeno una volta nel corso dell'anno soldi per acquistare cibo: la media risulta pari al 5,7% (dal 5,8% del 2008) ma al nord si sale dal 4,4% al 5,3%. E ancora: cala leggermente la quota di famiglie che non può permettersi di riscaldare adeguatamente l'abitazione (10,7% dall'11,2% del 2008), benché - viene rilevato - i prezzi al consumo del gas e dei combustibili liquidi siano diminuiti rispettivamente dell'1,5% e del 20%. Si riduce anche la percentuale di famiglie che riferisce di essere in arretrato con il pagamento del mutuo (dal 7,6% al 6,4%) e con il pagamento dell'affitto (dal 14% al 12,5% del totale in affitto). Scende, infine, dal 17,3% al 15,5% la quota dei nuclei familiari che dichiara di arrivare con "molta difficoltà" a fine mese. L'acquisto degli abiti necessari resta invece difficile per il 17,1% delle famiglie, in calo rispetto al 18,5% dell'anno precedente; per l'8,7% (dall'8,3%) lo sono le spese per i trasporti.

CRISI HA COLPITO LAVORO MA CIG HA FRENATO EMORRAGIA - Il "massiccio ricorso" alla cassa integrazione guadagni ha "contenuto l'effetto della crisi sui posti di lavoro" e ha "frenato, soprattutto nell'industria, l'emorragia occupazionale". Lo rileva l'Istat nel Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2009, ricordando che lo scorso anno si è registrata la prima caduta dell'occupazione in Italia dal 1995, con una riduzione degli occupati di 380 mila unità (-1,6%), soprattutto tra gli uomini (-2%; donne -1,1%). Il picco del ricorso alla cig è stato segnato nel terzo trimestre del 2009, quando si è passati ad un valore medio del 9,5% nelle imprese con almeno dieci dipendenti. Incremento che si è accompagnato ad una crescita "in misura significativa" delle risorse impiegate e destinate al sostegno di lavoratori e famiglie: per la cassa integrazione guadagni sono aumentate di oltre 1,5 miliardi di euro, per l'indennità di disoccupazione di circa 2 miliardi e di altri 1,5 miliardi per il bonus straordinario per le famiglie a basso reddito. In totale, oltre 5 miliardi di euro in più rispetto al 2008. L'Istat parla, dunque, di due fondamentali ammortizzatori sociali: la cig, che ha mitigato l'impatto sulla perdita di reddito salvaguardando in particolare i capifamiglia, e la famiglia stessa, con i giovani che sono stati in assoluto i più colpiti dalla crisi ma che, proprio per questo, hanno contenuto le ripercussioni sui genitori.

OCCUPAZIONE FEMMINILE PEGGIORA, IN CALO NEL 2009
- Si aggrava la condizione lavorativa delle donne italiane. Con la crisi - afferma l'Istat nel rapporto annuale - le lavoratrici del nostro paese peggiorano una "criticità storica": il loro tasso di occupazione nella fascia 15-64 anni è sceso nel 2009 al 46,4%, oltre 12 punti percentuale in meno della media nell'Ue (58,6%). Fra il 1996 e il 2008, l'occupazione femminile era passata dal 38,2% al 47,2%. Lo scorso anno, questa tendenza si è interrotta registrando un meno 0,6%. Nell'Ue, l'Italia è migliore solo a Malta (37,7%) In particolare, è il Mezzogiorno - che ha assorbito quali la metà del calo complessivo delle occupate (-105 mila donne) - a segnare fortemente il passo. In quest'area, per ogni 100 donne occupate nel primo trimestre 2008, a distanza di un anno 14 sono transitate nella condizione di non occupate (10 nella media italiana). Il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è del 30,6% contro il 57,3% del Nord-Est. Si è poi ulteriormente abbassato il tasso di occupazione delle donne con titolo di studio inferiore al diploma di scuola media superiore (solo il 29% delle donne con licenza media ha un'occupazione); nel Mezzogiorno supera di poco il 20%. Solo le laureate riescono a raggiungere i livelli europei, ma non le giovani che invece incontrano difficoltà all'ingresso del mercato del lavoro. La presenza di figli si conferma un deterrente al lavoro: nella fascia 25-54 anni, assumendo come base le donne senza figli, i tassi di occupazione sono inferiori di 4 punti percentuali per quelle con un figlio, di 10 per quelle con due figli, di 22 per quelle con tre o più figli. Tale andamento - sottolinea l'Istat - non si riscontro nei principali paesi europei. Sotto la media Ue anche il ricorso al part-time. Lo utilizzano il 28,2% delle italiane contro una media del 28,9% in nella Ue; in Germania è il 46,7%, nel Regno Unito il 37,9%, in Spagna il 21,7%.

IN CALO POPOLAZIONE ATTIVA, -11% ENTRO 2051 - L'Italia si conferma uno dei paesi più vecchi d'Europa e quello con uno dei più bassi indici di natalità. Lo squilibrio generazionale "é tra i più marcati d'Europa". Nei prossimi decenni, la popolazione attiva è destinata a ridursi: si stima che arriverà entro il 2031 a 37,4 milioni ed entro il 2051 a 33,4 milioni. La popolazione in età attiva passerebbe così dal 65,8% di oggi al 54,2% entro il 2051. Nel rapporto annuale dell'Istat, si afferma che la questione demografica "desta grandi preoccupazioni". L'Italia, dopo la Germania, è il paese più anziano d'Europa; risente in particolare di un squilibrio generazionale: il rapporto di dipendenza tra le persone in età inattiva (0-14 anni e 65 anni e più) e quelle in età attiva (15-64 anni) è passato dal 48 al 52% in dieci anni per effetto del peso crescente delle persone anziane (da 27 ogni 100 in età attiva nel 2000 a 31 nel 2009). Il rapporto fra le persone over 65 e quelle in età 0-14 anni (indice di vecchiaia) è di 144. Era 127 nel 2000. Tenuto conto che l'indice di fecondità (1,41 figli per donna; in Italia il tasso di natalità nel 2008 è di 9,6 per mille; sta meglio solo di Austria, 9,3 per mille, e di Germania, 8,3 per mille) risente positivamente della popolazione straniera, per l'Istat questo squilibrio è destinato ad aumentare raggiungendo a metà secolo un indice di vecchiaia di 256 (112 punti in più). Ciò vuol dire - sottolinea ancora l'Istat - che è da considerare prioritario l'investimento nei giovani per assicurare la sostenibilità del paese nel futuro. Fra l'altro, si va verso un aumento della speranza di vita: nel 2050 84,5 anni per gli uomini, 89,5 per le donne. Tra oggi e il 2051 si prevede una diminuzione di circa 400 mila giovani under14 (passeranno dal 14 al 12,9% della popolazione; saranno 7,9 milioni). Mentre gli anziani, dovrebbero raggiungere i 20,3 milioni. Un residente su cinque avrà più di 64 anni. I grandi anziani, oltre gli 85 anni, saranno il 7,8% del totale (4,8 milioni).

CRISI PESANTE PER STRANIERI,CALO OCCUPAZIONE E' DOPPIO - La crisi pesa di più sui lavoratori stranieri che italiani. Il tasso di occupazione dei primi è infatti calata nel 2009 a ritmi doppi rispetto ai secondi. Per gli italiani - rileva il rapporto annuale dell'Istat - infatti il tasso di occupazione (56,9%) è diminuito nel 2009 di oltre un punto percentuale, mentre per gli stranieri la flessione è stata più che doppia (dal 67,1% del 2008 al 64,5% dell'anno scorso). Anche il tasso di disoccupazione, è maggiore per gli stranieri, 2,7 punti (11,2%) in più rispetto a 0,9% degli italiani (7,5%). Per gli stranieri, l'aumento della disoccupazione (+77 mila) e dell'inattività (+113 mila) è avvenuto in presenza di un aumento dell'occupazione (+147 mila), concentrata nelle professioni non qualificate e in quelle operaie, dove la presenza di stranieri è già alta. Per l'Istat, ciò vuol dire che "anche nella crisi, gli immigrati non occupano i posti degli italiani. Continuano a rispondere alla domanda di lavoro non soddisfatta dalla manodopera locale".

FORMAZIONE'CRITICA',4.6 MLN LAVORATORI SOTTOINQUADRATI - La formazione è un capitolo pieno di carenze in Italia. Non riesce ad incidere nell'inclusione sociale; sul conseguimento dei titoli superiori continua a pesare una "forte disuguaglianza" legata alla classe sociale della famiglia di provenienza degli studenti. Ciò - ritiene l'Istat - blocca la mobilità sociale. Un esempio. Nel periodo 2004-2009 la quota di lavoratori diplomati passa dal 44,5% al 46,6% e quella dei laureati dal 14% al 17,2% ma "l'incidenza delle professioni qualificate e tecniche rimane sostanzialmente stabile acuendo il divario fra domanda ed offerta di lavoro degli occupati con medio-alto titolo di studio". Nel 2009, circa 16,5 milioni di occupati (72,4%) svolgono una professione adeguata al livello d' istruzione, 1,7 milioni (7,4%) ha un lavoro relativamente più qualificato mentre il 20,2% (4,6 milioni) è sottoinquadrato. Rispetto al 2004, il fenomeno del sottoinquadramento interessa oltre un milione di persone in più. Quasi la metà dei sottoinquadrati sono giovani, con 15-34 anni; in termini relativi, l'incidenza che svolgono un lavoro non adeguato al proprio livello di istruzione è del 31% (+6,8% rispetto al 2004). Il fenomeno dei sottoinquadrati si registra nei lavori meno tradizionali: il 46,9% degli occupati a termine, il 40,1% di quelli in part time e il 30,5% nelle collaborazioni. In generale, i livelli d'istruzione degli italiani sono "critici". Nel 2009, circa il 10% ha solo la licenza elementare o nessun titolo, il 36,6% la licenza media, il 40% il diploma e il 12,8% la laurea. Il 7,7% degli iscritti alle scuole superiori nel 2008-2009 ha ripetuto l'anno; il 12,2% degli iscritti al primo anno abbandona il percorso di studi, il 3,4% lascia al secondo anno. Nel Mezzogiorno sono del 14,1% e 3,8%. Nel 2009, oltre 1.2 milioni dichiara di non aver letto neanche un libro e di non aver mai utilizzato il pc. La non lettura coinvolge 4 ragazzi su 10; circa il 20% non usa il pc. La propensione alla lettura è condizionata dalla famiglia: i lettori superano il 72% se uno dei due genitori è laureato, se entrambi leggono. Anche l'utilizzo del pc avviene in casa, a scuola coinvolge appena 4 bambini su 10. La posizione dell'Italia poi nell'alta formazione "é distante" da quella di altri importanti paesi europei: nel 2007 hanno conseguito un titolo terziario circa 60 persone ogni mille giovani (20-29 anni), a fronte dei 77 della Francia e di oltre 80 del Regno Unito e della Danimarca. Anche i titoli nelle discipline tecnico-scientifiche collocano l'Italia sotto la media Ue (12,1 a fronte di 13,8 per mille 20-29 anni), poco al di sopra di Spagna e Germania. Il numero dei ricercatori a tempo pieno nelle imprese è salito di appena il 14% tra il 1990 e il 2008, contro il 40% della Germania. Nello stesso periodo, in Francia il numero dei ricercatori è raddoppiato e in Spagna triplicato.


fonte: Ansa
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26/05/2010 13:57
 
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dispiace che le parole di Brunetta continuino ad essere fraintese...
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26/05/2010 14:11
 
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“In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato nove volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, cinque volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato. Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call-center, perché spendere tanto per istruirli?” Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001




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Re:
°Paranoid Android°, 26/05/2010 14.11:


“In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato nove volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, cinque volte minore e fino al 40% dei lavoratori precari è laureato. Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call-center, perché spendere tanto per istruirli?” Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001




bella citazione...
faccio notare però che l'Italia è l'unico paese in cui ti puoi laureare in scienze della patatina fritta...
esistono corsi di laurea assurdi ed inutili che, oltre a drenare risorse, danno una falsa rappresentazione del livello culturale. Non sempre i laureati nei call center sono così lontani da quello che il loro titolo di laurea e la loro preparazione gli permette. Un esempio è la nostra facoltà dove la mole dei laureati è, anche nei 110, molto ignorante (scusate sempre la presunzione, ma è un dato). Ovvio che poi il mercato del lavoro (privato) non può accogliere soggetti che hanno scarse competenze sia per colpa della carenza formativa e specializzante dei corsi di studio sia per colpa degli studenti che ripetano a memoria il libro e non sanno nemmeno ciò che dicono. Non è un caso se i laureati con il massimo dei voti di economia e di ingegneria hanno un accesso al lavoro quasi diretto.
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Re: Re:
giusperito, 26/05/2010 16.19:




bella citazione...
faccio notare però che l'Italia è l'unico paese in cui ti puoi laureare in scienze della patatina fritta...
esistono corsi di laurea assurdi ed inutili che, oltre a drenare risorse, danno una falsa rappresentazione del livello culturale. Non sempre i laureati nei call center sono così lontani da quello che il loro titolo di laurea e la loro preparazione gli permette. Un esempio è la nostra facoltà dove la mole dei laureati è, anche nei 110, molto ignorante (scusate sempre la presunzione, ma è un dato). Ovvio che poi il mercato del lavoro (privato) non può accogliere soggetti che hanno scarse competenze sia per colpa della carenza formativa e specializzante dei corsi di studio sia per colpa degli studenti che ripetano a memoria il libro e non sanno nemmeno ciò che dicono. Non è un caso se i laureati con il massimo dei voti di economia e di ingegneria hanno un accesso al lavoro quasi diretto.




ma infatti io credo che il problema sia a monte, ovvero nella strutturazione del sistema di formazione ( e di formazione professionizzante)...e più in generale in come sia stato strutturato qui da noi il rapporto tra formazione-occupazione-welfare e flessibilità;
in relazione alla formazione, da una parte sono stati creati corsi di laurea praticamente inutili perchè non spendibili sul mercato (i vari "scienze delle merendine" o delle "patatine fritte", come dici tu, che giustamente nn possono avere sbocchi diversi dal bancone del Mc!), dall'altro lato nn si è provveduto ad adeguare l'offerta formativa all'offerta di lavoro...(e la nostra facoltà è un esempio-in negativo- di questo, secondo me)
quindi continuano a riversarsi sul mercato del lavoro laureati pluri-qualificati, pluri-masterizzati, ma senza arte nè parte..
lo ripeto, il problema per me è a monte...chi è che ha creato questi corsi di laurea ed ha inculcato nella gente il mito del pezzo di carta?

io credo più in generale che la maggior parte delle riforme che son state fatte da noi (quando fatte...) sono state un'occasione perduta per lo sviluppo del nostro paese (vedi in primis la "riforma" Biagi)

-sulla carenza di preparazione e di studio intelligente mi trovi d'accordo...ma se fossero i professori in primis a non accontentarsi della pappardella ripetuta a mo' di pappagallo (con annesso tono cantilenante [SM=x43624] ) e a richiedere un approccio differente allo studio (vedi il prof. Prisco, come esempio positivo), beh forse le cose potrebbero andare diversamente...




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Re: Re:
giusperito, 26/05/2010 16.19:




bella citazione...
faccio notare però che l'Italia è l'unico paese in cui ti puoi laureare in scienze della patatina fritta...
esistono corsi di laurea assurdi ed inutili che, oltre a drenare risorse, danno una falsa rappresentazione del livello culturale. Non sempre i laureati nei call center sono così lontani da quello che il loro titolo di laurea e la loro preparazione gli permette. Un esempio è la nostra facoltà dove la mole dei laureati è, anche nei 110, molto ignorante (scusate sempre la presunzione, ma è un dato). Ovvio che poi il mercato del lavoro (privato) non può accogliere soggetti che hanno scarse competenze sia per colpa della carenza formativa e specializzante dei corsi di studio sia per colpa degli studenti che ripetano a memoria il libro e non sanno nemmeno ciò che dicono. Non è un caso se i laureati con il massimo dei voti di economia e di ingegneria hanno un accesso al lavoro quasi diretto.




A parte questa dei call-center e delle lauree che gli consentono (quasi) solo quello, a tuo dire, che è una frase talmente ignobile e classista e intrinsecamente anti-culturale che non va neanche commentata, non riesco a capire perché quando si parla di carenze occupazionali e deficit sistematici che permettano l'ingresso nel mondo del lavoro, si levano sempre voci che indicano nei corsi di laurea meno produttivi in termini pratici (quelli che molti definiscono corsi di laurea inutili facendo un solo minestrone di saperi) la causa di ciò, o una concausa.
Il vecchio discorso sullo sciocco che guarda il dito. Se manca lavoro non è per colpa di scienze dell'educazione, le causa sono leggermente più complesse.
[Modificato da Massimo Volume 26/05/2010 18:12]
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Re: Re: Re:
Massimo Volume, 26/05/2010 18.11:




A parte questa dei call-center e delle lauree che gli consentono (quasi) solo quello, a tuo dire, che è una frase talmente ignobile e classista e intrinsecamente anti-culturale che non va neanche commentata, non riesco a capire perché quando si parla di carenze occupazionali e deficit sistematici che permettano l'ingresso nel mondo del lavoro, si levano sempre voci che indicano nei corsi di laurea meno produttivi in termini pratici (quelli che molti definiscono corsi di laurea inutili facendo un solo minestrone di saperi) la causa di ciò, o una concausa.
Il vecchio discorso sullo sciocco che guarda il dito. Se manca lavoro non è per colpa di scienze dell'educazione, le causa sono leggermente più complesse.



in realtà, perdonami, ma a me è il tuo discorso ad apparire un minestrone!
se mi proponi l'università come luogo di solo sapere e cultura ok, gli sbocchi effettivamente offerti da scienze delle merendine possono essere anche irrilevanti, ciò che rileva è la preparazione che ti ha dato in materia di merendine;
se però poi inizi a parlare di sbocchi lavorativi, di accesso al mercato del lavoro, ponendo quindi l'attenzione anche all'efficienza di questi corsi di laurea al fine dell'ingresso nel mercato beh, non puoi definire "ignobile, classista e intrinsecamente anti-culturale" affermare che scienze delle merendine ti apre la porta del mercato delle merendine, perchè quella è la realtà concreta (di cui, forse, ti sei disinteressato al momento in cui ti sei iscritto a quella facoltà!)
non è LA causa della disoccupazione giovanile, ma concausa sicuramente sì, ed anzi dovresti prendertela con chi continua ad illudere queste persone e sfornare laureati su laureati, che allo stato dei fatti difficilmente qui potranno avere un futuro diverso dal "pronto, è infostrada"...e però potranno ammirare quel bel pezzo di carta incorniciato in cameretta...wow...
[Modificato da °Paranoid Android° 26/05/2010 18:39]




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26/05/2010 22:56
 
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Re: Re: Re: Re:
°Paranoid Android°, 26/05/2010 18.39:



in realtà, perdonami, ma a me è il tuo discorso ad apparire un minestrone!
se mi proponi l'università come luogo di solo sapere e cultura ok, gli sbocchi effettivamente offerti da scienze delle merendine possono essere anche irrilevanti, ciò che rileva è la preparazione che ti ha dato in materia di merendine;
se però poi inizi a parlare di sbocchi lavorativi, di accesso al mercato del lavoro, ponendo quindi l'attenzione anche all'efficienza di questi corsi di laurea al fine dell'ingresso nel mercato beh, non puoi definire "ignobile, classista e intrinsecamente anti-culturale" affermare che scienze delle merendine ti apre la porta del mercato delle merendine, perchè quella è la realtà concreta (di cui, forse, ti sei disinteressato al momento in cui ti sei iscritto a quella facoltà!)
non è LA causa della disoccupazione giovanile, ma concausa sicuramente sì, ed anzi dovresti prendertela con chi continua ad illudere queste persone e sfornare laureati su laureati, che allo stato dei fatti difficilmente qui potranno avere un futuro diverso dal "pronto, è infostrada"...e però potranno ammirare quel bel pezzo di carta incorniciato in cameretta...wow...





Ma io non metto sullo stesso piano un corso di laurea sicuramente poco rilevante come sbocco lavorativo, magari anche poco rilevante a livello culturale, con:
-la disoccupazione giovanile, peraltro a livello europeo
-retribuzione spesso inadeguata rispetto alle proprie competenze
-il costo della vita crescente in relazione al ribasso (o stagnazione) di salari e stipendi
-il costo degli appartamenti, sia destinati all'acquisto che al fitto, che rende di fatto impossibile (o quasi) ai giovani -e per giovani intendo, purtroppo, gente fino ai 35-40- di lasciare la casa dei genitori
-difficoltà a ottenere mutui dalle banche
-assoluta incapacità del Governo italiano di porre in essere misure strutturali a sostegno dei giovani e del primo impiego e della prima casa, compresa la creazione di posti di lavoro
-tutte le altre questioni poste dall'articolo

Allora io mi chiedo, ma vogliamo vedere che con questo poco di crisi, la colpa è dei corsi di laurea improbabili?
Che poi molti siano effettivamente uno spreco di risorse ci siamo, che molti studenti restano illusi etc ma secondo me quando si parla di difficoltà simili le cause hanno un peso assai diverso.
[Modificato da Massimo Volume 26/05/2010 22:57]
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Re: Re: Re: Re: Re:
Massimo Volume, 26/05/2010 22.56:





Ma io non metto sullo stesso piano un corso di laurea sicuramente poco rilevante come sbocco lavorativo, magari anche poco rilevante a livello culturale, con:
-la disoccupazione giovanile, peraltro a livello europeo
-retribuzione spesso inadeguata rispetto alle proprie competenze
-il costo della vita crescente in relazione al ribasso (o stagnazione) di salari e stipendi
-il costo degli appartamenti, sia destinati all'acquisto che al fitto, che rende di fatto impossibile (o quasi) ai giovani -e per giovani intendo, purtroppo, gente fino ai 35-40- di lasciare la casa dei genitori
-difficoltà a ottenere mutui dalle banche
-assoluta incapacità del Governo italiano di porre in essere misure strutturali a sostegno dei giovani e del primo impiego e della prima casa, compresa la creazione di posti di lavoro
-tutte le altre questioni poste dall'articolo

Allora io mi chiedo, ma vogliamo vedere che con questo poco di crisi, la colpa è dei corsi di laurea improbabili?
Che poi molti siano effettivamente uno spreco di risorse ci siamo, che molti studenti restano illusi etc ma secondo me quando si parla di difficoltà simili le cause hanno un peso assai diverso.




ma i corsi di laurea non rientrano nel sistema di formazione? E' stato detto che non è LA causa, ma una concausa sicuramente sì, soprattutto se inserita nell'ambito delle politiche di formazione...(che poi in questo modo la critica va al governo che le ha strutturate in questo modo, mica a chi sceglie quei percorsi!)
tra l'altro sicuramente la crisi ha inciso, ma il mercato del lavoro italiano già da prima era tra i peggiori in Europa perchè con un alto tasso di flessibilità ma con un bassissimo livello di sicurezza sociale...quindi, fondamentalmente, precariato!
E poi...ma cosa ti aspetti da un Governo che ha fondamentalmente creato il precariato italiano? che lo elimini? [SM=x43815] (ot ho sbagliato a fare questa tesi, nn faccio che odiare sempre di più Berlusconi [SM=g51999] )

Il compito fondamentale della precarizzazione, sul piano soggettivo, è di aumentare l’insicurezza del lavoratore, di ridurne la forza sul mercato. Solo così la flessibilità ottiene il risultato desiderato, che è quello, appunto, di una maggiore prontezza e disponibilità ad adattarsi alle offerte della controparte. Il dramma del lavoratore precario non è nella durata effettiva della sua occupazione, che può essere anche lunga, ma nel fatto che, pur impegnandosi nel proprio compito, egli non sa se lavorerà nel prossimo mese o nel prossimo anno. E questa insicurezza non può essere eliminata, pena la perdita di efficacia della precarizzazione. Come non vedere la contraddizione di fondo tra flessibilità del mercato del lavoro e forza del singolo lavoratore in quel mercato? La prima raggiunge i suoi obiettivi solo se manca la seconda, almeno a livello soggettivo (Cella)
[Modificato da °Paranoid Android° 26/05/2010 23:37]




----------------------------------------------------------------------------
...perchè col tempo cambia tutto, lo sai, e cambiamo anche noi...
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Re: Re: Re:
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Massimo Volume, 26/05/2010 18.11:




A parte questa dei call-center e delle lauree che gli consentono (quasi) solo quello, a tuo dire, che è una frase talmente ignobile e classista e intrinsecamente anti-culturale che non va neanche commentata, non riesco a capire perché quando si parla di carenze occupazionali e deficit sistematici che permettano l'ingresso nel mondo del lavoro, si levano sempre voci che indicano nei corsi di laurea meno produttivi in termini pratici (quelli che molti definiscono corsi di laurea inutili facendo un solo minestrone di saperi) la causa di ciò, o una concausa.
Il vecchio discorso sullo sciocco che guarda il dito. Se manca lavoro non è per colpa di scienze dell'educazione, le causa sono leggermente più complesse.




1) sul classismo e sul resto credo che non avrei potuto rispondere meglio di come ha fatto paranoid
2) l'ingresso sul mercato del lavoro è limitato anche dall'assenza di capacità tecniche (ripeto sia per colpa di chi ha organizzato l'università così sia per colpa di chi non studia)
3) il problema è anche di mentalità: tutti si laureano anche in scienze delle merendine perchè devono avere il pezzo di carta e tutti con il pezzo di carta vogliono il posto fisso. E' classista chi invece di provare a fare l'operaio o l'imprenditore pensa che si deve laureare per forza anche se non ne ha le capacità. NOn fingiamo cose assurde e diciamoci la verità. La nostra facoltà è piena di ragazzi che non sapevano dove andare perchè non avevano mai studiato e che hanno pensato di fare il parcheggio da noi. NOn conosco gente senza voglia di studiare a matematica, chimica, medicina o così via... le università specializzanti sono quelle che permettono un accesso più rapido sul mercato. Inoltre unire la cultura all'università è un'eresia. Non cito nemmeno il caso di Benedetto Croce, ma faccio un ragionamento decisamente diverso. L'università non è la sede dello studio per cultura personale.. se ho voglia di conoscere certe materie mi metto con i libri e studio. SOno un amante della filosofia, ma non pretendo mica di richiedere più corsi di filosofia del diritto e non ho scelto filosofia, perchè ho guardato al mercato del lavoro. Non si può pretendere di laurearsi in filosofia e trovare lavoro nell'amministrazione pubblica. E' un assurdo. E' un corso di studi che non dovrebbe nemmeno esistere. L'università è la sede delle professioni (lo è per sua natura e per storia). La cultura è un'altra cosa. Chi potrebbe mai credere (e tu che sei di sinistra dovresti sapere cosa dicono autori come Lukacs) che lo studio pubblico possa essere la sede della cultura? Nella scuola pubblica si studia Manzoni mica Gramsci.. questo perchè il settore pubblico è espressione del ceto dominante (come dovresti ben sapere) ed allora di che cultura stiamo parlando?
La differenza nei saperi è un valore, ma non può esserlo attraverso un pezzo di carta, attraverso un vuoto formalismo. La verità è la ricerca di posti pubblici e di titoli che ti permettano di fare i concorsi quasi come se lo stato potesse assumere insegnanti, impiegati comunali e tutti gli altri senza sosta. Quella del titolo è una malattia. Bisognerebbe eliminare i corsi di laurea non specializzanti e con quelle risorse finanziare l'imprenditoria. CHi vuole fare l'imprenditore dà lavoro a chi finora ha studiato solo per fare l'impiegato (con la differenza che non è impiegato pubblico, ma privato) e l'impiegato per essere tale non ha bisogno di far finta di essere laureato. Chi poi è appassionato di certi studi li pratica come hobby a casa come faccio io con la filosofia, tizio con l'arte, caio con i francobolli e sempronio con i film.

P.S. Notizia di colore: una ragazza che conosco si laurea in uno di questi corsi assurdi con una tesi sul doppiaggio del mascellone di Beautiful... in ogni caso basta camminare per mezzocannone e leggere le copertine delle tesi per trovare titoli come studio su peter pan e simili. Saranno anche cose belle ed importanti da studiare (sono il primo a difendere la necessità di sapere sempre di più) ma non mi venite a raccontare che le mie tasse devono pagare professori e strutture per far laureare uno in peter pan o in beautful.
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sulla biagi faccio notare che prima c'era la treu, il più puro esempio del precariato
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Re: Re: Re: Re:
giusperito, 27/05/2010 1.37:

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1) sul classismo e sul resto credo che non avrei potuto rispondere meglio di come ha fatto paranoid
2) l'ingresso sul mercato del lavoro è limitato anche dall'assenza di capacità tecniche (ripeto sia per colpa di chi ha organizzato l'università così sia per colpa di chi non studia)
3) il problema è anche di mentalità: tutti si laureano anche in scienze delle merendine perchè devono avere il pezzo di carta e tutti con il pezzo di carta vogliono il posto fisso. E' classista chi invece di provare a fare l'operaio o l'imprenditore pensa che si deve laureare per forza anche se non ne ha le capacità. NOn fingiamo cose assurde e diciamoci la verità. La nostra facoltà è piena di ragazzi che non sapevano dove andare perchè non avevano mai studiato e che hanno pensato di fare il parcheggio da noi. NOn conosco gente senza voglia di studiare a matematica, chimica, medicina o così via... le università specializzanti sono quelle che permettono un accesso più rapido sul mercato. Inoltre unire la cultura all'università è un'eresia. Non cito nemmeno il caso di Benedetto Croce, ma faccio un ragionamento decisamente diverso. L'università non è la sede dello studio per cultura personale.. se ho voglia di conoscere certe materie mi metto con i libri e studio. SOno un amante della filosofia, ma non pretendo mica di richiedere più corsi di filosofia del diritto e non ho scelto filosofia, perchè ho guardato al mercato del lavoro. Non si può pretendere di laurearsi in filosofia e trovare lavoro nell'amministrazione pubblica. E' un assurdo. E' un corso di studi che non dovrebbe nemmeno esistere. L'università è la sede delle professioni (lo è per sua natura e per storia). La cultura è un'altra cosa. Chi potrebbe mai credere (e tu che sei di sinistra dovresti sapere cosa dicono autori come Lukacs) che lo studio pubblico possa essere la sede della cultura? Nella scuola pubblica si studia Manzoni mica Gramsci.. questo perchè il settore pubblico è espressione del ceto dominante (come dovresti ben sapere) ed allora di che cultura stiamo parlando?
La differenza nei saperi è un valore, ma non può esserlo attraverso un pezzo di carta, attraverso un vuoto formalismo. La verità è la ricerca di posti pubblici e di titoli che ti permettano di fare i concorsi quasi come se lo stato potesse assumere insegnanti, impiegati comunali e tutti gli altri senza sosta. Quella del titolo è una malattia. Bisognerebbe eliminare i corsi di laurea non specializzanti e con quelle risorse finanziare l'imprenditoria. CHi vuole fare l'imprenditore dà lavoro a chi finora ha studiato solo per fare l'impiegato (con la differenza che non è impiegato pubblico, ma privato) e l'impiegato per essere tale non ha bisogno di far finta di essere laureato. Chi poi è appassionato di certi studi li pratica come hobby a casa come faccio io con la filosofia, tizio con l'arte, caio con i francobolli e sempronio con i film.

P.S. Notizia di colore: una ragazza che conosco si laurea in uno di questi corsi assurdi con una tesi sul doppiaggio del mascellone di Beautiful... in ogni caso basta camminare per mezzocannone e leggere le copertine delle tesi per trovare titoli come studio su peter pan e simili. Saranno anche cose belle ed importanti da studiare (sono il primo a difendere la necessità di sapere sempre di più) ma non mi venite a raccontare che le mie tasse devono pagare professori e strutture per far laureare uno in peter pan o in beautful.




La prima frase in neretto è opinabile come lo sono tutte le generalizzazioni, le quali non riescono mai a fotografare compiutamente una realtà, ma rispondono a una rappresentazione soggettiva di una posizione - tutta da dimostrare.

La seconda frase in neretto è, per me, ricollegandomi a prima, una teorizzazione di pura anti-cultura.
Il tuo discorso è enormemente fallace per vari motivi. Uno è ontologico, nella misura in cui è impossibile scindere il sapere universitario dalla Cultura in senso ampio. Qual è la demarcazione tra sapere e cultura? Chi la stabilisce? Il "per-sé darwinistico" del mercato? Sarebbe poi un parametro affidabile?

Non hai scelto filosofia guardando al mercato del lavoro. Dunque, premesso che questa tua scelta è, come sopra, una rappresentazione soggettiva che non rileva -almeno per me, chi si laurea in filosofia non deve necessariamente entrare nel settore pubblico.
La citazione peraltro della facoltà di filosofia è sbagliata. La filosofia, insieme e forse più di altre discipline umanistiche, concorre al progresso spirituale (ma senza hegelismi, anche alla prospettazione di un esistente migliore) da sempre. Vogliamo sostituirlo o cancellarlo ora?

Ancora. Il tuo discorso porterebbe ad un assurdo. Ossia tutte quelle facoltà che sarebbero "intaccate" dalla Cultura sarebbero inutili. Quindi filosofia, arte, sociologia, scienze delle comunicazioni (che molti citano a sproposito ma è una delle opzioni, ad es., per i giornalisti) dovrebbero essere abolite.
Ma aldilà dell'aberrazione in sé, ci pensi se il sapere e i centri di produzione del sapere fossero esclusivamente tesi soltanto ad una idea -arida- di funzionalità al mercato?

Ancora. Non concordo sulla tua concezione di cultura. Un Feticcio da coltivare individualmente, nella propria stanzetta. Giurisperito la cultura è innanzitutto condivisione, è metro di civiltà di una società, e se una società non riesce ad educare -non indottrinare- alla cultura, e in senso lato alla Bellezza, è una società che si abbrutisce e perde.

Ancora. Sul rapporto tra diffusione culturale e poteri dominanti, è più che ovvio che ti do parzialmente ragione (non spiego le ragioni della parzialità sennò il discorso diventa ancora più lungo), ma... la conseguenza diretta può essere mai quella che teorizzi tu? Senza offesa ma ritorna il discorso della luna e del dito.


ps. l'esempio è un caso limite.
[Modificato da Massimo Volume 27/05/2010 10:28]
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le cose non stanno proprio cosi.
La necessita' di laurearsi è piu' sentita al sud che al nord.
il motivo? non ci sono spoldi,allora si punta sulla preparazione per
trovare lavoro.Da noi ci sono laureati anche in materie"importanti" che sbavano per un concorso al comune di vigile urbano!!
siamo a tale livello di poverta'(parlo in generale) che si fa a cazzotti per un posto ,qualsiasi, di lavoro dopo anni di studio.
Molti al nord nemmeno ci vanno all'univ. hanno i soldi aprono imprese ,attivita' e vanno avanti.Da noi o studi o stai cmq a spasso(che poi non è nemmeno vero) è una tendenza che c'è sempre stata al sud quella di studiare di essere preparati per essere piu' forti nel mercato del lavoro.
il fatto è che mentre prima la squola dell'obbligo era la 3media edsso è la maturita',allora la conseguenza naturale è andare all'universita' che hanno genrato troppi laureati è un dato di fatto.
Mettiamoci poi che la crisi economica sta complicando le cose......e la faccenda è piu' nera di prima.TRA' L'ALTRO LA POLITICA NON FA UN CAZZO PER PROVARE A CAMBIARE LE COSE.
MA SONO FIDUCIOSO PERCHè TRA 4-5ANNI POTREBBE ESSERCI UN ALTRO BUM ECONOMICO
[Modificato da lucas22 27/05/2010 11:01]


I videogiochi non influenzano i bambini. Voglio dire, se Pac Man avesse influenzato la nostra generazione ora staremmo tutti saltando in sale scure, masticando pillole magiche e ascoltando musica elettronica ripetitiva."
(Kristian Wilson, Nintendo Inc., 1989)

Pochi anni dopo nacquero le feste rave, la musica techno e l'ecstasy...
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Re: Re: Re: Re:
giusperito, 27/05/2010 1.37:

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1) sul classismo e sul resto credo che non avrei potuto rispondere meglio di come ha fatto paranoid
2) l'ingresso sul mercato del lavoro è limitato anche dall'assenza di capacità tecniche (ripeto sia per colpa di chi ha organizzato l'università così sia per colpa di chi non studia)
3) il problema è anche di mentalità: tutti si laureano anche in scienze delle merendine perchè devono avere il pezzo di carta e tutti con il pezzo di carta vogliono il posto fisso. E' classista chi invece di provare a fare l'operaio o l'imprenditore pensa che si deve laureare per forza anche se non ne ha le capacità. NOn fingiamo cose assurde e diciamoci la verità. La nostra facoltà è piena di ragazzi che non sapevano dove andare perchè non avevano mai studiato e che hanno pensato di fare il parcheggio da noi. NOn conosco gente senza voglia di studiare a matematica, chimica, medicina o così via... le università specializzanti sono quelle che permettono un accesso più rapido sul mercato. Inoltre unire la cultura all'università è un'eresia. Non cito nemmeno il caso di Benedetto Croce, ma faccio un ragionamento decisamente diverso. L'università non è la sede dello studio per cultura personale.. se ho voglia di conoscere certe materie mi metto con i libri e studio. SOno un amante della filosofia, ma non pretendo mica di richiedere più corsi di filosofia del diritto e non ho scelto filosofia, perchè ho guardato al mercato del lavoro. Non si può pretendere di laurearsi in filosofia e trovare lavoro nell'amministrazione pubblica. E' un assurdo. E' un corso di studi che non dovrebbe nemmeno esistere. L'università è la sede delle professioni (lo è per sua natura e per storia). La cultura è un'altra cosa. Chi potrebbe mai credere (e tu che sei di sinistra dovresti sapere cosa dicono autori come Lukacs) che lo studio pubblico possa essere la sede della cultura? Nella scuola pubblica si studia Manzoni mica Gramsci.. questo perchè il settore pubblico è espressione del ceto dominante (come dovresti ben sapere) ed allora di che cultura stiamo parlando?
La differenza nei saperi è un valore, ma non può esserlo attraverso un pezzo di carta, attraverso un vuoto formalismo. La verità è la ricerca di posti pubblici e di titoli che ti permettano di fare i concorsi quasi come se lo stato potesse assumere insegnanti, impiegati comunali e tutti gli altri senza sosta. Quella del titolo è una malattia. Bisognerebbe eliminare i corsi di laurea non specializzanti e con quelle risorse finanziare l'imprenditoria. CHi vuole fare l'imprenditore dà lavoro a chi finora ha studiato solo per fare l'impiegato (con la differenza che non è impiegato pubblico, ma privato) e l'impiegato per essere tale non ha bisogno di far finta di essere laureato. Chi poi è appassionato di certi studi li pratica come hobby a casa come faccio io con la filosofia, tizio con l'arte, caio con i francobolli e sempronio con i film.

P.S. Notizia di colore: una ragazza che conosco si laurea in uno di questi corsi assurdi con una tesi sul doppiaggio del mascellone di Beautiful... in ogni caso basta camminare per mezzocannone e leggere le copertine delle tesi per trovare titoli come studio su peter pan e simili. Saranno anche cose belle ed importanti da studiare (sono il primo a difendere la necessità di sapere sempre di più) ma non mi venite a raccontare che le mie tasse devono pagare professori e strutture per far laureare uno in peter pan o in beautful.






[SM=x43641]

In tanti anni che frequento il forum, raramente sono stata + d'accordo di così su qlcs.

Guardiamo le cose in faccia, e basta ipocrisie: il classismo vero è dire che tutti devono accedere all'università. Per me deve accedere all'università chi ha voglia davvero di approfondire quello specialistico ramo del sapere, di apprendere quelle informazioni tecniche che da sola non potrebbe (perchè troppo comlesse) imparare. Se mi interessano il cinema o la fotografia, non ho bisogno dell'università. Cito un caso personale: io da un po' mi sono appassionata alla fotografia e mi sono messa appresso ad un fotografo, e come me altri ragazzi, molti dei quali anche vincitori di concorsi a livello nazionale. Questo per dire che per imparare certe arti e certi mestieri non serve l'università. Il problema vero, semmai, è che ci hanno fatto credere che servisse l'università per qualsiasi cosa, anche per cose per le quali non esiste un mercato del lavoro (tornando alla fotografia, il fotoreporter recentemente morto prendeva 2 euro a foto, vi rendete conto???)

E non lo hanno fatto per noi, lo hanno fatto per loro, per spartirsi cattedre e posti di potere. E allora, se ci sono + amici da accontentare, ci sono + cattedre da dare, e quindi + corsi di scienze delle merendine da creare. Chissenefrega se tutto questo vuol dire che i genitori di quei ragazzi, futuri inconsapevli disoccupati, faranno abnormi sacrifici pur di fare avere al figlio il pezzo di carta. Molti di quei genitori, purtroppo, sono essi stessi vittima dell'inganno. Scusate, ma secondo me è triste vedere ( e li ho visti) padri di famiglie modeste non andare in vacanza per anni per mantenere i figli a scienze della patata lessa, per poi vedere quegli stessi figli disoccupati.

Ovviamente, e su qst concordo con Massimovolume, la formazione non è l'unica causa nè l'unico problema: oggi anche un buon laureato in giurisprudenza non trova lavoro. E questo sia per il basso livello di formazione (finiamola di dire che la Fed II chissà che fucina di talenti sia, quegli anni sono finiti da un pezzo, basterebbe un po' di autocritica e onestà per ammetterlo), sia perchè, non volendo il numero chiuso e facendo nascere - sulla base di quell'altra grande balla che chiamano diritto allo studio - facoltucole pure a Pinerolo e Trecasupole, abbiamo prodotto una mole di futuri avvocati che è straordinariamente superiore alla domanda.


Un'ultima cosa: è + classista dire che non ha senso che tutti vadano all'università, o ritenere che chi non ha una laurea sia una persona di serie B ( o che quindi siano tali piarrucchieri, estetiste, artigiani del legno, sarti, idraulici, fotografi, pittori, scultori, tappezzieri etc..)???


[Modificato da giugiotta 27/05/2010 11:57]







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Re: Re: Re: Re: Re:
giugiotta, 27/05/2010 11.55:






[SM=x43641]

In tanti anni che frequento il forum, raramente sono stata + d'accordo di così su qlcs.

Guardiamo le cose in faccia, e basta ipocrisie: il classismo vero è dire che tutti devono accedere all'università. Per me deve accedere all'università chi ha voglia davvero di approfondire quello specialistico ramo del sapere, di apprendere quelle informazioni tecniche che da sola non potrebbe (perchè troppo comlesse) imparare. Se mi interessano il cinema o la fotografia, non ho bisogno dell'università. Cito un caso personale: io da un po' mi sono appassionata alla fotografia e mi sono messa appresso ad un fotografo, e come me altri ragazzi, molti dei quali anche vincitori di concorsi a livello nazionale. Questo per dire che per imparare certe arti e certi mestieri non serve l'università. Il problema vero, semmai, è che ci hanno fatto credere che servisse l'università per qualsiasi cosa, anche per cose per le quali non esiste un mercato del lavoro (tornando alla fotografia, il fotoreporter recentemente morto prendeva 2 euro a foto, vi rendete conto???)

E non lo hanno fatto per noi, lo hanno fatto per loro, per spartirsi cattedre e posti di potere. E allora, se ci sono + amici da accontentare, ci sono + cattedre da dare, e quindi + corsi di scienze delle merendine da creare. Chissenefrega se tutto questo vuol dire che i genitori di quei ragazzi, futuri inconsapevli disoccupati, faranno abnormi sacrifici pur di fare avere al figlio il pezzo di carta. Molti di quei genitori, purtroppo, sono essi stessi vittima dell'inganno. Scusate, ma secondo me è triste vedere ( e li ho visti) padri di famiglie modeste non andare in vacanza per anni per mantenere i figli a scienze della patata lessa, per poi vedere quegli stessi figli disoccupati.

Ovviamente, e su qst concordo con Massimovolume, la formazione non è l'unica causa nè l'unico problema: oggi anche un buon laureato in giurisprudenza non trova lavoro. E questo sia per il basso livello di formazione (finiamola di dire che la Fed II chissà che fucina di talenti sia, quegli anni sono finiti da un pezzo, basterebbe un po' di autocritica e onestà per ammetterlo), sia perchè, non volendo il numero chiuso e facendo nascere - sulla base di quell'altra grande balla che chiamano diritto allo studio - facoltucole pure a Pinerolo e Trecasupole, abbiamo prodotto una mole di futuri avvocati che è straordinariamente superiore alla domanda.


Un'ultima cosa: è + classista dire che non ha senso che tutti vadano all'università, o ritenere che chi non ha una laurea sia una persona di serie B ( o che quindi siano tali piarrucchieri, estetiste, artigiani del legno, sarti, idraulici, fotografi, pittori, scultori, tappezzieri etc..)???






Premesso che tutti devono avere la possibilità di andare all'università (conquista democratica messa a repentaglio dall'aumento dei costi per restarci, all'università), e né io e penso nessun altro ho mai sostenuto di puntare una pistola alla nuca delle persone intimandogli di seguire i corsi.
Concordo quando dici che ci hanno indotto a credere che l'università serva necessariamente, quando deve essere rimesso, effettivamente, alla voglia di specializzazione del singolo.

Ma io vorrei a questo punto sapere quali sono questi corsi di laurea inutili, che a sentire qualcuno sono la causa della disoccupazione a livello europeo.
Veramente, perché sicuramente non nego che ci siano corsi di laurea superflui, atti a creare clientele e baronato, ma prego qualcuno di specificarmi qual è la linea di demarcazione tra utile e inutile, e nello specifico se l'utilità in questione è esclusivamente una questione di profitto/mercato o in generale c'è un'idea di utilità e senso sociale del sapere che non sia limitato al concorso pubblico.
Se magari è possibile non dico un elenco, ma perlomeno qualche esempio serio (e non scienze della patata o della merendina). Non sono né ironico né provocatorio, è una sincera curiosità e una necessità a questo punto, altrimenti non so di cosa stiamo parlando.

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27/05/2010 12:29
 
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per me il problema non sono le facoltà "inutili".
Non esistono facoltà inutili, ma sicuramente esistono facoltà sovradimensionate, che la gente usa come parcheggio perchè non ha le idee ben chiare.

Sono sostanzialmente daccordo con l'analisi di giusperito, ma a volte lo trovo un po' spocchioso.
È così strano che una tesi di laurea in letteratura inglese abbia come tema Peter Pan, che è stata un'opera teatrale rivoluzionaria per l'epoca?
Le facoltà sono poco serie non per il tema che trattano ma per come sono gestite. Non esistono facoltà inutili, ma sicuramente esistono facoltà con sbocchi lavorativi limitati, a questo punto spetta ai professori operare una selezione QUALITATIVA per scremare chi è davvero interessato da chi sta parcheggiato, in modo da aumentare il livello dell'insegnamento... ammesso che ne siano capaci.




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Re:
giusperito, 27/05/2010 1.41:

sulla biagi faccio notare che prima c'era la treu, il più puro esempio del precariato




guarda, non sono d'accordo...una cosa è dire che Treu abbia introdotto nel nostro ordinamento iper-rigido elementi di flessibilità, un'altra è parlare di precariato...e un'altra ancora è fare un paragone con la riforma Biagi!
innanzitutto nel '90 le esigenze di flessibilità delle imprese erano reali, ed impossibile (ed irragionevole) ignorarle...Treu ha praticamente introdotto ipotesi di flessibilità (vedi lo sdoganamento dell'interinale, anche se in base ad una disciplina rigida e concepita come eccezione), non stravolgendo però l'equilibrio complessivo (forse il fatto che sia stato un governo di sinistra a farlo fa storcere il naso...ma nn si deve sottovalutare che è la Comunità europea ad imporci determinate politiche..)
la riforma Biagi invece nn si limita a prevedere altre ipotesi di contratti atipici...ma tralascia di predisporre quelle misure finalizzate proprio ad evitare che la flessibilità diventi precariato (vedi riforma degli ammortizzatori sociali, che è stata stralciata dal disegno e che possiamo dire tutt'ora incompiuta- e considerando il fatto che il disegno iniziale prevedeva anche la riforma dell'art. 18-; vedi riforma del sistema di formazione professionalizzate...per nn parlare di come sono state riformate le agenzie per l'impiego)
ma, soprattutto, di base c'è uno stravolgimento della concezione di mercato e del diritto del lavoro...ora si vuole che il lavoratore contratti a livello individuale con il datore...ma com'è possibile, se di base c'è un potere contrattuale diverso? (e se per un posto di lavoro siamo in 1000!)

il problema del nostro mercato ora, accanto alla crisi, è la cd. segmentazione tra insiders e outsiders...e cioè tra i lavoratori a tempo indeterminato, iper-protetti e inamovibili e tutti gli altri lavoratori (vedi noi [SM=x43668] ) che invece faticano ad entrare nel mercato, hanno tutele scarsissime e contratti a progetto, a termine, intermittente [SM=x43815]


sul resto io concordo pienamente con giusperito e giugiotta...l'istruzione obbligatoria termina molto prima dei 19 anni, e secondo me il complito dell'università non dovrebbe essere quello di diffondere sapere (almeno nn solo) ma di prepararti al mercato del lavoro...altrimenti arriviamo all'assurdo che abbiamo qui in Italia, e cioè che usciamo dall'università a 24-25 anni (quando va bene) senza però esser minimamente preparati al mercato, e con un pezzo di carta che ormai ha il valore del diploma di un tempo, quindi con la necessità di fare master costosissimi, pratiche di 2-3 anni ecc...forse a 32 anni vedremo il primo stipendio, o il primo pagamento [SM=x43808]




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Re: Re: Re: Re: Re: Re:
Massimo Volume, 27/05/2010 12.19:




Premesso che tutti devono avere la possibilità di andare all'università (conquista democratica messa a repentaglio dall'aumento dei costi per restarci, all'università), e né io e penso nessun altro ho mai sostenuto di puntare una pistola alla nuca delle persone intimandogli di seguire i corsi.
Concordo quando dici che ci hanno indotto a credere che l'università serva necessariamente, quando deve essere rimesso, effettivamente, alla voglia di specializzazione del singolo.

Ma io vorrei a questo punto sapere quali sono questi corsi di laurea inutili, che a sentire qualcuno sono la causa della disoccupazione a livello europeo.
Veramente, perché sicuramente non nego che ci siano corsi di laurea superflui, atti a creare clientele e baronato, ma prego qualcuno di specificarmi qual è la linea di demarcazione tra utile e inutile, e nello specifico se l'utilità in questione è esclusivamente una questione di profitto/mercato o in generale c'è un'idea di utilità e senso sociale del sapere che non sia limitato al concorso pubblico.
Se magari è possibile non dico un elenco, ma perlomeno qualche esempio serio (e non scienze della patata o della merendina). Non sono né ironico né provocatorio, è una sincera curiosità e una necessità a questo punto, altrimenti non so di cosa stiamo parlando.





Adrià, a sto punto devo pensare che nn conosci la differenza tra causa e concausa, visto che è stato stra-ripetuto che nn è causa, ma concausa..
la linea di demarcazione è semplice...e prevedo che nn concorderai, ma è questa: la domanda del mercato!
se l'università non deve servire a creare inoccupati qualificati allora si deve stare più attenti alle esigenze del mercato, e limitare (nn dico sopprimere) facoltà che hanno sbocchi limitati (o otturati)
oggi servono più insegnanti di lettere o web designer, ad esempio?
oppure serve più un insegnante di filosofia o un infermiere?
il mercato non è il mostro mangia-professionalità ma il luogo di incontro tra domanda e offerta di lavoro...se tu sai benissimo che una laurea in lingue romanze oggi è poco spendibile, ma segui le tue passioni e intraprendi questa strada, volente o nolente al termine del tuo percorso universitario ti troverai a dover svolgere occupazioni che c'entrano poco con la qualifica che hai! e per inciso, se esci a 25 anni dall'università con un pezzo di carta inutile ti ritrovi nn solo la concorrenza di quelli che hanno il tuo stesso pezzo di carta inutile, o pezzi simili, ma anche la concorrenza di quelli che il pezzo di carta nn l'hanno preso, e hanno cominciato da subito a fare esperienza...anche al Mc prenderebbero prima quello di te!
[Modificato da °Paranoid Android° 27/05/2010 13:14]




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Re: Re:
°Paranoid Android°, 27/05/2010 12.56:




guarda, non sono d'accordo...una cosa è dire che Treu abbia introdotto nel nostro ordinamento iper-rigido elementi di flessibilità, un'altra è parlare di precariato...e un'altra ancora è fare un paragone con la riforma Biagi!
innanzitutto nel '90 le esigenze di flessibilità delle imprese erano reali, ed impossibile (ed irragionevole) ignorarle...Treu ha praticamente introdotto ipotesi di flessibilità (vedi lo sdoganamento dell'interinale, anche se in base ad una disciplina rigida e concepita come eccezione), non stravolgendo però l'equilibrio complessivo (forse il fatto che sia stato un governo di sinistra a farlo fa storcere il naso...ma nn si deve sottovalutare che è la Comunità europea ad imporci determinate politiche..)
la riforma Biagi invece nn si limita a prevedere altre ipotesi di contratti atipici...ma tralascia di predisporre quelle misure finalizzate proprio ad evitare che la flessibilità diventi precariato (vedi riforma degli ammortizzatori sociali, che è stata stralciata dal disegno e che possiamo dire tutt'ora incompiuta- e considerando il fatto che il disegno iniziale prevedeva anche la riforma dell'art. 18-; vedi riforma del sistema di formazione professionalizzate...per nn parlare di come sono state riformate le agenzie per l'impiego)
ma, soprattutto, di base c'è uno stravolgimento della concezione di mercato e del diritto del lavoro...ora si vuole che il lavoratore contratti a livello individuale con il datore...ma com'è possibile, se di base c'è un potere contrattuale diverso? (e se per un posto di lavoro siamo in 1000!)

il problema del nostro mercato ora, accanto alla crisi, è la cd. segmentazione tra insiders e outsiders...e cioè tra i lavoratori a tempo indeterminato, iper-protetti e inamovibili e tutti gli altri lavoratori (vedi noi [SM=x43668] ) che invece faticano ad entrare nel mercato, hanno tutele scarsissime e contratti a progetto, a termine, intermittente [SM=x43815]


sul resto io concordo pienamente con giusperito e giugiotta...l'istruzione obbligatoria termina molto prima dei 19 anni, e secondo me il complito dell'università non dovrebbe essere quello di diffondere sapere (almeno nn solo) ma di prepararti al mercato del lavoro...altrimenti arriviamo all'assurdo che abbiamo qui in Italia, e cioè che usciamo dall'università a 24-25 anni (quando va bene) senza però esser minimamente preparati al mercato, e con un pezzo di carta che ormai ha il valore del diploma di un tempo, quindi con la necessità di fare master costosissimi, pratiche di 2-3 anni ecc...forse a 32 anni vedremo il primo stipendio, o il primo pagamento [SM=x43808]




Sono d'accordo, ma il "mercato" del lavoro (che secondo me è più corretto definire mondo del lavoro, mi da meno l'impressione che gli studenti siano dei bovini da vendere appunto al mercato) è necessariamente legato solo a quelle facoltà che si reputano (senza criteri identificativi però, il che cambia tutto) utili?

Allora facciamo un giochetto, io metto delle facoltà e vediamo perché sono utili o inutili. Così abbiamo esempi e riferimenti concreti [SM=x43819]

Giurisprudenza: utile o inutile?
Filosofia: utile o inutile?
Chimica: utile o inutile?
Matematica: utile o inutile?
Sociologia: utile o inutile?
Scienza delle comunicazioni: utile o inutile?
Archeologia: utile o inutile?
Sc. della formazione: utile o inutile?
Agraria: utile o inutile?
Storia: utile o inutile?
Psicologia: utile o inutile?
Scienza politiche: utile o inutile?
Ingegneria: utile o inutile?
Biologia: utile o inutile?
Lingue: utile o inutile?
Lettere antiche: utile o inutile?
Architettura: utile o inutile?
Lettere moderne: utile o inutile?


per ora non me ne sovvengono altre, posto queste perché evitiamo di parlare senza cognizione di causa per teoremi generali
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27/05/2010 13:25
 
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Re: Re: Re: Re: Re: Re: Re:
°Paranoid Android°, 27/05/2010 13.13:




Adrià, a sto punto devo pensare che nn conosci la differenza tra causa e concausa, visto che è stato stra-ripetuto che nn è causa, ma concausa..
la linea di demarcazione è semplice...e prevedo che nn concorderai, ma è questa: la domanda del mercato!
se l'università non deve servire a creare inoccupati qualificati allora si deve stare più attenti alle esigenze del mercato, e limitare (nn dico sopprimere) facoltà che hanno sbocchi limitati (o otturati)
oggi servono più insegnanti di lettere o web designer, ad esempio?
oppure serve più un insegnante di filosofia o un infermiere?
il mercato non è il mostro mangia-professionalità ma il luogo di incontro tra domanda e offerta di lavoro...se tu sai benissimo che una laurea in lingue romanze oggi è poco spendibile, ma segui le tue passioni e intraprendi questa strada, volente o nolente al termine del tuo percorso universitario ti troverai a dover svolgere occupazioni che c'entrano poco con la qualifica che hai! e per inciso, se esci a 25 anni dall'università con un pezzo di carta inutile ti ritrovi nn solo la concorrenza di quelli che hanno il tuo stesso pezzo di carta inutile, o pezzi simili, ma anche la concorrenza di quelli che il pezzo di carta nn l'hanno preso, e hanno cominciato da subito a fare esperienza...anche al Mc prenderebbero prima quello di te!




tra l'altro, la cosa fondamentale secondo me ancora nn è stata detta...
dobbiamo metterci in testa che il mondo del lavoro è cambiato, non esiste più il mito del posto fisso...le politiche occupazionali attuali (e ce lo impone la comunità europea) tendono a sviluppare non l'occupazione (intesa come stabilità del posto di lavoro), ma l'occupabilità...questo significa che proteggono e tutelano non la stabilità del tuo posto di lavoro ma dovrebbero (perchè da noi ancora nn c'è nemmeno questo!) tutelarti nel passaggio da un'occpazione all'altra (con ammortizzatori nel senso di welfare to work, con programmi di formazione professionalizzante, con politiche attive del lavoro)...perchè il punto è che ora ti chiedono di passare da un'occupazione all'altra, e per questo servono competenze di molto superiori al passato, devi essere in grado di ricoprire ruoli differenti, devi saperti adattare...ora, se già parti da una formazione inutile o senza sbocchi, non sei già fuori dal mercato?




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