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Serve ancora a qualcosa l'Italia?

Ultimo Aggiornamento: 02/06/2013 17:59
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23/05/2013 11:44
 
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Serve ancora a qualcosa l'Italia? E a che cosa? Può ancora immaginare in quanto Nazione di avere una vocazione, un destino, suoi propri? E qual è il suo ruolo, se ce n'è uno, in relazione agli altri Paesi del mondo?

Tra i molti nodi che oggi stanno venendo al pettine c'è anche questo. Un nodo creatosi, a ben vedere, con la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, sul cui significato di cesura non metabolizzata si apre, non a caso, con alcune acute osservazioni, il bel libro di Giuliano Amato e di Andrea Graziosi Grandi illusioni (Il Mulino) appena andato in libreria. Fino a quella data le classi dirigenti della Penisola - di estrazione invariabilmente borghese, con qualche rarissima eccezione sia pure assai significativa come nel caso del fascismo con Mussolini e pochi altri - furono tutte convinte che lo Stato nazionale fosse sorto con una «missione». Quella di riportare l'Italia al centro dello sviluppo storico, di farne in vario modo una «potenza» in grado di rivaleggiare con le altre del continente, di restaurarne l'antico prestigio civile e culturale, di elevare le sue plebi alla dignità di «popolo». Declinata in senso nazional-liberale prima, e nazional-fascista poi, questa convinzione fece naufragio nella catastrofe del 1943-45. All'indomani, la Repubblica dei partiti si trovò più o meno d'accordo nel fondare la civitas democratica, ma - animata com'era da visioni storiche tra loro diversissime, e sotto il peso del disastro appena passato - non poté porsi la questione della nazione. (Anche se questa, in modo perlopiù tacito, era ancora ben presente e talora visibile negli uomini e nelle idee dei partiti di quella stessa Repubblica).

Ingabbiati nel doppio bipolarismo Est-Ovest e comunisti-democristiani, decidemmo quindi - prima a maggioranza, ma in seguito alla caduta del muro di Berlino praticamente all'unanimità - che il nostro solo destino erano l'Occidente e l'Europa. Che il nostro orizzonte era assorbito per intero da quelle due dimensioni. Che la nostra storia finiva lì. Oggi ci accorgiamo che siamo stati un po' troppo sbrigativi. Che in un'Europa che è ancora (e chissà ancora per quanto) un'Europa degli Stati, cioè delle sovranità, la nostra sovranità non è meno importante delle altre. Ma che se essa vuole contare qualcosa, se vuole essere forza e sostanza di un vero soggetto politico, deve fondarsi necessariamente su un'idea d'Italia. Cioè sul presupposto che questo Paese abbia un insieme di retaggi, di qualità, di vocazioni e di aspirazioni peculiarmente suoi, e che precisamente queste peculiarità esso sia chiamato in qualche modo a riunire e a esprimere entro la moderna forma dello Stato nazionale.

Immaginare ed elaborare un'idea d'Italia corrispondente ai bisogni dell'ora è oggi il compito storicamente più urgente della politica italiana. Essa deve mostrarsi capace di additare un senso e un cammino complessivi alla nostra presenza sulla scena storica. Solo in tal modo la politica stessa sarà in grado di riscoprire e rinvigorire la dimensione dello Stato nazionale e della sua sovranità, sperando così di ritrovare un rapporto con il Paese capace di animarlo e motivarlo di nuovo.
Solo così riusciremo a riprenderci, a ricominciare. Sono ormai anni che le energie della società italiana appaiono paralizzate, i suoi animal spirits bloccati. Che il Paese è immerso in una crisi di sfiducia nelle proprie forze, in una sorta di apatia, di sfibramento psicologico, che minacciano di divenire una cupa rassegnazione. L'economia con ciò ha molto a che fare. È difficile infatti che a qualcuno venga in mente d'investire in un Paese che non sa quello che è, né ciò che vuol essere. È difficile che qualcuno avvii qualcosa d'importante e a lungo termine in un Paese che non ha idea di che cosa esiste a fare, che non guarda al proprio passato come al trampolino per un avvenire. Nella dimensione esclusiva dell'oggi, infatti, al massimo si sopravvive: per esistere con pienezza di vita bisogna, invece, sapere da dove si viene e dove si va. Ma la politica solamente può e deve dirlo. Come essa ha fatto altre volte nel nostro passato, quando si è dimostrata capace di mobilitare risorse, di sollecitare energie, di concepire vasti disegni. E ogni volta, non a caso, ritornando a quel nesso profondo, all'origine della nostra storia unitaria, che lega indissolubilmente lo Stato nazionale italiano a un'idea d'Italia. Senza la quale neppure il primo, alla lunga, riesce ad esistere.

Ernesto Galli della Loggia


tratto da il corriere della sera
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23/05/2013 20:35
 
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Galli della Loggia sta peggiorando parecchio. La prima parte è solo uno spot al libro di Amato(ma è ovunque cazzo!) nella miglior tradizione della marchetta all'italiana.
La classe politica risorgimentale si ritrovò ad affrontare alcune delle sfide più difficili mai viste da politici di ogni tempo, ad alcune seppe dare risposte - risanamento finanziario, sradicamento di malattie come il colera e la pellagra, l'allargamento relativamente rapido della base elettorale- ad altre invece no e questa incapacità la indusse a quell'avventurismo insensato che pose le basi della sua distruzione.

Prendiamo le avventure coloniali che all'epoca erano lo status symbol della potenza: gli altri paesi europei conquistavano colonie per ottenere risorse, manodopera a basso costo e mercati di sbocco, noi invece andavamo a cercare il posto al sole e il prestigio perduto.
Così ci avventurammo in paesi desertici e sperduti come la Somalia e l'Etiopia che avevano una rilevanza strategica pari a zero assoluto, ma siccome gli italiani le cazzate devono farle sempre scientifiche riuscimmo anche a rimediare una gigantesca figura di merda facendoci sconfiggere dall'esercito etiope nella battaglia di Adua, uno dei punti più bassi di sempre con tutto il mondo che rise a crepapelle di noi.
Un'umiliazione tanto cocente che poi ci fu una rivolta popolare contro la classe dirigente fusasi con il disagio sociale che portò al primo governo militare(quello di Pelloux) ed ai tragici fatti di Milano con il generale Bava Beccaris che cannoneggiò i manifestanti in piazza, segnando plasticamente quella contrapposizione tra piazza e palazzo che dura ancora oggi.
La sfiducia del paese era tanto forte che dopo un decennio anche il povero Giolitti che di grilli per la testa non aveva ed al quale del prestigio importava meno di nulla si sentì in dovere di imbarsi nella guerra con la turchia con la conseguente spedizione in libia foriera di tanti disastri.
Dal punto di vista militare la guerra fu il solito fiasco prodotto di mancanza di organizzazione, preparazione e visione strategica dei nostri comandanti militari che sono formibabili fino a che non arrivano su un campo dii battaglia. Vincemmo uno scontro navale e si sbandierò a festa come fosse la vittoria di Nelson a Trafalgar.
Lo sbarco terrestre in libia fu un disastro e il nostro corpo di spedizione composto dalla spropositata cifra di 100.000 soldati(Giolitti aveva dato il doppio degli uomini per evitare figuracce) fu tenuto in scacco per anni dalle truppe turche ed arabe tra le quali si distinsero quelle comandate da Enver Bey.
Giolitti commentò con il solito realismo: "100.000 uomini e 30 generali non riescono a tener testa ad un tenente colonnello".
Naturalmente sulla stampa la campagna militare fu presentata come una marcia Napoleonica tra un D'annunzio esultante ed un Pascoli che salutava "la grande proletaria che finalmente si è mossa". Altra caratteristica che ci portiamo ancora oggi.
Per non dire che poi la pacificazione della libia costò altri 15 anni di campagna militare dove gli italiani brava gente misero in atto un genocidio ancora oggi negato con la solita ipocrisia.
Quella guerra fu anche una sciagura costituzionale dato che Giolitti violò l'articolo 5 dello statuto albertino e quel precedente creò le basi per l'entrata in guerra nel 1915 frutto di un colpo di stato preludio di quello del 1922 quando lo stato liberale cessò di esistere del tutto.


Anche in altri campi si fatica a capire la missione, ad esempio in economia l'italia pagò per i primi 40 anni unitari scelte molto poco razionali e quasi nessuno ricorda, soprattutto in questi tempi, che il primo sviluppo industriale italiano dell'inizio novecento fu possibile solo grazie all'arrivo dei banchieri tedeschi che nel 1894 a Milano fondarono la banca commerciale italiana(che di italiano aveva solo il nome) motore dello sviluppo dell'industria.


Galli della loggia ha invece ragione a dire che con la seconda guerra mondiale finisce l'idea delle nazione, della patria e di tutti quei valori che erano stati fascistizzati durante il ventennio. Fu così innanzitutto perché gran parte del popolo era contrario all'entrata in guerra e dopo l'intervento, realizzato nella vergognosa maniera che sappiamo, visse la guerra come un affare estraneo, quasi una questione privata del regime. Quando poi la pressione aumentò sotto l'incedere
delle sconfitte a raffica, i bombardamenti e le privazioni, fu naturale pensare che la caduta del fascismo fosse legata alla sconfitta militare alla quale di per sé gli italiani non davano grande importanza essendo un popolo sprovvisto di quei valori di onore del quale erano invece imbevuti fin troppo i giapponesi e tedeschi.
Per questo ci arrendemmo alla prima occasione utile, unconditional surrender, mentre i tedeschi e i giapponesi combatterono fino all'ultimo uomo.
Gli italiani fidavano sullo stellone ed alla fine ebbero anche ragione perché se si escludono le perdite territoriali, dolorose, all'Italia andò di lusso con le condizioni post belliche. Di fatti ne uscimmo indenni, anche per il mutato clima geostrategico e per l'abilità di De Gasperi e il conte Sforza.
Poi ci fu il boom, uno dei più rapidi processi di industrializzazione della storia, in venti anni l'italia paese da paese prevalentemente contadino a paese prevalentemente industriale. Secondo Galli questo sarebbe merito della politica, se si intende la politica industriale certamente incise.
Ma il ruolo della politica fu diverso da quello in cui lo si pensa, in quel quindicennio post bellico grazie alle politiche impostate da Einaudi ed i suoi allievi l'Italia visse il periodo più vicino a qualcosa di liberale, pochi si ricordano che la spesa pubblica fu tagliata(nel 1945 l'incidenza della spesa sul pil era al 48%, nel 1962 al 39%), cosa che accoppiata ad una tassazione bassa ed all'accumulo dei capitali provenienti dall'estero permise la liberazione delle energie imprenditoriali che portarono al boom. La stabilità delle finanze pubbliche ed il controllo dell'inflazione nonostante il periodo di forte espansione fecero della Lira
per un periodo la moneta più stabile d'europa. L'Italia era la germania del tempo.
Poi venne il 1963 e il varò del centrosinistra dell'Enel, l'Eni, la lobby delle partecipazioni statali e le politiche di spesa allegra, l'assistenzialismo, le politiche monetarie lasche, l'inflazione a due cifre e tutto quel troiaio che ha trasformato il paese in un bastione del socialismo reale in grado di resistere anche alla caduta del muro. La follia che ha mandato il paese a puttane.

Quindi per rispondere alla domanda direi di no, l'italia non ha più senso anche perché la nazione italiana di fatto non esiste nel senso moderno del termine.
Non c'è dubbio che la nazione italiana sia nata prima delle altre, ma non ha avuto la rigenerazione che invece è stata presente altrove nella nascita della modernità.
I francesi sono discendenti dei galli e dei Franchi, certo, ma la moderna nazione francese è nata alla fine del settecento con la rivolzione che da evento divisivo diventò patrimonio dell'intera nazione quando a Valmy i francesi di tutti gli orientamenti combatterono per respingere gli stranieri fondendo i valori rivoluzionari e patriottici in un solo spirito che ancora oggi è alla base dei valori della République.
Più o meno la stessa cosa si può dire della Gran Bretagna che vive attorno ai valori della Gloriosa Rivoluzione aggiornati via via, agli Usa la cui nazione è nata nella guerra di indipendenza, alla germania nata nel 1870 e poi rifondata nella repubblica federale, l'Olanda che nacque dalla rivoluzione agli spagnoli.

L'italia non ha avuto qualcosa di analogo. Non è stata una rinascita il risorgimento che fu un movimento di vertice al quale le masse furono indifferenti od ostili, sentimenti che hanno portato dentro lo stato unitario e che sono ben presenti ancora oggi dai leghisti ai nostalgici del regno delle due sicilie.
Non lo fu la resistenza che, per motivi diversi dal risorgimento, non diventò un movimento popolare nonostante le sceneggiate del 25 aprile dove sbucarono fuori dal nulla centinaia di migliaia di partigiani che non avevano visto un tedesco nemmeno di sbieco.
Di conseguenza non lo è stata la nascita della repubblica che dalla resistenza è nata.

Il nostro è un paese che ha vissuto di gloria riflessa di antenati troppo grandi e geni immensi, ma ora affidato ad un popolo che non è popolo è destinato ad una agonia e putrefazione. E se vi aspettate che questo andazzo sia spezzato dalla politica dei Lupi e delle Boldrini state propri freschi.
[Modificato da trixam 23/05/2013 20:44]
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23/05/2013 21:14
 
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Si certo che serve a qualcosa..come wc per gli altri paesi!
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24/05/2013 08:55
 
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Troppo fatalisti 'sti ragazzi [SM=g9242]

La storia è senza ombra di dubbio magister vitae, sicchè diventa fondamentale non ignorarla,eppure semplificandola troppo si rischia di svuotarla del contenuto profondo e delegarla a strumentalizzazioni di comodo,il chè è forviante. La storia per essere compresa appieno va vissuta, contestualizzata e assimilata,dall'alto del futuro diventa tanto facile quanto errato leggerla "solo" col senno di poi.

Detto questo,senza nulla togliere a nessuno, sceglierei come appiglio per il prosieguo della discussione la fine della guerra fredda,evento che ha segnato la perdita d'importanza dell'Italia nello scacchiere internazionale e dissoluzione di quella pigra corrente che ,più per inerzia che per capacità, ci ha portato dalla ricostruzione al benessere reale passando per il boom economico.
Da allora il Bel paese, ha perso il tutore yankee ed è totalmente ignara sul cosa voglia far da grande e cerca in europa come altrove qualcuno che si assuma l'onere di guidarla.
In attesa di tempi migliori siamo più occupati a sopravvivere che cercare di vivere.

Riproponendo la domanda iniziale, "a cosa serve l'italia?", vorrei aggiungere " dove vuole andare e a cosa può ambire" questa disgraziata terra.
[Modificato da connormaclaud 24/05/2013 08:58]
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Re:
connormaclaud, 24/05/2013 08:55:

Troppo fatalisti 'sti ragazzi [SM=g9242]

La storia è senza ombra di dubbio magister vitae, sicchè diventa fondamentale non ignorarla,eppure semplificandola troppo si rischia di svuotarla del contenuto profondo e delegarla a strumentalizzazioni di comodo,il chè è forviante. La storia per essere compresa appieno va vissuta, contestualizzata e assimilata,dall'alto del futuro diventa tanto facile quanto errato leggerla "solo" col senno di poi.

Detto questo,senza nulla togliere a nessuno, sceglierei come appiglio per il prosieguo della discussione la fine della guerra fredda,evento che ha segnato la perdita d'importanza dell'Italia nello scacchiere internazionale e dissoluzione di quella pigra corrente che ,più per inerzia che per capacità, ci ha portato dalla ricostruzione al benessere reale passando per il boom economico.
Da allora il Bel paese, ha perso il tutore yankee ed è totalmente ignara sul cosa voglia far da grande e cerca in europa come altrove qualcuno che si assuma l'onere di guidarla.
In attesa di tempi migliori siamo più occupati a sopravvivere che cercare di vivere.

Riproponendo la domanda iniziale, "a cosa serve l'italia?", vorrei aggiungere " dove vuole andare e a cosa può ambire" questa disgraziata terra.




Diciamo che, facendo un paragone calcistico, in questa fase storica siamo tipo un Chievo Verona: cerchiamo di fare un campionato tranquillo per non retrocedere, ma siamo sempre lì vicini al baratro...Per adesso non ambiamo a niente, se non a salvare il salvabile. In tempi migliori si vedrà... Soprattutto quando sarà cambiata l'intera classe dirigente, anche se non sono così fiducioso sulle nuove leve, fnché si continua a guadare a predecessori indegni come punti di riferimento.
Servirebbe una nuova spinta generazionale per tornare ad essere quello che la storia ci ha insegnato.
Invece, continuiamo ad essere un popolo sostanzialmente di "pavidi", da una botta al cerchio e una alla botte...E così non si va da nessuna parte. Servono idee nuove e coraggio! Come ci insegnano i nostri avi più illustri...












"There is nothing conceptually better than rock & roll" (John Lennon)

A poco servono le norme se non cambiano le culture
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I politici italiani sanno quello che fanno. E' gente che non ha mica studiato dalle dispense, sapra' come risollevare l' Italia. Fiducia. La vastita' del loro sapere, ci salvera'. Ottimismo.
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25/05/2013 12:21
 
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Non so quanti di voi condividano l'idea che la geopolitica sia ancora in vita, ma credo che possa essere un utile strumento d'approccio a questo ragionamento.

L'Italia è sempre stata divisa tra un'anima europea ed una mediterranea. In realtà non è riuscita a sceglierne nessuna. Non l'ha fatto perché, per la naturale inclinazione italiana, era più semplice giocare sul presenzialismo e sul sottile ricatto agli USA. La posizione strategica nel Mediterraneo durante la guerra fredda le dava una forza che oggi credo abbia completamente perso. Il mediterraneo è tornato ad essere un lago e non più il mare. L'asse mondiale si è spostato verso altri luoghi. Inoltre la globalizzazione ha reso l'Italia una piccolissima realtà assolutamente irrilevante sul piano globale. In realtà si tratta di un problema che condivide con tutti gli Stati europei. Nessuno da solo, nemmeno la Germania, può essere capace di affrontare le sfide della globalizzazione.
Il ruolo dell'Italia è, quindi, quello che Altiero Spinelli con grande lungimiranza le aveva costruito, ma che i politici degli ultimi decenni hanno distrutto. L'antieuropeismo è una condizione antistorica. C'è bisogno di più Europa. L'Italia dovrebbe giocare un ruolo fondamentale.
Come? Rilanciando la sua peculiare posizione geografica.
Non possiamo inseguire la Germania sul continente, ma dobbiamo essere in grado di rappresentare il punto di riferimento dei Paesi del Mediterraneo.
Lo faremo?
Assolutamente non lo faranno. La Francia è ormai proiettata al controllo del mare nostrum e la Turchia diventerà a breve il ponte tra mondo arabo ed Europa.
Stiamo perdendo la più grande occasione di crescita del nostro Paese. In realtà la prospettiva mediterranea è un'occasione che abbiamo a più riprese perso. In passato, però, non avevamo concorrenti reali e potevamo permetterci il lusso di essere disattenti. Oggi, invece, l'Europa rischia di regionalizzarsi e nel vuoto di importanza le diaspore sono la conseguenza più immediata. In questa prospettiva l'Italia non riesce nemmeno a rivestire un ruolo di prima importanza. Se prima potevamo competere con la Francia, oggi siamo stati superati dalla Spagna che, credo, avrà una capacità di reazione alla crisi forse superiore anche a quella francese.

Come nota a margine dico che questa situazione credo si leghi ad una disposizione d'animo degli italiani (politici ed elettori). Siamo un popolo in declino, perché abbiamo perso l'orgoglio dell'appartenenza. Non siamo orgogliosamente italiani, mentre altri si sentono orgogliosamente europei. Essere europei non vuol dire rinnegare la propria individualità, ma arricchirla.
Gli Usa sono un chiaro esempio di come si possa valorizzare le proprie peculiarità locali, ma essere una forza unita.

All'inizio del 2000 abbiamo giocato un grande bluff economico e politico. Qualcuno c'ha creduto davvero. Gli Usa si sono preoccupati e sui mercati valutari qualcuno ha iniziato a guardare all'Euro in vece del dollaro. Abbiamo perso una grande mano.
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02/06/2013 17:59
 
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Gius come sempre ci sono cose condivisibili ed altre meno. Prendiamo per esempio la questione del mediterraneo.
Dire che prima non avevamo concorrenti è una cosa non vera, nella realtà l'italia tranne brevi momenti non ha avuto reali interessi strategici nel mediterraneo dalla caduta di Roma. Ricordo la battuta di un ministro degli esteri inglese degli anni trenta alle rimostranze di Mussolini: "l'italia non ha interessi nel mediterraneo, crede di averli".
Negli ultimi 4 secoli il mediterraneo è stato dominato a sud dalla Royal Navy con il micidiale dispiegamento strategico che partiva da Gibilterra, continuava a Malta e finiva a Cipro e Suez; a nord dalla marina francese. Basta ricordare qualche episodio, ad esempio quando i Borbone provarono a togliere il monopolio sullo zolfo in sicilia che avevano concesso agli inglesi a'gratis, il primo ministro Peel mandò la flotta nel golfo e minacciò di radere al suolo Napoli, i Borbone si cagarono sotto e batterono in ritirata.
Per non dimenticare quando durante le guerra Napoleoniche gli inglesi occuparono la Sicilia e la trasformarono in una loro base militare, infine ricordiamo anche la seconda guerra mondiale quando la nostra marina pur combattendo con valore subì mazzate devastanti presa in mezzo a questa gabbia inglese, altro che mare nostrum. E nel dopoguerra i nostri interessi nel mediterraneo si sono limitati ai rapporti personali tra i leader della prima repubblica e i dittatori
del nord africa consegnandoci ad una politica filoaraba che ci isolava nel contesto della Nato senza grandi vantaggi.

Dire che il mediterraneo è un'opportunità, significa dire tutto e niente. Le opportunità servono a qualcosa se sono sfruttate, altrimenti restano masturbazioni. L'africa è un'opportunità ed andarci sarebbe un gesto lungimirante perché in quel continente si stanno creando grandi occasioni.
Però queste cose non si improvvisano e per farlo ci vogliono capacità e coraggio. Esempio.
Se l'Italia avesse avuto un governo ambizioso la crisi del Mali poteva essere una grande opportunità da cogliere al balzo affiancando i francesi nella missione militare con un nostro contingente appigliandosi ad esempio al fatto che il mediatore Onu è italiano. Un contingente di 600/800 uomini misto tra parà e bersaglieri, più navi della marina per appoggio tattico, le nostre forze armate avevano il know-how per fare una missione del genere ed ora siederemmo
a pieno titolo al tavolo in un paese che ha grandi opportunità.
Invece quando il governo monti profilò l'idea di mandare un paio di aerei di trasporto, in pratica davamo un passaggio ai francesi che andavano a combattere, si alzò il putiferio in parlamento e tutto fu bloccato ancora prima che i pacifinti uscissero dalle catacombe. La vera politica estera si fa così.
Invece fare i punti di riferimento nel mediterraneo, che significa in italia?
Si organizza un bel congresso a Napoli dove arrivano ministri, diplomatici e funzionari, si fanno tre giorni di dibattiti, gli amministratori locali fanno le introduzioni e rilasciano interviste sul "rilancio della città", gli albergatori sono contenti per il pieno e le escort per i tanti clienti di un certo rango. Dopo quelli se ne vanno e gli affari continuano a farli con gli altri.

L'altro punto che proponi, l'europa e dico in generale la partecipazione ad organizzazioni multilaterali. Per paesi come il nostro è assolutamente fondamentale, è l'unico modo che hai per contare qualcosa. Il problema che si pone è come si fa a contare? Perchè l'idea veicolata in molti ambienti in Italia è che la sola partecipazione sia il mantra in grado di risolvere tutti i problemi, posizione che poi genere l'opposta che è riassumbile "nello
sbattere i pugni sul tavolo e alzare la voce". Entrambi le posizioni sono futili.
Le organizzazioni internazionali sono come le negoziazioni di borsa: devi sia saper comprare che saper vender per funzionare.
Oggi l'Italia in Europa non conta niente pur essendo il terzo contributore netto dell'unione europea, invece una volta contavamo molto di più nonostante la cronica indecisione dei partiti della prima repubblica. Contavamo perché la nostra politica europea si basava su un solido accordo politico con la Germania che era la naturale evoluzione del fatto che i tedeschi erano il nostro principale partner commerciale sul continente.
L'asse italo-tedesco era meno visibile di quello franco-tedesco ma esisteva ed era produttivo di effetti, poi da un certo momento in poi questo rapporto politico ha cominciato a deteriorarsi e siamo arrivati alla situazione attuale dove germania e Italia sono due sordi che parlano tra di loro lingue diverse.
Contemporaneamente le relazioni economiche si sono molto deteriorate con grave danno per tante piccole e medie imprese italiane. Ora non voglio soffermarmi sul perché sia successo o scatenare quei dibattiti surreali italiani sul tema, diciamo che le cose stanno così e che se ne può trarre la lezione che un paese malato non trova automaticamente una cura nel partecipare ad una organizzazione internazionale, né maggior forza, specialmente se poi l'organizzazione è una che dedica 32 summit alla crisi dell'euro senza riuscire a risolvere il problema. Difficile sviluppare orgoglio per un Europa del genere e va detto che il paragone tra Usa e Ue è del tutto inappropriato, un portoghese non avrai mai niente in comune con un Lituano mentre un californiano ed uno di Boston hanno molto in comune nonostante vivano in due posti lontani e distinti ed abbiamo usi diversi. Se l'Europa vuole diventare una federazione deve avviare un processo rifondativo che la rilegittimi, se deve restare così meglio dividerla in due tra una confederazione del nord ed una del sud perché se continua così
ci sarà bisogno di mandare in carri armati in piazza in qualche paese tipo la Spagna che non sta affatto reagendo bene alla crisi.

Ps Rispondendo alla domanda riposta. Il fatalismo non c'entra niente, si tratta di banale realismo. Chi vede i fondamentali economici e sociali del paese sa qual è la situazione. Ripeto quando detto in un altro topic, l'Italia tornerà ad essere povera ed irrilevante come è sempre stata.
L'italia è come una famiglia che ha molti soldi in banca ma non ha pià fonti di reddito e vive di rendita senza avere le coperture per farlo.
Quando il patrimonio della famiglia sarà finito morirà di fame. L'italia ha accumulato molta ricchezza negli scorsi decenni che ovviamente è distribuita in maniera diseguale, ma lo stato provvede a trasferire parte di quella ricchezza alla base tramite il sistema pensionistico e la macchina pubblica elefantiaca mantendendo così la pace sociale. Oggi i segnali di scontento arrivano perché il sistema è in crisi dato gli si stanno prosciugando i pozzi in una crisi
fiscale devastante, ma per vedere il suo crollo ci vorranno ancora alcuni decenni che però non saranno affatto indolori.
Quando arriverete a 65 anni e vi guarderete intorno vedendo tanti vecchi come voi e pochissimi giovani(il rapporto sarà di 3 sessantenni ad 1) capirete che quel singolo ventenne erede di un paese scassato non potrà pagare la pensione e la sanità a 3 vecchi come voi.
Anzi è molto più probabile che vi spari per rubarvi il portafoglio.
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