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Costituzione quattro stagioni: rigidità plasmabile?

Ultimo Aggiornamento: 26/05/2013 23:53
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19/05/2013 19:00
 
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Il mio intervento.
Il problema principale che ci si pone allorché si affronta la valutazione di qualsiasi forma di governo è come siano ripartiti i poteri tra i vari organi dello Stato. Si tratta di sviluppare un’analisi che non rimanga sul piano formale dei dati normativi e, dove vi sono, testuali, in quanto è necessaria un’attenzione particolare sul reale assetto dei poteri così come vengono a strutturarsi non solo sulla base degli elementi propri del diritto più propriamente costituzionale, ma così come si sviluppano in riferimento all’insieme delle leggi lato sensu pubbliche, delle consuetudini, delle prassi e delle situazioni di fatto. Infatti <<la storia di una costituzione politica non può mai essere soltanto storia delle forme giuridiche, ma deve essere ad un tempo storia del potere, quindi della classe di governo e, naturalmente, dei rapporti di questa (e dei singoli suoi esponenti) con i governati)>>1.
Il mio intervento sarà volto, quindi, più all'analisi di quale reale tenuta ha la nostra Costituzione di fronte alla contingenza e al sentire diffuso piuttosto che all'analisi di quale sia l'attuale reale forma di governo e quale, invece, sarebbe da preferire.
Allo stato attuale sembra che tutti sentano l'esigenza di incensare costantemente la bellezza e la perfezione della nostra Costituzione salvo, poi, proporre la necessità di riformarne una parte consistente. Molto consenso paiono avere il superamento del bicameralismo perfetto, la creazione di un Senato espressione delle esigenze regionali, la necessità di superare il parlamentarismo a favore di altre forme di governo e la riduzione del numero dei parlamentari, argomentata tra l'altro con ragioni economiche, come se il numero dei nostri parlamentari fosse da legare al semplice costo e non anche e soprattutto alla forma di governo. Queste impostazioni trasformano la Costituzione in un feticcio da disprezzare o da osannare all'occorrenza, dimenticando che in realtà si tratta del più importante strumento di garanzia della libertà di un popolo.
Siamo in una stagione difficile, ma si tratta di una stagione più lunga dei cinque anni trascorsi dall'inizio della crisi economica che ha semplicemente sollevato l'attenzione su problematiche già presenti nei fatti e nella sensibilità di molti. La caduta dell'ultimo governo Berlusconi e l'esito delle elezioni di febbraio sono solo i detonatori di un lettura costituzionale sempre al limite e a volte, nel mio modesto giudizio, oltre il limite della volontà del Costituente.
Se è vero, come è vero, che la Costituzione è per sua natura costretta ad evolversi e ad adeguarsi ai cambiamenti della realtà, è anche vero che esiste un limite piuttosto netto tra interpretazioni evolutive o adeguatrici ed illegittime forzature necessitate dalla contingenza.
Il nodo centrale è capire quanto della rigidità della Costituzione sia giusto immolare sull'altare dei cambiamenti e delle necessità e quanto invece non possa adeguarsi ad ogni stagione politica, imponendo, quindi, un limite alla contingenza o costringendo il legislatore a farsi carico delle incombenze di riforma.
L'attendismo e l'incapacità di trovare una soluzione, e non sarà mio compito ora individuare quale preferisca, sono delle vere e proprie scelte che mettono in pericolo la coerenza dell'intero sistema. Non volendo recuperare esperienze eccessivamente risalenti – in questi giorni il richiamo al governo Pella è stato un tema ricorrente – mi concentrerò sugli ultimi vent'anni.
In questo quadro è illuminante notare come il passaggio dalla c.d. Prima Repubblica alla c.d. Seconda Repubblica sia avvenuto a Costituzione invariata; piuttosto particolare teorizzare una tale transizione senza modifiche costituzionali. Tuttavia nei fatti la legge elettorale maggioritaria – unitamente al particolare sentimento popolare di disprezzo verso i partiti coinvolti nello scandalo di Tangentopoli - ha avuto una capacità di trasformazione dell'intero assetto dei poteri tale da mettere in angolo il dettato costituzionale e dando l'avvio, quindi, ad una nuova stagione.
L'anniversario della morte del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro è un'utile occasione per ricordare le aspre critiche ricevute per non aver ceduto al “sostanzialismo elettoralistico che molti ritenevano innescato dalla legge elettorale maggioritaria”2. Il Presidente Scalfaro sostenne con forza l'idea che la legge elettorale non potesse trasformare l'impostazione costituzionale di un rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo a favore di un'investitura popolare del governo e del suo leader.
A prescindere dal giudizio sul merito e sull'opportunità di tali scelte, mi pare abbastanza in controtendenza la possibilità, però, concessa di inserire il nome del leader della coalizione all'interno del simbolo del partito in modo da dargli una legittimazione popolare tale da rendere il Presidente della Repubblica un semplice notaio delle scelte popolari, svuotando di significato le consultazioni e rendendo, di fatto, ancora più problematica la possibilità di individuare un nuovo governo in caso di eventuali c.d. Ribaltoni, termine che uso privo dell'accezione negativa attribuitagli. Ad oggi è un fatto che alcune forze politiche ritengano che il consenso popolare sia legittimazione piena ed esclusiva dell'azione di governo3, dimenticando, tra l'altro, come si conclude l'art. 1 della Costituzione. Inoltre è bene ricordare sia che nessun meccanismo elettorale può garantire la razionalità della scelta4 sia che non può essere sottovalutato il ruolo del controllo della cultura nell'ampliamento del consenso.
L'ultimo anno e l'attuale governo, ancor di più, legittimano l'idea che si sia aperta un'altra nuova stagione. Pur rifiutando l'idea che si possa parlare di una Terza Repubblica, come da alcune parti pur si è detto, e pur non volendo condividere al pari della gran parte dei costituzionalisti, come mi sembra di capire, che siamo di fronte ad una sorta di semipresidenzialismo, ritengo che, però, sia condivisibile l'espressione del prof. Prisco di governo parlamentare a direzione presidenziale5.
A tal proposito le parole del Presidente Napolitano possono, a mio modesto parere, apparire come una sorta di excusatio non petita allorché abbia sentito l'esigenza di ribadire che il governo Letta fosse pienamente parlamentare.
Siamo di fronte, quindi, ad uno scenario che in 20 anni ci ha regalato, a mio umile parere, forme di governo piuttosto divergenti, ma tutte considerate ugualmente compatibili con la Costituzione o comunque da accettare con pragmatismo.
L'attuale crisi economica ha legittimato, poi, pratiche che fino a poco tempo fa non avremmo considerato legittime o quanto meno scarsamente opportune. La stessa rielezione di Napolitano, pienamente compatibile con il dettato costituzionale, pena l'illogicità stessa del semestre bianco, è sicuramente un'occasione per ricordare l'opposizione che poco più di sette anni fa presentò il Presidente Ciampi ad un'eventuale sua riconferma, anche allora trasversalmente invocata. Non è in discussione, quindi, la legittimità costituzionale, ma l'opportunità e il rispetto sostanziale dello spirito della Costituzione. Analogo discorso si potrebbe fare in riferimento all'inedita Commissione di saggi che il Presidente Napolitano ha individuato come valvola di sfogo allo stallo della situazione politica immediatamente successiva alle elezioni.
Se in questi casi pare che la Costituzione si presti a questi adattamenti dettati dalla contingenza e dalla particolarità della situazione internazionale, potenzialmente al di fuori delle possibilità costituzionali appare, a mio modesto avviso, l'insieme della legislazione elettorale unita all'opacità del sistema dei partiti e all'uso, sempre maggiore, delle questioni di fiducia.
Infatti l'attuale legge elettorale a liste bloccate è da più parti giustamente criticata, perché rimette ai partiti, più precisamente alla direzione dei partiti, la scelta dei componenti delle liste elettorali. Gli stessi membri della direzione dei partiti, poi, andranno a costituire, in caso di vittoria, la compagine governativa che, quindi, si confronterà con un Parlamento scelto preventivamente sulla base di criteri che allo stato attuale fanno pensare più alla fedeltà che al merito. Di conseguenza l'assenza di regole chiare sulla democrazia interna dei partiti mal si concilia con l'attuale sistema elettorale, perché fa saltare l'alterità tra Governo e Parlamento e crea le condizioni per un sostanziale ricatto del Governo verso i parlamentari che si obbligano alla fedeltà onde evitare epurazioni per le successive tornate elettorali. Sulla base di questo ricatto l'uso sempre maggiore della questione di fiducia diventa un vero e proprio aggiramento del dettato costituzionale, creando il paradosso di una Costituzione che delinea un assetto parlamentare a fronte di una situazione di fatto che conferisce al Parlamento una funzione meramente notarile.
Nell'esperienza del governo Monti, per esempio, è stato rimarcato ancor di più il superamento nei fatti del bicameralismo a causa del costante ricorso a decreti legge e legislativi. La questione di fiducia unita allo scarso tempo concesso alla seconda Camera per analizzare le proposte di legge ha avuto come immediata conseguenza l'assenza di modifiche anche a leggi di grandissima complessità ed importanza. La necessità ha, quindi, eliminato le procedure, spostando non solo il ruolo propositivo, ma anche quello decisorio dal Parlamento al Governo, rendendo, quindi, il primo un mero notaio di decisioni prese altrove.
Il vero problema ruota, quindi, intorno al principio di affidamento con cui si stabilisce che si debbano affidare un certo numero di decisioni all'iniziativa ed al criterio di persone singole o di assemblee depositarie della fiducia della maggioranza e, quindi, rappresentative della volontà collettiva.
E' necessario chiedersi fino a che punto possa essere spinto in là l'affidamento dei poteri prima che la democrazia perda le sue caratteristiche, in particolare quella di autogoverno del popolo. In pratica è necessario aver presente che è ben possibile che si affermi un forma di democrazia che può essere definita autoritaria in tutti quei casi in cui vengono fatte concessioni troppo ampie al principio dell'affidamento.
In quest'analisi manca una quarta stagione che per un attimo si è presentata all'orizzonte e cioè l'idea di un modello assembleare in cui il Governo fosse rimasto in carica solo per gli affari correnti, lasciando al Parlamento il compito di prendere tutte le decisioni. Posto che condivido l'opinione della maggioranza dei costituzionalisti che sostengono che si trattasse di una strada non compatibile con la Costituzione, sono, però, convinto che laddove la contingenza l'avesse resa necessaria saremmo stati costretti ad accettarla come con un'altra ed ulteriore stagione della nostra Costituzione.
La democrazia e la libertà non esistono in quanto sanciti nella Costituzione, perché di fatto le Costituzioni non esistono se non sono l'espressione del comune e profondo sentire dei popoli che le adottano. Potremmo in qualsiasi momento scrivere una Costituzione stupenda, ancora più bella della nostra, ma dovremmo poi verificarne la tenuta nel momento del concreto dispiegarsi della vita politica e dell'insieme incalcolabile delle scelte imposte dalla realtà. A tal proposito è sempre un utile insegnamento la storia della Repubblica partenopea del 1799. La lucida analisi di Vincenzo Cuoco deve essere un importante punto di riferimento allorché ci ricorda il rapporto tra verità e potere.
Non è, dunque, la Costituzione in sé con la sua bellezza o con la sua più o meno ampia elencazione di diritti l'argine al potere, ma è il rispetto dell'assetto dei poteri stesso ad essere il vero argine delle scelte politiche. Solo non violando l'equilibrio, i checks and balances, possiamo immaginare un sistema realmente in grado di tutelare i diritti fondamentali, perché come ci insegna Popper l'obiettivo non è trovare il sistema di governo che ci garantisca degli ottimi governanti, ma il sistema che impedisca a dei pessimi governanti di fare troppi danni. Infatti esiste il pericolo di una deriva autoritaria celata dietro ogni esperienza di governo democratico e non dobbiamo, quindi, mai essere troppo convinti che una Costituzione bellissima sia sufficiente a salvarci.
In conclusione, quindi, non mi sembra che un sistema di governo sia migliore di un altro per pregi o difetti suoi propri, in quanto ogni popolo, ogni territorio ed ogni tempo ha bisogno delle sue forme naturali. L'unico elemento indispensabile è evitare che nell'elaborazione di qualsiasi sistema ci sia una sorta di schizofrenia tra i suoi componenti che, poi, si vada a tramutare, all'occorrenza o di fronte a situazioni eccezionali o particolari, in un sistema privo di contrappesi dove si disconosca la separazione dei poteri e dove alcuni poteri si sentano investiti di un ruolo salvifico incompatibile con la loro natura, ma ritenuto necessario da più o meno ampi gruppi di elettori.
Anche perché la democrazia porta con sé il germe della sua fine, in quanto è ben possibile che <<se viene meno la democrazia come esigenza dello spirito pubblico, essa, in quanto regime politico, si può perfino suicidare democraticamente>>.
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