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I 50 eroi di Fukushima...

Ultimo Aggiornamento: 16/03/2011 13:45
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FUKUSHIMA - Cinquanta uomini per vincere contro il «mostro» atomico. Cento mani e cento occhi per tenerlo a bada mentre il mondo lo guarda e trattiene il fiato. Sono i lavoratori della Compagnia elettrica di Tokyo, la Tepco, e sono gli unici rimasti nella centrale nucleare di Fukushima. Tocca a loro fare quello che fino a ieri mattina hanno fatto in ottocento e cioè raffreddare il più possibile le barre di combustibile nucleare dei reattori ed evitare altri scoppi o, peggio, la fusione del nucleo.



(Polaris) Sfiniti da turni massacranti di cui non si vede la fine, terrorizzati dall'incubo della contaminazione, camminano sull'orlo di un baratro ogni santo giorno da venerdì scorso, bardati nelle loro tute, con le facce nascoste dalle maschere. Si dice che abbiano alzato la mano per offrirsi volontari quando ieri mattina, dopo l'esplosione devastante al reattore numero 2, si è trattato di stabilire chi doveva rimanere e chi no. Cinquanta piccoli Ulisse davanti a un Polifemo che sbuffa senza sosta, da tre giorni, vapore e fumo radioattivo. La catastrofe che il mondo intero teme, loro la guardano da un passo, la captano dai rumori sinistri che arrivano dai sei reattori dell'impianto. L'hanno immaginata, ieri mattina, quando l'acqua dai riflessi blu ha cominciato a ribollire nella piscina atomica del reattore numero 2. Se l'ebollizione dovesse far evaporare tutto il liquido, le barre di combustibile nucleare sarebbero esposte all'atmosfera e sarebbe molto alto il rischio di una nuvola carica di radiazioni. La parola d'ordine è stata raffreddare, raffreddare, raffreddare. E per il momento hanno vinto loro, i nostri cinquanta eroi. L'acqua non bolle più, le barre per ora non sono scoperte. Ma si sta ipotizzando di far arrivare già all'alba l'acqua anche con gli elicotteri e di sganciarla dall'alto, in particolare sul quarto reattore della centrale nucleare di Fukushima, dove l'ultima esplosione di ieri ha provocato una crepa nell'edificio-contenitore e dove due dipendenti potrebbero essere dispersi. La stanchezza avanza, si fa spazio in mezzo ai guai, uno più preoccupante dell'altro. Per esempio quel benedetto reattore numero 4 che sembrava starsene tranquillo fino a ieri: all'improvviso lo hanno visto andare a fuoco e loro, i cinquanta tecnici antimostro, si sono trovati stretti fra le fiamme - che hanno liberato una quantità sconosciuta di radiazioni direttamente nell'atmosfera - e l'esposizione alla radioattività salita ben oltre i limiti consentiti nel giro di pochi minuti. Nella sala di controllo il livello delle radiazioni è diventato altissimo e per evitarle il più possibile hanno organizzato squadre di copertura a tempo: pochi minuti a testa finché il cinquantesimo non ha finito il suo turno, poi si ricomincia. Per dividere in parti uguali gli agguati di quel nemico invisibile. Alle 23 ora italiana c'era un nuovo incendio da domare ma, in nottata, l'agenzia di sicurezza nucleare giapponese ha dichiarato che «le fiamme sembrano essersi spente da sole». Il sonno arriva quando si può, per gli irriducibili della centrale di Fukushima I. Nello spazio immenso dell'impianto, cinquanta uomini sono puntini che si confondono con il grigio scuro delle fotografie scattate dagli elicotteri, sono sagome minuscole perdute sotto i pennacchi di fumo dei reattori scoppiati o incendiati. Il panorama è spettrale, l'umore è quel che si può. «Che ne sarà di loro?» si chiedono i 750 compagni di lavoro evacuati ieri mattina. E che succederà al Fukushima I?

La verità è che più passa il tempo più la situazione sembra fuori controllo. L'impianto atomico è un produttore continuo di angoscia e non c'è falla che si tamponi senza che se ne aprano altre due-tre.
Prendi la giornata di ieri. I reattori numero 1 e 3 «sono spenti e con il raffreddamento degli elementi di combustibile in funzione» è la buona notizia del primo mattino. Ma ce n'è una valanga di cattive. L'esplosione al reattore numero 2, l'incendio al numero 4, i reattori 5 e 6 in condizioni di non sicurezza, radiazioni in crescita in una vasta zona attorno alla centrale. E ancora: la fascia di evacuazione estesa da 20 a 30 chilometri di raggio e, non ultimo, c'è il rischio che prenda fuoco il carburante nucleare esausto e che quindi si crei una gigantesca nube radioattiva.
«Perfino il cielo non ci aiuta», è il commento amaro del soldato Minoru ai microfoni di una tivù locale prima di saltare su un mezzo militare che dall'aeroporto di Sukagawa lo porterà ai confini della zona proibita di Fukushima. Parla delle previsioni del tempo, Minoru. Piove o nevica lungo tutta la fascia dove invece sarebbe benvenuto il sole, sia per le operazioni dei soccorritori sia per evitare che gli elementi radioattivi ricadano al suolo. «Al diavolo la pioggia, ce la faremo anche questa volta» promette lui. «Il popolo giapponese ce l'ha sempre fatta». Sembra più scoraggiato del suo soldato il premier Naoto Kan. Ieri ha detto che «il pericolo di ulteriori perdite radioattive è in aumento», ma ha chiesto alla popolazione di mantenere la calma. Cosa difficile anche per i serafici giapponesi dopo che Yukio Edano, il suo portavoce che «contrariamente a quello che è successo finora, non vi è dubbio che i livelli attuali possano incidere sulla salute umana». Una signora dal nome impronunciabile che guarda l'appello di Edano sul computerino di suo figlio mentre è in fila per prendere un autobus a Fukushima City, dice che «se sono arrivati a dare il consiglio di non stendere i panni all'esterno è chiaro che la situazione è grave...». Sì, ma quanto grave? È un alternarsi continuo di rassicurazioni seguite da allarmi. Il panico, mai ostentato nemmeno dalla gente che vive nelle vicinanze della centrale atomica, si misura soltanto con gli scaffali semivuoti nei supermarket di tutta l'area est della prefettura di Fukushima e con le code per fare scorte alimentari in vista di giorni da passare chiusi in casa. Lungo la strada statale principale che passa alle spalle della centrale, il serpentone di auto dirette a sud cresce di ora in ora, tutti in fila per l'aeroporto di Sukagawa oppure per scendere fino a Tokyo, Osaka, Kyoto, purché lontano da qui. E come se tutto questo non bastasse c'è da fare i conti ogni giorno con scosse di assestamento che in alcuni casi sono davvero spaventose. Lo era quella di ieri sera alle 22.30 (in Italia le 14.30) che l'Agenzia meteorologica giapponese ha misurato come 6.4 della scala Richter, epicentro a dieci chilometri di profondità nell'Oceano Pacifico, davanti alla costa della prefettura di Shizuoka (a sud di Tokyo). A Fukushima, dove si è sentita nettamente benché ci siano 300 chilometri di distanza, è stato un nuovo sussulto di ansia: le strutture non possono permettersi altre spallate. È già fin troppo difficile così per i cinquanta Ulisse isolati dal mondo. Avranno certo saputo, ieri pomeriggio, che il livello di gravità della crisi atomica è stato aggiornato da 5 a 6 su una scala che arriva fino a 7 e che ha soltanto due precedenti gravi: l'incidente di Chernobyl (livello 7) e quello di Three Mile Island (livello 5). Quindi Fukushima è il secondo caso più grave della storia nucleare, un record terrificante, che dà i brividi. Da «fuori», dove finisce il confine fra la Fukushima pericolosa e quella no, arriva alla fine di una giornata quantomai drammatica, la parola che nessuno dei cinquanta vorrebbe mai sentire, «apocalisse». La usa il commissario Ue per l'Energia, Guenther Oettinger, parlando a Bruxelles della crisi nucleare in Giappone. Quella parola passa veloce, come pioggia sull'impermeabile.

C'è da pompare acqua dal mare per raffreddare le barre di combustibile, Oettinger merita solo un pensiero di passaggio fra la fatica e la paura. Non è ancora tempo di resa per cento mani e cento occhi al lavoro. L'«apocalisse», qui a Fukushima, è ancora una parola vietata.

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