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Ecco parentopoli dei prof ,le grandi dinastie degli atenei.

Ultimo Aggiornamento: 26/09/2010 19:18
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24/09/2010 20:24
 
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Sorprendenti risultati di una ricerca sull'omonimia: in alcune università è 10 volte superiore alla media. Per arginare il fenomeno sono stati bloccati dei concorsi e i ricercatori protestano: a pagare sono i figli di nessuno. Dove ci sono maggiori intrecci la qualità della produzione è inferiore agli standard
di DAVIDE CARLUCCI e GIULIANO FOSCHINI


IL 13 SETTEMBRE a Palermo, un ragazzo, un cervello italiano, è volato dall'ultimo piano della facoltà di Filosofia. Si è suicidato. Aveva 27 anni, si chiamava Norman Zarcone, era un dottorando in Filosofia del linguaggio e, racconta il padre, da qualche tempo era particolarmente deluso, depresso: gli avevano fatto capire, senza mezzi termini, che per lui non c'era spazio nell'università italiana. Qualche mese prima un altro ragazzo, cinque anni più giovane, Gianmarco Daniele, aveva presentato a Bari, capitale del nepotismo accademico italiano, una tesi di laurea: "L'università pubblica italiana: qualità e omonimia tra i docenti", una ricerca nata per raccontare come le università italiane siano in mano a un gruppo di famiglie. E per documentare come esista un nesso scientifico tra nepotismo e il basso livello della didattica e della ricerca. Daniele ora è all'estero, con una borsa di studio europea. Ma davvero nell'università italiana non c'è spazio per questi talenti, solo per i parenti? Quali sono le grandi dinastie di casa nostra? E a due anni dalla "svolta anti-baroni" annunciata dal ministro Maria Stella Gelmini - che ora torna a invocarla per giustificare nuovi tagli - i baronati stanno davvero segnando il passo? O sono ancora loro a comandare?

LA TOP TEN
A Bari, nella facoltà di Economia, la stessa dove si è laureato Daniele, è cambiato poco. L'economista Roberto Perotti, italiano formatosi al Mit di Boston, in un saggio del 2008 "L'università truccata" (Einaudi) aveva indicato quello come il caso limite, "tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo". A Economia 42 docenti su 176 hanno tra loro legami di parentele, il 25 per cento, record assoluto in Italia. I leader indiscussi a Bari e in Italia nella classifica delle famiglie restano così i Massari. Commercialisti affermati, con un passato nel Partito socialista di Craxi, in cattedra hanno almeno otto esponenti, tutti economisti. Uno di loro doveva essere anche in commissione durante la laurea di Daniele, peccato che quel giorno avesse un impegno. "Abbiamo vinto tutti concorsi regolarissimi", rispondono loro, quando vengono tirati in ballo. I capostipiti della dinastia sono i tre fratelli, Lanfranco, Gilberto e Giansiro, che hanno in mano il dipartimento di Studi aziendali e giusprivatistici e, seppur nell'ombra, l'intera facoltà. Le nuove leve sono invece Antonella (ordinaria a Lecce), Stefania, Fabrizio (tutti e tre figli di Lanfranco), Francesco Saverio e Manuela. A fare concorrenza ai Massari, in facoltà, c'è la famiglia Dell'Atti (6) e quella dell'ex rettore Girone, con cinque parenti in cattedra: ci sono Giovanni e la moglie Giulia Sallustio, ormai in pensione, il figlio Gianluca, la figlia Raffaella e il genero Francesco Campobasso. A Foggia conta ancora molto la dinastia dell'ex rettore, Antonio Muscio, secondo con 7 parenti nella top ten nazionale con la new entry Alessandro, assunto nell'ultimo giorno di rettorato del papà e nella sua stessa facoltà, Agraria. Nell'ateneo lavoravano anche mamma Aurelia Eroli (dirigente amministrativa, ora in pensione), la figlia Rossana, la nipote Eliana Eroli, il genero Ivan Cincione e la sorella Pamela.

A Roma le grandi casate sono due: i Dolci e i Frati. Un figlio di Giovanni Dolci, uomo chiave dell'odontoiatria italiana, è Alessandro, ricercatore a Tor Vergata. La moglie, Alessandra Marino, è ricercatrice alla Sapienza. Dove lavora anche il genero di Dolci, Davide Sarzi Amedè, marito di Chiara, a sua volta odontoiatra al Bambin Gesù. Un altro figlio di Dolci, Federico, lavora a Tor Vergata, mentre Marco è ordinario a Chieti. Accanto a papà Frati invece c'è sua moglie Luciana Angeletti e sua figlia Paola (insegnano a medicina, ma non sono medici) e il figliolo Giacomo.

Sempre molto forti le famiglie a Palermo, come aveva avuto modo di accorgersi Norman Zarcone. Il record è dei Gianguzza, cinque tra Scienze e Medicina. Ma le dinastie palermitane sono cento, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti "imparentati". Economia è il regno dei Fazio (Vincenzo, Gioacchino, Giorgio), a Giurisprudenza ci sono i Galasso (Alfredo, il figlio Gianfranco, la nuora Giuseppina Palmieri), a Lettere i Carapezza (i fratelli Attilio e Marco, ora associato, il cugino Paolo Emilio, suo figlio Francesco), a Ingegneria (18 famiglie, 38 parenti) i Sorbello o gli Inzerillo, a Matematica i Vetro (Pasquale, la moglie Cristina, il figlio Calogero), Agraria è nelle mani di 11 nuclei familiari. Coincidenze statistiche? Davvero è così nel resto d'Italia e in tutta Europa?

LA RICERCA
Secondo i dati raccolti nella tesi di Daniele, no. Lo studente ha infatti sviluppato un indice medio che misura la percentuale di omonimia in ogni facoltà di ogni ateneo e la percentuale media di omonimia in campioni della popolazione italiana in numero uguale ai docenti presenti nella facoltà osservata. Il risultato è incontrovertibile: in quasi tutti gli atenei l'indice di omonimia è più elevato rispetto alla media nazionale. Dieci volte di più a Catania, poco meno a Messina.

Molto superiori alla media sono anche la Federico II di Napoli, Palermo, Bari, Caserta, Sassari e Cagliari. Le più virtuose sono invece Trento, Padova, il Politecnico di Torino, Verona, Milano Bicocca. Certo: non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti. Ma considerando anche che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, il dato è un'attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Anche perché gli atenei segnati con la penna rossa da Daniele sono proprio quelli al centro delle inchieste giornalistiche e della magistratura.

"Il dato italiano - spiega Daniele - è in controtendenza con il resto d'Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali". Lo studio confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E in media gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno e viceversa. Ma davanti a questi numeri, la politica e il mondo accademico come si comportano? Sono nemici o complici delle grandi famiglie che hanno in mano l'università italiana?

LA RESISTENZA
"Ci prendono in giro", ha tuonato il presidente della conferenza dei Rettori, Enrico Decleva, la cui moglie Fernanda Caizzi è stata condannata in appello, e poi prescritta, per aver pilotato un concorso a Siena nel 2001. "Il qualunquismo sulle parentopoli è una giustificazione per uccidere l'università pubblica". La legge Gelmini approvata al Senato a luglio prevede un codice etico obbligatorio per tutti. Ma a Bari (il primo ateneo ad approvarlo, quattro anni fa) gli escamotage fanno scuola. Virginia Milone è stata assunta quando il padre si è impegnato a trasferirsi nella sede decentrata di Taranto.

"Capirai: la nostra facoltà è diventata la valvola di sfogo dei parenti", dice il rappresentante degli studenti Francesco D'Eri. La docente Maria Luisa Fiorella, otorino come il padre, era stata respinta dalla facoltà (a scrutinio segreto). Ora, con un colpo di coda, i baroni vogliono tornare a votare: con l'alzata di mano. Il codice è servito solo a Farmacia: Giulia Camerino ha rinunciato al concorso da ricercatrice bandito nel dipartimento della madre. "Ho studiato tutta una vita, non volevo vivere con un bollino che non meritavo".

"Se parliamo di baronati è tutto come prima - dice Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc della Cgil - E se le università non bandiscono concorsi, a pagare sono solo i ricercatori figli di nessuno". Il ministro Gelmini promette di trasformarne, con il nuovo piano di programmazione, diecimila in associato. Vuol cambiare la progressione di carriera con un contratto triennale, una successiva valutazione, e quindi un ulteriore contratto triennale per diventare associato. Ma per ora quelli che salgono di grado hanno sempre cognomi pesanti: a Cagliari è appena stato promosso ordinario Francesco Seatzu, figlio d'arte sardo. A valutarlo, in commissione, c'era Isabella Castangia, con la quale Seatzu ha lavorato gomito a gomito negli ultimi anni. "Tutto è come prima, più di prima", attacca Tommaso Gastaldi, professore di Statistica alla Sapienza, instancabile fustigatore del malcostume universitario. L'ultimo esempio, racconta, è la nomina di due docenti: lui aveva previsto i loro nomi già nel 2008. I soliti noti, nonostante i proclami del Governo, continuano a comandare. E non vogliono lasciare il campo ai giovani. Che si ribellano: l'Air, l'associazione italiana dei ricercatori, ha indetto una petizione per bloccare "l'eccessiva "discrezionalità" nei criteri di valutazione dei concorsi universitari".

GLI OVER 70
Molti docenti con più di 70 anni ricorrono ai tribunali amministrativi per posticipare il loro pensionamento, accelerato da una norma voluta dall'ex ministro Fabio Mussi. Vuole rimanere in servizio Emilio Trabucchi, ordinario di Chirurgia e presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Nipote dell'omonimo luminare della Biomedicina e deputato Dc morto nel 1984, Trabucchi ha due nipoti nell'università, Emilio Clementi, straordinario nel dipartimento di Scienze precliniche "Lita Vialba", e Francesco Clementi, ordinario di Farmacologia. "Abbiamo specializzazioni diverse. E in tutti i casi parlano le pubblicazioni", precisa Trabucchi. Ha scelto di ritirarsi, invece, Vittorio La Grutta, nobiltà accademica palermitana: medico il nonno, professore il padre, rettore il fratello (dell'ultima leva è rimasta la figlia, Sabina, psicologa).

"Quando siamo saliti in cattedra, eravamo orfani. Ma ce l'abbiamo fatta lo stesso, senza favori". Diverso il destino dei Cannizzaro, altra famiglia storica siciliana. "Stanislao, il grande chimico, era un mio avo - racconta Gaspare, che ora è in pensione ma ha due figli docenti - ma io non sono figlio d'arte. In famiglia c'è sempre stato interesse per la scienza: è una tradizione". A Sassari resistono al pensionamento Mariotto Segni (il cui padre, Giovanni, oltre che presidente della Repubblica è stato rettore) e Giulio Cesare Canalis, il papà della showgirl Elisabetta, direttore della Clinica radiologica. Ma soprattutto l'ex rettore Alessandro Maida, tuttora potentissimo - spinge per bandire 52 concorsi - e ancora per un po' collega dei figli Carmelo e Ivana, piazzati nella sua facoltà, Medicina, del cognato, Giorgio Spanu, della moglie Maria Alessandra Sotgiu, e di altri nipoti e cugini. A Udine, dopo la fusione tra ospedale e università, sono stati nominati i nuovi direttori di dipartimenti. Nessuna sorpresa: i manager, ben pagati, sono tutti baroni di lungo corso come l'ultrasettantenne Fabrizio Bresadola, che ha piazzato il figlio Vittorio, la nuora Maria Grazia Marcellino e un altro figlio, Marco. Laureato in Filosofia ma non per questo escluso: insegna storia della Medicina.

(24 settembre 2010)

fonte: repubblica.it
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25/09/2010 23:36
 
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A giurisprudenza c'è un'intera cattedra di filosofia gestita da un'unica famiglia...e non è l'unico caso..



For you I was a flame....love, is a losing game....


Quando stai per mollare, fermati un attimo a pensare al motivo per il quale hai resistito fino ad ora ... Pensa alla meta, non a quanto sia lungo il tragitto. Rimboccati le maniche e non aver paura della fatica. Guardati allo specchio e riconosci quel sognatore che ti sta di fronte. Lotta e combatti. E quando ciò che desideri sarà tuo, una mano al cuore e sentirai in ogni singolo battito l'eco di ognuno dei passi che hai compiuto. E se avrai qualche cicatrice non preoccuparti, non c'e vittoria senza una ferita di guerra, non c'è arcobaleno senza la pioggia.
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26/09/2010 15:17
 
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infatti non c'era da meravigliarsi
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26/09/2010 15:30
 
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Di inchieste che ribadiscono cose scontate ce ne sono tantissime, ma di proposte vere non ne arriva nessuna. Nemmeno i ricercatori stanno mostrando di avere chiaro il sistema più opportuno per superare lo scandaloso meccanismo del demerito e del disimpegno professorale.
Mi sembra che le proteste siano orientate a conservare lo status quo. La critica alla riforma Gelmini la condivido in pieno, sebbene per motivi diversi, ma l'evidenza è che se non ci fosse stata, i ricercatori avrebbero continuato ad accettare il sistema in vigore da anni. Purtroppo il vero problema italiano è che si rifiuta qualsiasi cambiamento. Questo è un popolo altamente conservatore. Si aborrisce il cambiamento e non si propone mai una riforma. L'impressione di un osservatore esterno è che in Italia viga il sistema migliore e che ogni tanto qualcuno provi a modificarlo suscitando le proteste dei giusti.
Sarebbe stato interessante se l'opposizione o i ricercatori si fossero riuniti per proporre una controriforma. Il motivo per cui certi sistemi continueranno a resistere è che mancano le proposte alternative.
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26/09/2010 16:39
 
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L'unico modo di evitare le parentopoli sarebbe introdurre un sistema meritocratico di tipo inglese, 50% dei fondi per l'università a tutti in maniera uguale e l'altro 50 assegnarlo in base alla produzione scientifica. Qui però si pone la grande questione metafisica: come garantire che quest'ultimo 50 sia assegnato realmente per merito?
Tutti i sistemi studiati negli altri paesi per valutare il merito in italia sembrano inefficaci, aggirati dalle micidiali astuzie della mafie baronali e dei suoi accoliti. Chiunque ha una minima esperienza dei dipartimenti italiani sa che il "ricercatore medio" ha un kit di sopravvivenza al merito. Quello che mi ha colpito di più è il sistema delle pubblicazioni farlocche che alimenta un mercato ricchissimo che è impossibile da imbrigliare. Tempo fa incontrai una venditrice di pubblicazioni la quale mi spiegò tutto il sistema adatto a tutte le tasche nel caso mi fossi messo in mente di fare concorsi universitari in italia. Praticamente con una modica spesa di 1000 euro potevo avere tre pubblicazioni di un certo rilievo, naturalmente senza scrivere una sola parola. Con 1500 euro potevo averne cinque, di cui tre di top class. Su su, arrivando a 5000 euro potevo addirittura essere associato alla pubblicazione di qualche luminare.
Alla mia obiezione che io ho quattro pubblicazioni reali, fatte di olio di gomito, su riviste che non ho pagato lei mi ha risposto irritata: "e chi te l'ha fatto fare"?
No questo sistema non si può sconfiggere e sta bene a tutti.
L'unica soluzione sarebbe la bomba atomica, svoltare verso un sistema di università privata con borse di studio finanziate dallo stato per i non abbienti meritevoli. Ma anche qui avremmo due problemi.
Non ci sarebbe il consenso, che è fondamentale. E poi noi italiani siamo talmente bravi, che troveremmo il modo di corrompere anche questo sistema.
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26/09/2010 17:32
 
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Re:
trixam, 26/09/2010 16.39:

L'unico modo di evitare le parentopoli sarebbe introdurre un sistema meritocratico di tipo inglese, 50% dei fondi per l'università a tutti in maniera uguale e l'altro 50 assegnarlo in base alla produzione scientifica. Qui però si pone la grande questione metafisica: come garantire che quest'ultimo 50 sia assegnato realmente per merito?
Tutti i sistemi studiati negli altri paesi per valutare il merito in italia sembrano inefficaci, aggirati dalle micidiali astuzie della mafie baronali e dei suoi accoliti. Chiunque ha una minima esperienza dei dipartimenti italiani sa che il "ricercatore medio" ha un kit di sopravvivenza al merito. Quello che mi ha colpito di più è il sistema delle pubblicazioni farlocche che alimenta un mercato ricchissimo che è impossibile da imbrigliare. Tempo fa incontrai una venditrice di pubblicazioni la quale mi spiegò tutto il sistema adatto a tutte le tasche nel caso mi fossi messo in mente di fare concorsi universitari in italia. Praticamente con una modica spesa di 1000 euro potevo avere tre pubblicazioni di un certo rilievo, naturalmente senza scrivere una sola parola. Con 1500 euro potevo averne cinque, di cui tre di top class. Su su, arrivando a 5000 euro potevo addirittura essere associato alla pubblicazione di qualche luminare.
Alla mia obiezione che io ho quattro pubblicazioni reali, fatte di olio di gomito, su riviste che non ho pagato lei mi ha risposto irritata: "e chi te l'ha fatto fare"?
No questo sistema non si può sconfiggere e sta bene a tutti.
L'unica soluzione sarebbe la bomba atomica, svoltare verso un sistema di università privata con borse di studio finanziate dallo stato per i non abbienti meritevoli. Ma anche qui avremmo due problemi.
Non ci sarebbe il consenso, che è fondamentale. E poi noi italiani siamo talmente bravi, che troveremmo il modo di corrompere anche questo sistema.




Non sapevo delle pubblicazioni farlocche. Ad ogni modo credo che, da sole, servano davvero a poco.
Anche dopo aver pubblicato quattrocento articoli, 10 saggi e otto commentari la carriera universitaria ti viene preclusa se non hai un appoggio accademico potente, in grado di incidere sul giudizio della commissione.

Se i commissari fossero tenuti ad ancorare le loro valutazioni al numero e all'importanza delle pubblicazioni sarebbe già tanto...

Siamo tutti abituati a verbali assurdi che, a fronte di un candidato kamikaze (tu sai cos'è...) con 30 pubblicazioni, ne premiano un altro con 2 pubblicazioni, di cui una sul sito internet di quel tal professore...

Con il sistema attuale, anche un former editor in chief della Harvard Law Review potrebbe essere segato in quanto "le esperienze pregresse del candidato, benchè apprezzabili, non non risultano compatibili con l'humus culturale del centro Italia"...

Battute a parte, la discrezionalità affidata ai commissari consente loro di premiare liberamente i propri prescelti. A ciò si aggiunge il sistema dei concorsi locali introdotto da Berlinguer, che ha definitivametne affossato l'università consentendo che diventasse professore di diritto internazionale o comparato chi parla a stento l'italiano.

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26/09/2010 17:43
 
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Re:
trixam, 26/09/2010 16.39:

L'unico modo di evitare le parentopoli sarebbe introdurre un sistema meritocratico di tipo inglese, 50% dei fondi per l'università a tutti in maniera uguale e l'altro 50 assegnarlo in base alla produzione scientifica. Qui però si pone la grande questione metafisica: come garantire che quest'ultimo 50 sia assegnato realmente per merito?
Tutti i sistemi studiati negli altri paesi per valutare il merito in italia sembrano inefficaci, aggirati dalle micidiali astuzie della mafie baronali e dei suoi accoliti. Chiunque ha una minima esperienza dei dipartimenti italiani sa che il "ricercatore medio" ha un kit di sopravvivenza al merito. Quello che mi ha colpito di più è il sistema delle pubblicazioni farlocche che alimenta un mercato ricchissimo che è impossibile da imbrigliare. Tempo fa incontrai una venditrice di pubblicazioni la quale mi spiegò tutto il sistema adatto a tutte le tasche nel caso mi fossi messo in mente di fare concorsi universitari in italia. Praticamente con una modica spesa di 1000 euro potevo avere tre pubblicazioni di un certo rilievo, naturalmente senza scrivere una sola parola. Con 1500 euro potevo averne cinque, di cui tre di top class. Su su, arrivando a 5000 euro potevo addirittura essere associato alla pubblicazione di qualche luminare.
Alla mia obiezione che io ho quattro pubblicazioni reali, fatte di olio di gomito, su riviste che non ho pagato lei mi ha risposto irritata: "e chi te l'ha fatto fare"?
No questo sistema non si può sconfiggere e sta bene a tutti.
L'unica soluzione sarebbe la bomba atomica, svoltare verso un sistema di università privata con borse di studio finanziate dallo stato per i non abbienti meritevoli. Ma anche qui avremmo due problemi.
Non ci sarebbe il consenso, che è fondamentale. E poi noi italiani siamo talmente bravi, che troveremmo il modo di corrompere anche questo sistema.




Alcune associazioni (SISDC etc.), vista la mala parata, hanno elaborato delle griglie che dovrebbero consentire una valutazione relativamente oggettiva delle pubblicazioni.

Es.: nota sul Foro Italiano: 2 punti; monografia edita da CEDAM: 25 punti; etc. etc.

Se venisse introdotto un sistema del genere sarebbe già tanto.

Sappiamo bene che il comitato scientifico di una rivista degna di questo nome non consente che vengano pubblicate minchiate perchè, in quel caso, nessuno farebbe più affidamento sulla rivista. Per questo, con una griglia di quel genere, il candidato superprotetto e superignorante sarebbe costretto a produrre qualcosa di decente per vincere il concorso confezionato per lui(anche, ovviamente, avvalendosi di terzi). Adesso, invece, questo sforzo "intellettuale" non è affatto necessario. Ho visto con i miei occhi un cristiano diventare professore associato a 27 anni grazie alla sua tesi di laurea (sulla quale risparmio ogni commento).
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26/09/2010 19:18
 
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giulio zanella
I ricercatori universitari sono da mesi mobilitati contro il DDL Gelmini per la riforma dell'università e contro la riduzione dei trasferimenti del governo alle università pubbliche (i "tagli", insomma). La protesta ha raggiunto il culmine in questi primi giorni del nuovo anno accademico: i ricercatori hanno scelto dare esecuzione alla minaccia messa sul tavolo da tempo, ovvero il rifiuto di insegnare i corsi che gli sono stati affidati -- in Italia i ricercatori non possono essere "titolari" di corsi (peculiarità dei professori, associati e ordinari) e quindi ne diventano "affidatari".

Dettagli sulla protesta si trovano sul sito della Rete 28 Aprile, che mette appunto in rete i gruppi dei vari atenei, e in particolare nel documento del coordinamento nazionale dello scorso 10 settembre.

Uno dei motivi che hanno originato la protesta è la nuova disciplina dei ricercatori contenuta nel DDL. Questo prevede infatti l'istituzione dei ricercatori a tempo determinato (RTD), una figura che andrebbe pian piano a sostituire del tutto quella dei ricercatori a tempo indeterminato (RTI), un ruolo che il DDL mette "ad esaurimento". La carriera dei RTD procederebbe secondo il modello della "tenure-track" di origine anglosassone: i nuovi ricercatori inizierebbero con un contratto di 3 anni, con possibilità di rinnovo per altri 3 (come avviene adesso per i RTI, che sono soggetti a conferma dopo i primi 3 anni). Dopo 6 anni il RTD è soggetto a un giudizio di "tenure": se ha raggiunto certi obiettivi (primariamente in termini di pubblicazioni scientifiche) viene promosso al ruolo di professore associato (senza bisogno di un concorso), con impiego a tempo indeterminato; se non li ha raggiunti deve trovarsi un altro lavoro. Per una volta, inoltre, il trattamento economico seguirebbe una logica economica: i RTD sarebbero pagati significativamente più dei RTI. I primi infatti accettano un rischio (essere fuori dopo 6 anni) che i secondi non corrono. Si può pensare che pagarli di più aiuti anche ad attrarre ricercatori migliori, visto che gli attuali stipendi all'ingresso della carriera accademica sono miserrimi rispetto a quelli oltre qualunque confine nazionale che non sia quello a sud. Ma le grandezze di cui stiamo parlando non sono purtroppo sufficienti a questo scopo, anche se la direzione è quella giusta. Ho semplificato brutalmente, ma più o meno dovrebbe funzionare così nelle intenzioni degli estensori, anche se c'è ancora grande incertezza sui dettagli del testo finale che, dopo essere stato approvato dal Senato, deve ora passare dalla Camera.

Un altro motivo della protesta, come detto, è la riduzione del finanziamento pubbico alle università. Il governo ha infatti progettato tagli uniformi (nella stessa proporzione per tutti, cioé) che vengono definiti "lineari" -- con pessimo senso geometrico: se tracci una qualunque linea sulla distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario non otterrai mai una decurtazione uniforme del Fondo, no?

Che il DDL sia complessivamente demenziale io non ho dubbi: se devi (come governo) fare tutto 'sto casino fallo almeno per riformare per bene il sistema. Quello che dev'essere fatto è fin troppo noto. C'è dissenso sui dettagli ma la direzione non può che essere quella: legare i finanziamenti a indicatori di quello che le università sono lì per fare, cioé ricerca e didattica di elevata qualità, secondo i migliori standard internazionali, e lasciarle libere di assumere e promuovere chi vogliono, pagandolo quanto vogliono, rimuovendo la pachidermica burocrazia che va dai concorsi alle mille regole e vincoli sull'utilizzo delle risorse. Di questo si è già discusso su nFA. Però la disciplina dei RTD ha molti pregi. Il più importante, secondo me, è che permette di stabilire chiaramente i risultati che ci si attende da loro nei sei anni successivi per ottenere la promozione e l'assunzione a tempo indeterminato. Se la barra non viene fissata troppo in basso (cioé se non si fissano obiettivi che tutti possono facilmente raggiungere impegnandosi al minimo) questo non può che avere effetti positivi sulla qualità della ricerca. Una riforma di questo tipo è stata recentemente introdotta per le scuole primarie e secondarie a Washington (District of Columbia) dalla chancellor locale, Michelle Rhee. Come lei stessa spiega in questo documento (in inglese), dopo anni di declino delle scuole pubbliche la Rhee e il suo staff hanno preso il toro per le corna iniziando a riformare l'istruzione pubblica dagli incentivi degli insegnanti: chiari messaggi sulla performance attesa, un nuovo metodo di valutazione all'avanguardia tra tutti gli stati americani, un nuovo sistema di supporto all'insegnamento, e stipendi più alti assieme a contratti che permettono di non confermare gli insegnanti con valutazioni al di sotto dello standard prefissato. Questi nuovo sistema di incetivi ha consentito alle scuole pubbliche a DC di migliorare enormemente la qualità dell'insegnamento. Di conseguenza, i tassi di iscrizione che erano in declino negli anni precedenti sono oggi in aumento.

Ma queste sono distrazioni: torniamo all'oggetto del post.

Il merito

La protesta ha il merito di evidenziare un'anomalia dell'università italiana: la didattica, soprattutto quella di base, viene svolta in buona parte da soggetti, i ricercatori, che per contratto non sono tenuti ad insegnare. Questa anomalia, che riflette il doppio vizio italico di far lavorare la gente gratis e accettare di farlo, andrebbe rimossa modificando i contratti dei ricercatori. Se si vuole che insegnino li si deve trasformare in professori di terza fascia (come l'assistant professors in USA, il lecturer in UK, il profesor ayudante in Spagna, il juniorprofessor in Germania, eccetera) e li si deve pagare di più per questa funzione aggiuntiva che svolgono rispetto a quanto stabilito nel contratto nazionale vigente. Spiace dirlo, ma questo merito è non intenzionale. Infatti, da quanto capisco, i RTI non chiedono questo -- se fossero stati interessati a riscrivere i contratti in questo senso avrebbero protestato ben prima del DDL Gelmini e si sarebbero resi indisponibili all'insegnamento negli ultimi 20-25 anni, non solo quest'anno.

Il demerito

La protesta ha però un demerito, anzi due. Primo, sulla questione del RTD. Vi sarete chiesti, un po' più sopra: che cosa importa ai RTI che protestano se vengono istituiti i RTD? Questo non intacca la loro posizione. In realtà, sostengono, lo farà con elevata probabilità: la carriera dei RTI potrebbe essere influenzata dalla presenza dei RTD perché questi ultimi avranno una corsia a scorrimento veloce per la carriera (dopo 6 anni o li promuovi o gli dici che devono cambiare istituzione se vogliono continuare a fare ricerca) mentre i primi dovranno passare per le strettoie e le lungaggini di un concorso da associato, col rischio che le facoltà impieghino gran parte delle risorse per gli avanzamenti di carriera dei RTD: se sono bravi non vuoi perderli, mentre i RTI li avrai comunque. Non sono sicuro di capire del tutto la logica di questa preoccupazione (che sembra ignorare il fatto che le facoltà orientate alla ricerca hanno interesse a far avanzare la carriera dei migliori ricercatori indipendentemente dal tempo al quale sono declinati), la riporto per come la capisco -- correggetemi se l'ho capita male.

Da questa preoccupazione deriva la richiesta al Ministero di prevedere, contestualmente all'approvazione del DDL, lo stanziamento di fondi per bandire un sufficiente numero di posti da associato. Per i più maliziosi il numero "sufficiente" sarebbe quello che permetterebbe, di fatto, una sorta di promozione ope legis di gran parte degli attuali RTI. I leader della protesta ci tengono a precisare che non è così. Nel documento linkato sopra si legge, ad esempio, della

necessità di uno stanziamento straordinario nel transitorio che consenta di reclutare giovani per adeguare il rapporto studente‐docenti alla realtà europea e di permettere ai ricercatori, su valutazione e non via ope legis, di progredire verso il livello del ruolo unico corrispondente a quello degli attuali professori associati.
Questo naturalmente dipende da quanti posti da associato vengono richiesti. Se la richiesta fosse pari, che so, ai 2/3 dei RTI e fosse accordata, voi capite che ci sarebbe pure una valutazione ma si tratterebbe, di fatto, di promozione ope legis.

Secondo, sulla questione dei tagli la protesta è di retroguardia. In questo paese le risorse scarseggiano, e il governo, qualunque governo, ha pochi soldi per fare le troppe cose di cui c'è bisogno. Una protesta che guarda avanti invece che indietro è una protesta che chiede a gran voce, fornendo adeguato supporto politico: (a) di liberare risorse da altre voci di spesa pubblica (nessuno può avere la botte piena e la moglie ubriaca), e (b) di fare tagli, se tagli devono essere, non "lineari" ma differenziati, e ben differenziati, in base a indicatori di performance: piuttosto che affamare la migliore e la peggiore università italiana meglio premiare la prima e chiudere la seconda.

La proposta

Vengo alla proposta. Si tratta di un'alternativa alla richiesta dello "stanziamento straordinario" di cui alla citazione sopra, e che se introdotta farebbe un ottimo servizio alla qualità della ricerca. L'idea è questa: consentire ai RTI la scelta del regime. Chi vuole può optare per il regime RTD, avere da subito uno stipendio più alto, e giocarsela dopo 6 anni: se ci sono i requisiti si diventa associati, se no si cambia istituzione o mestiere. Chi non vuole prendersi questo rischio resta RTI e aspetta i concorsi per avanzare la propria carriera (senza concorsi riservati, straordinari, e simili), come si è fatto fino a adesso. In questo modo, per forza di cose, nessun RTI potrà ritenersi svantaggiato.

La ratio della proposta è evidente e si chiama self-selection. Questa, rivelando i "tipi" altrimenti inosservabili, a volte può portare miracolosi miglioramenti nel grado di efficienza delle istituzioni.
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