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No all'inglese come lingua esclusiva. Il Tar ferma il Politecnico

Ultimo Aggiornamento: 28/05/2013 13:44
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24/05/2013 12:18
 
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caso


No all'inglese come lingua esclusiva
Il Tar ferma il Politecnico
Accolto il ricorso dei professori contrari alla svolta dell'universitàIl caso

No all'inglese come lingua esclusiva
Il Tar ferma il Politecnico

Accolto il ricorso dei professori contrari alla svolta dell'università



(Fotogramma)
No all'inglese come lingua esclusiva all'università. Questa scelta «incide in modo esorbitante sulla libertà di insegnamento e sul diritto allo studio». Lo slancio in avanti del Politecnico di Milano, che l'anno scorso aveva annunciato «solo lezioni in inglese dal 2014», è stato fermato dai giudici del Tar che hanno accolto ieri il ricorso presentato da un centinaio di professori dell'ateneo. Difeso il primato della lingua italiana sancito dalla Costituzione, anche per l'insegnamento nelle nostre università.

Il rettore Giovanni Azzone era pronto a escludere l'italiano dalle lauree specialistiche e dai dottorati, «per un ateneo internazionale», «per formare professionisti pronti per un mercato globale». È di un anno fa la delibera del senato accademico sull'uso esclusivo dell'inglese annullata ieri. E lo scontro era stato immediato. Subito gli appelli contro, firmati da trecento professori del Politecnico, un fronte trasversale da ingegneria ad architettura. Poi, a luglio, il ricorso al Tar. E ieri la sentenza che annulla la delibera di maggio 2012. «Accoglie in pieno le nostre ragioni. Dimostra tutta la lesività della decisione impugnata. È una vittoria non soltanto nostra, è una vittoria della ragione e della cultura», dice Maria Agostina Cabiddu, che è docente di diritto amministrativo al Politecnico ed è anche l'avvocato dei ricorrenti.
Il primo annuncio del rettore ingegnere Giovanni Azzone con l'allora ministro Francesco Profumo era stato all'inizio del 2012. «Lezioni solo in inglese entro due anni». «Perché dobbiamo formare capitale umano di qualità in un contesto internazionale per rispondere alle esigenze delle imprese e a quelle degli studenti che chiedono di essere pronti per un mercato mondiale del lavoro», la motivazione del rettore. E aveva spiazzato molti, dentro e fuori dal Politecnico. Sull'esclusione dell'italiano subito un vivace dibattito. Voci diverse, dagli atenei all'Accademia della Crusca. Lo slancio forte, verso l'internazionalizzazione divideva i professori, anche in un ateneo che conta già oltre venti corsi di laurea e altrettanti dottorati in inglese. Il punto critico? La scelta obbligata. Insegnare e imparare «esclusivamente» in una lingua diversa. Eliminare l'italiano. La svolta del Politecnico incide sulla libertà di insegnamento e sul diritto allo studio, si legge nella sentenza dei giudici amministrativi. Erano gli argomenti forti del partito contro. Un conto è conoscere una lingua straniera, altro è tenere lezioni ed esami. «Abbasserebbe la qualità della formazione», una delle obiezioni.

E ancora, non tutti i docenti sono pronti. E non tutti gli studenti. Il preside di Architettura, Pier Carlo Palermo, aveva parlato di «accelerazione rischiosa». Il rettore Azzone intanto aveva fatto partire corsi di inglese intensivi per i professori, con tanto di esamini periodici. «Ma insegnare la materia in un'altra lingua non è come preparare una relazione per un convegno», dice Cabiddu. «E internazionalizzazione non è inglesizzazione». In architettura per esempio non è quella la lingua madre. Storia dell'arte ha più senso studiarla in italiano. Un'altra osservazione: «È giusto diffondere la conoscenza di lingue straniere ma anche diffondere la cultura italiana all'estero». Poi. La centralità della lingua italiana è tutelata dalla Costituzione, l'altro principio ribadito dai giudici del Tar.

Ora è tutto fermo, si va avanti con il bilinguismo. Dopo il triennio resiste il doppio binario dei corsi nelle due lingue, per le magistrali e per i dottorati. «E ci auguriamo che gli organi di governo dell'ateneo decidano di non presentare appello», dicono i ricorrenti.

Federica Cavadini
24 maggio 2013 | 10:29
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Faccio notare che il sito web dello studio dell'avv. prof. è attualmente disponibile solo in inglese.


http://www.bfplex.com/en/ofcounsel_cabiddu.html


In sintesi, a parte alcune osservazioni sensate (es. è difficile immaginare alcuni corsi in inglese) provo vergogna per i ricorrenti e per gli interessi (non troppo sottesi) che questi rappresentano.


[Modificato da .pisicchio. 24/05/2013 12:28]
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24/05/2013 12:57
 
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Sfortunatamente è necessario potenziare lo studio dell'inglese perchè "serve", ma non condivido la scelta di buttare nel cesso la lingua italiana.
Ci sono tante altre strade meno invasive da percorrere e internazionalizzazione significa altro,ma vabbè.

[Modificato da connormaclaud 24/05/2013 12:59]
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Re:
connormaclaud, 24/05/2013 12:57:

Sfortunatamente è necessario potenziare lo studio dell'inglese perchè "serve", ma non condivido la scelta di buttare nel cesso la lingua italiana.
Ci sono tante altre strade meno invasive da percorrere e internazionalizzazione significa altro,ma vabbè.





Credo che la questione possa essere sintetizzata come segue.

L'interesse primario dell'Università dovrebbe essere formare i giovani e consentire loro di trovare un lavoro decente. Un giovane del 2013 che non conosce l'inglese ragionevolmente non potrà ritenersi formato nè troverà un lavoro decente.

L'interesse primario attualmente perseguito dall'Università italiana (degnamente rappresentata dai ricorrenti) è quello di formare i figli dei professori e consentire loro di trovare un buon lavoro (possibilmente corredato da una cattedra universitaria).

A questo devi aggiungere che la lingua inglese al politecnico avrebbe aperto l'ateneo agli studenti stranieri...

E con questo vorrei stendere un velo pietoso sui docenti che non sono in grado di tenere una lezione in inglese. Altro che corsi intensivi. Quelli dovevano frequentarli prima! Andrebbero mandati in pensione (insieme a quelli che hanno consentito loro di salire in cattedra).

ps: non capisco come si possa internazionalizzare se non si parla tutti la stessa lingua. Cosa facciamo, ci esprimiamo a segni?

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24/05/2013 13:46
 
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Beh pisicchio, se per 13 anni si pettinano le bambole non si può pretendere che dall'oggi al domani si parta in quinta con lo studio dell'inglese nelle università.
Fatta questa premessa, c'è una bella differenza tra un corso obbligatorio triennale o quinquennale e certificati in lingua e la sostituzione sine qua dell'italiano con l'idioma albionico.
Solo inglese,cui prodest?
Non poi a così tanti perchè verosimilmente non tutti, per limiti di posti, posso emigrare e non sarà certo l'inglese a portare studenti stranieri.
Le nostre università non sono appetibili per ben altre ragioni che vanno dall'organizzazione del percorso di studi,alla disorganizzazione dei corsi,all'assenza di sensate metodologie di studio,ricerca e insegnamento al TOTALE DISINTERESSE verso tirocini e percorsi post laurea.
Tra le poche che si salvano ci sono bocconi e luiss (che snobbai a suo tempo) che invece premono molto su questi aspetti oltre che la flessibilità nella formazione e sostenibilità dell'insegnamento.
Ho amici in entrambe le università che le loro esperienze all'estero,pur non essendo cime in inglese,le stanno facendo con tirocini retribuiti e ,per chi aveva la triennale, opportunità di contratti già durante l'università.

QUi si deve martellare, oltre che riformare i servizi universitari, se si vuole internazionalizzare l'università,magari sognando il concetto di campus.
Solo recuperando questo terreno e iniziando ad uniformare qualità e durata del percorso universitario si farà qualcosa di sensato.


Che ci sia più o meno diffusa malcreanza nella classe docenti - fatte le dovute eccezioni- è un altro paio di maniche.
A me interessa poco se il mio docente conosce o meno 4 o 5 lingue, quello che voglio è qualcuno che sia REALMENTE interessato all'insegnamento e a questo si dedichi anima e corpo,docenti che s'interessino alla ricerca e allo studio della materia,non entità astratte che arrotondano lo stipendio con la cattedra universitaria.
Lo stesso dicasi per gli assistenti che sono troppo e sostanzialmente inutili e inutilizzati perchè ,nessuno me ne voglia, sembra quasi un posto alle poste e non una focina di ricerca.
Si dovrebbe iniziare con l'avere docenti e - ove possibile- studenti a tempo pieno, questi ultimi presenti ( e qui si dovrebbe accennare al numero chiuso e diminuzione dei posti) nei dipartimenti e impegnati a collaborare attivamente nella ricerca.
Questo e quanto scritto precedentemente serve per internazionalizzare l'università, cambiandone l'indole sormiona, ma l'inglese vale all'incirca come un due di picche,non cambia la sostanza e non risolve il problema.
E' un fattore importante,ma non determinante.



[Modificato da connormaclaud 24/05/2013 13:52]
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24/05/2013 13:59
 
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Re:
connormaclaud, 24/05/2013 13:46:

Beh pisicchio, se per 13 anni si pettinano le bambole non si può pretendere che dall'oggi al domani si parta in quinta con lo studio dell'inglese nelle università.
Fatta questa premessa, c'è una bella differenza tra un corso obbligatorio triennale o quinquennale e certificati in lingua e la sostituzione sine qua dell'italiano con l'idioma albionico.
Solo inglese,cui prodest?
Non poi a così tanti perchè verosimilmente non tutti, per limiti di posti, posso emigrare e non sarà certo l'inglese a portare studenti stranieri.
Le nostre università non sono appetibili per ben altre ragioni che vanno dall'organizzazione del percorso di studi,alla disorganizzazione dei corsi,all'assenza di sensate metodologie di studio,ricerca e insegnamento al TOTALE DISINTERESSE verso tirocini e percorsi post laurea.
Tra le poche che si salvano ci sono bocconi e luiss (che snobbai a suo tempo) che invece premono molto su questi aspetti oltre che la flessibilità nella formazione e sostenibilità dell'insegnamento.
Ho amici in entrambe le università che le loro esperienze all'estero,pur non essendo cime in inglese,le stanno facendo con tirocini retribuiti e ,per chi aveva la triennale, opportunità di contratti già durante l'università.

QUi si deve martellare, oltre che riformare i servizi universitari, se si vuole internazionalizzare l'università,magari sognando il concetto di campus.
Solo recuperando questo terreno e iniziando ad uniformare qualità e durata del percorso universitario si farà qualcosa di sensato.


Che ci sia più o meno diffusa malcreanza nella classe docenti - fatte le dovute eccezioni- è un altro paio di maniche.
A me interessa poco se il mio docente conosce o meno 4 o 5 lingue, quello che voglio è qualcuno che sia REALMENTE interessato all'insegnamento e a questo si dedichi anima e corpo,docenti che s'interessino alla ricerca e allo studio della materia,non entità astratte che arrotondano lo stipendio con la cattedra universitaria.
Lo stesso dicasi per gli assistenti che sono troppo e sostanzialmente inutili e inutilizzati perchè ,nessuno me ne voglia, sembra quasi un posto alle poste e non una focina di ricerca.
Si dovrebbe iniziare con l'avere docenti e - ove possibile- studenti a tempo pieno, questi ultimi presenti ( e qui si dovrebbe accennare al numero chiuso e diminuzione dei posti) nei dipartimenti e impegnati a collaborare attivamente nella ricerca.
Questo e quanto scritto precedentemente serve per internazionalizzare l'università, cambiandone l'indole sormiona, ma l'inglese vale all'incirca come un due di picche,non cambia la sostanza e non risolve il problema.
E' un fattore importante,ma non determinante.







Rispetto la tua opinione anche se non la condivido.

Ad ogni modo, credimi, non parlavo certo di emigrare. Un'azienda seria (in Italia) non ti prende se non parli e scrivi (bene) almeno in inglese. Idem per molti concorsi pubblici.

Tutto qui.

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24/05/2013 15:08
 
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Lostesso vale per me.
Non trovo il nesso però,tra la conoscenza dell'inglese e la scelta di spodestare la lingua madre nelle università.
Si tratta di un percorso complementare,se non parallelo, a quello universitario.
[Modificato da connormaclaud 24/05/2013 15:08]
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24/05/2013 15:28
 
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A backward country by law. Our destiny. Epic fail.
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24/05/2013 17:51
 
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Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Premesso che confesso di non parlare l'inglese ed è una lacuna gravissima, che sto da tempo colmando, cioè prendo lezioni e sento cassette (anche se la toppa si sentirà sempre, perché ben altro è invece imparare a pensare in una lingua straniera appresa fin da piccoli assieme alla propria), che invece conosco bene il francese e lo spagnolo e intendo il tedesco e lo spagnolo, che lo studio dell'inglese dovrebbe essere precoce e obbligatorio per tutti, fin dalle elementari, qual è il senso di corsi obbligatorii in una lingua (una qualunque) diversa da quella del luogo in cui sorge una scuola o un'università? Mi pare che si confondano le giuste esigenze di internazionalizzazione e di maggiori opportunità per tutti con la resa provinciale ai rapporti di forza (che sono ovviamente anche linguistico-idiomatici) insomma al mercato, ai dané. Nessun nazionalismo, nessuna chiusura, l'ho scritto; ma imporre una lingua obbligatoria [una sola) per le lezioni mi fa venire in mente la Cina e il Tibet
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24/05/2013 20:12
 
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Professore il paragone che lei propone con la Cina è fuorviante.

Se uno studente italiano che conosce l'inglese(ed abbia i dané si intende) vuole andare a studiare all'università di Pechino o Shangai può farlo tranquillamente perché troverà i corsi in inglese. Se invece uno studente cinese vuole venire a studiare in Italia non può farlo a meno di non imparare l'italiano.

Ma secondo lei il Politecnico di Milano deve funzionare secondo la stessa logica dell'università di Gabbicce a mare?
Non è obbligatorio andare al Politecnico, si suppone che quelli che ci vanno siano tra gli studenti più brillanti i quali si iscrivono, in maggioranza, proprio per sottoporsi a standard più elevati della media. Infatti gli studenti hanno votato a favore dell'inglese con un'inedita unità tra quelli di destra e sinistra.

Se la legge impedisce ad una delle poche università pubbliche di livello di provare a raggiungere standard più elevati escludendola dai giri che contano allora davvero è finita per l'università ed il paese.
Le materie ingegneristiche sono discipline dove la lingua inglese è assolutamente dominante ed anche in altri atenei, compresa la facoltà di ingegneria della Federico II, ci sono esami che si svolgono esclusivamente su testi inglesi. Molti scrivono anche la tesi in inglese.

Mi chiedo dove sta l'autonomia dell'università. Che senso ha affermarla quando poi al primo tentativo di differenziare l'offerta formativa arriva il tar e blocca tutto? Ad essere maliziosi si direbbe che ha ragione Pisicchio, serve solo a difendere le prerogative della casta baronale.
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25/05/2013 13:59
 
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Sono pienamente d'accordo nel potenziare l'insegnamento dell'inglese, ma trovo assurdo sostituirlo completamente alla lingua italiana...ma siamo pazzi!!!!
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25/05/2013 14:01
 
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Io sono d'accordo ad un Università completamente in inglese. Ma potenziamone l'insegnamento, a questo punto!.
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25/05/2013 15:33
 
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Ci sono ragioni da ambo le parti.
Ha ragione Pisicchio a dire che chi si oppone lo fa principalmente per interessi conservatori e per una incapacità nemmeno tanto latente.

E' anche vero che la riforma proposta è un po' troppo brutale, e come tutte le cose brutali ha tanti aspetti decisamente sciocchi.

Molti corsi, come appunto Storia dell'arte, vanno fatti in italiano.
Archeologia, se proprio non la vuoi fare in italiano, la studi in tedesco.
La stessa architettura...così come molti altri corsi...non vedo l'utilità né il nesso nello studiarli esclusivamente in inglese.
Anche il diritto si può studiare in inglese, ma sarebbe decisamente meglio l'italiano se non proprio il tedesco.

Quello proposto mi sembra un modo un po' ottuso di pensare alla globalizzazione.
Istituiscano pure degli specifici corsi esclusivamente in inglese...ma una generale "abolizione" della lingua italiana la vedo più una mossa per attirare un po' di clamore che un processo di riforma serio e razionale.
Email Scheda Utente
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25/05/2013 18:25
 
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L'inglese è il futuro...e non lo dico solo perchè mia mamma insegna inglese [SM=g2725401]
Email Scheda Utente
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25/05/2013 19:38
 
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Che l'inglese sia il futuro non c'è alcun dubbio, anche io sono d'accordo nel potenziare l'inglese in tutte le scuole e di imporre corsi all'università obbligatori , ma non tollero assolutamente l'eliminazione totale della mia lingua. La lingua di un paese di un popolo è anche la sua cultura la sua storia, perchè dovremmo eliminarla del tutto???
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26/05/2013 13:16
 
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Favorevole ad interi corsi di laurea in lingua inglese, soprattutto in ambito scientifico e delle scienze applicate. Contrario per le facoltà umanistiche, nelle quali sarebbe più opportuno studiare solo determinati esami in lingua inglese (Da noi, per esempio, economia politica, diritto internazionale, diritto UE). Ma concordo con chi ritiene il Politecnico un'Università un po' sui generis. Se si volesse estendere il principio a livello nazionale bisognerebbe potenziare l'insegnamento dell'inglese dall'asilo (ma senza denari non si cantano messe) ma in parallelo offrire corsi anche al corpo docente: vista l'età media elevata, si sono formati in un'epoca in cui l'inglese non era così imprescindibile.
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27/05/2013 03:26
 
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Ma al politecnico ci sono anche corsi interamente in inglese (anche da noi se è per questo), non capisco proprio la vexata quaestio, qual è il punto? Veramente pretendete di aver ragione partendo dalla premessa irrealistica che in un politecnico italiano (pagato con le tasse di italiani, that's rich) si insegni esclusivamente nella lingua d'Albione? Ma perchè, secondo voi all'Università di Pechino si tengono solo corsi interamente in Inglese? Ovviamente no, la maggioranza dei corsi è in cinese e d'altra parte non potrebbe essere altrimenti visto il livello dell'inglese del graduate medio cinese o indiano.

In Francia, negli istituti di eccellenza non universitari (le grandes écoles, visto che l'università francese fa schifo)l'esame di ammissione può essere sostenuto in inglese ma al candidato si chiede che disponga di un'ottima conoscenza del francese che verrà testata continuamente nel corso della sua permanenza (del resto molti insegnamenti sono disponibili esclusivamente nella lingua di Voltaire), al Poly X gli ostacoli per i non francofoni sono decisamente molti.
Eppure nessun Solone nostrano si è stracciato le vesti(tranne la destra populista di Sarko' che sollevo' a suo tempo il problema di rendere l'istruzione meno elitaria) per questa (non proprio ingiusta) politica di ammissione.

La risposta e' molto piu' semplice. Ci sono i baroni cosi' come gli studenti fannulloni. I primi sono un cancro, i secondi possono essere persino peggio dei primi.
Tanto si sa, i corsi in inglese sono tipicamente quelli con gli esami piu' facili (i docenti sono piu' giovani e meno pretenziosi), alcune materie nemmeno esistono e per evidenti ragioni le prove dovranno essere streamlined. Perbacco, ecco il consenso plebiscitario del corpo studentesco e di un'istituzione, vi ricordo, che sebbene attragga studenti dall'estero e' in emorragia, servono risorse ed occorre svendere il titolo.
Vabbe', poi trixam si e' dimenticato anche i rudimenti del diritto amministrativo.

Mi pare sottovalutiate anche i problemi logistici. Un docente non padrone dell'idioma non solo sarebbe inascoltabile rendendo la lezione deleteria ma addirittura sarebbe incapace di esprimere i concetti piu' basilari. L'alternativa quale è? Consumare energie per l'aggiornamento di persone prossime al pensionamento? Assumere nuovi docenti (conseguente aumento delle rette)?
E nei campi dove gli "anziani" sono autorita' riconosciute, che fate, li sostituite con giovani inesperti? D'altra parte ci sono sentieri che la ricerca estera non batte (o non c'e' proprio letteratura di alto livello ne' docenti stranieri di statura paragonabile), penso a certi corsi di design che attirano studenti da tutto il mondo e che sono tenuti da i "brontosauri" che seppur parlando inglese si rifiutano di insegnarci (fatelo un corso di teoria dell'estetica in inglese, poi ne riparliamo).



Vi lascio con una citazione di Platone: "Il vero problema di Internet e' che e' impossibile discernere tra le citazioni vere e quelle inventate di sana pianta".

Au revoir.
[Modificato da ObbligazioneNaturale 27/05/2013 03:46]
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28/05/2013 13:44
 
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Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Credo che qui si stia formando un'opinione comune, che io "leggo" così: sì al potenziamento serio e dall'inizio delle scuole (anche elementari) dello studio dell'inglese (no invece allo studietto "a tarallucci e wine" di oggi [SM=g2725401] , ma no all'imperialismo culturale (condivido le preoccupazioni di Rory). A Trixam chiarisco appunto - sono stato infelice nell'esprimermi - che in questo senso andava il mio richiamo a Cina e Tibet: se vuoi assimilare un popolo, stroncane l'apprendimento della lingua nativa.
Due piccoli racconti. Primo: da avvocato, ricevetti un giorno in studio un giovane ingegnere, che aveva un problema lavorativo giuridico da risolvere. Non vi dico i se sarei e se potrei. Ma forse conosceva l'inglese tecnico dei suoi libri all'universià, chissà. E mi ricordai che avevo conosciuto da ragazzo un ingegnere amico di mio padre, che conosceva il greco e il latino e che mi insegnò lui le basi del diritto dell'ediizia.
Secondo: ieri, visione in Dipartimento del film "Il resto di niente". I rivoluzionari del 1799 parlavano l'italiano dei classici e il francese giacobino (anche concettualmente), il popolo intendeva solo il dialetto stretto e i suoi bisogni immediati. Eleonora alla fine - preparandosi al patibolo - ammette co se stessa che il popolo vuole stare nei suoi vicoli, mentre "noi volevamo isegnargli la Libertà". La Libertà si insegna, al suo esercizio responsabile ci si arriva, appunto, ma l'educazione si ipartisce non ignorando che bisogna partire dalla gente, anche dei vicoli.
Non capisco perché (per dare di più, il che è beninteso dovuto) si debba negare la propria storia. Guardate che è drammatico: i ragazzi di oggi passano per piazza Mercato o piazza dei Martiri, ma non sanno nulla dei rivoluzionari del 1799; a piazza dei Martiri non si interogano su chi fossero quei martiri e perché fossero stati messi a morte, ma guardano solo le boutiques delle griffes. Napoli, più in generale, ha cose bellissime, che i Napoletani però non conoscono, mentre smaniano per avere la Coppa America e i concerti di piazza Plebiscito.
Io spero che si riesca invece ad essere anglofoni (ma non dimenticate allora nemmeno lo spagnolo e il portoghese, lingue di quell'immensa area che è l'America Latina), senza essere volgarmente provinciali: si può e deve essere cittadini del mondo, certo, ma senza trascurare che si è nati magari a Marano o a Villaricca e senza perciò vegognarsi di parlare e comprendere anche (anche, non solo) il dialetto (che i ragazzi oggi non conoscono bene, perché in molte famiglie non si parla più ed è un peccato), né l'italiano corretto
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