In Francia l’acqua fu definita “patrimonio comune della nazione” nel 19921 e i comuni sono i veri responsabili della gestione del servizio idrico fin dalla Rivoluzione Francese. Essi possono scegliere, attraverso una gara disciplinata dalla legge Sapin (legge n. 122 del 29 gennaio 1993) tra la gestione diretta o en regie, la gestione delegata e quella mista. Nel primo caso il comune stesso (o il gruppo di comuni riunito all’interno di un sindacato intracomunale) garantisce il servizio di acqua potabile e/o di depurazione. A parte alcune eccezioni, solo i piccoli comuni optano per questa scelta. Nel secondo modello, quello più adottato, il servizio idrico viene affidato, interamente o in parte, ad una società privata, attraverso la stipulazione di un contratto di lunga durata. Quest’ultimo può essere di due tipi: il leasing (affermage), con il quale il Comune realizza e finanzia gli investimenti sulla rete idrica, mentre la compagnia privata assicura il funzionamento del servizio di acqua potabile, versando parte dei proventi al comune in modo che possa ammortizzare le spese sostenute. Il secondo è la concessione (o gestione), attraverso la quale l’impresa privata gestisce direttamente, facendosene carico, anche gli investimenti sulla rete che resta di proprietà statale. Infine, la gestione mista è caratterizzata varie situazioni intermedie tra le prime due.
La legge prevede il principio del “chi consuma/inquina paga” (“l’eau paie l’eau”), in modo che il servizio sia gestito e finanziato indipendentemente dalle disponibilità finanziarie dei comuni. Tale sistema ha causato alti costi, che hanno portato la città di Parigi e altri comuni a rimunicipalizzare, nel 2008, la gestione che era stata precedentemente affidata a soggetti privati. La scelta di ritornare a una gestione completamente pubblica è considerata da molti un esempio di come la privatizzazione sia fallimentare. In realtà, emergono almeno tre aspetti che dovrebbero indurre alla cautela: innanzitutto, si consideri che in Francia esiste un serio problema di scarsa accessibilità degli utenti a informazioni relative sia alle caratteristiche contrattuali che ai livelli del servizio. Per risolvere tale problema nel 1997 la Corte dei Conti e il rapporto Baert proposero di istituire un’autorità di regolazione nazionale: ma sono stati proprio i sindaci e le municipalità, timorosi di veder ridotti i loro poteri, a ostacolarne la creazione. Infatti prima i veri responsabili del servizio erano i comuni, che si occupavano della qualità, del costo, della definizione della tariffa e del funzionamento del settore. La seconda questione riguarda la regolazione, che è soprattutto di tipo contrattuale. Nei casi di incompletezza contrattuale, le lacune sono risolte basandosi sull’autodisciplina e sulla reputazione delle imprese in un contesto poco trasparente, mentre per aprire il settore alla concorrenza è necessaria un’autorità di regolazione indipendente e credibile, che induca trasparenza nel settore. Infine va riconosciuto che, a fronte degli elevati costi, sono aumentati gli investimenti, grazie ai quali è stata garantita una maggiore qualità e innovazione tecnica dei servizi (l’incremento delle tariffe negli ultimi anni ha permesso di stabilizzare i prelievi idrici totali, in costante aumento fino agli anni ’80). È quindi difficile giungere a una conclusione definitiva e, soprattutto, tale giudizio non può basarsi unicamente sull’incremento dei costi e delle tariffe, se da una parte i privati hanno aumentato i prezzi, dall’altra hanno certamente garantito anche un miglior servizio. Infatti, quando sono necessari investimenti, i costi devono aumentare comunque, sia la gestione pubblica oppure privata. Se non aumenteranno le tariffe, cresceranno le tasse o il debito pubblico o, come accade spesso, non si finanzieranno gli investimenti.
Il caso francese, quindi, dovrebbe far riflettere su almeno tre questioni: innanzitutto, non si può dare per scontato che i comuni siano effettivamente interessati a perseguire l’interesse generale. Se non sono disposti a cedere parte dei loro poteri, è difficile credere che accetteranno di perdere consenso politico aumentando le tariffe per far fronte agli investimenti. In secondo luogo, non è vero che i privati non investono per migliorare la qualità del servizio. Infine si sottolinea come l’effettivo elemento competitivo del sistema francese non sia tanto la concorrenza tra imprese, quanto quella tra modelli gestione, a dimostrazione che, nel caso in cui davvero i privati dovessero fallire è comunque possibile tornare al pubblico – e viceversa. Nel caso appena esaminato, però, si tornerebbe a una gestione pubblica che può permettersi di ridurre le tariffe perché non ha sostenuto direttamente i costi per finanziare gli investimenti necessari a migliorare il servizio.