Giuristi Federiciani ...lasciate libero ogni pensiero o voi che entrate...

Nord Africa

  • Messaggi
  • --letizia22--
    00 03/02/2011 00:09
    la giornata di oggi dimostra che con un dittatore non si deve mai scendere a patti,ne' fidarsi.
  • --letizia22--
    00 04/02/2011 13:03
    "tutti vedono la violenza del fiume in piena,ma nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono." dedicata al popolo egiziano.
  • Niña de Luna
    00 04/02/2011 13:21
    Re:
    maximilian1983, 02/02/2011 13.56:

    Personalmente non credo che si debba essere contenti di quello che accadde. Credo che la democrazia, in certi paesi, si risolva sempre in una questione di metodo e non di sostanza. E' partendo dal metodo (chi vince governa) che si possono avere risultati disastrosi per la storia anche delle nostre vite (lo dico con un eccesso di egoismo, lo so, ma sono pragmatico...). Perchè l'Egitto e la Tunisia ed anche l'Algeria (la cui recentissima vicenda storica, che sembra rimossa dai media occidentali, ha avuto costi di sangue anche per noi italiani!) non sono l'Afghanistan e nemmeno la Siria (dove "non stranamente" niente succede contro Hassad, perchè lì il controllo islamico della vita quotidiana è fortissimo! ma anche di questo in Occidente non si fa menzione...). Non mi illudo che la democrazia in questi paesi possa diventare qualcosa in più di una questione di metodo. Il rischio (sempre nell'ottica pragmatico-egositica): appena in Egitto va al potere un governo ostile ad Israele, questo passa subito al contrattacco con guerra preventiva. Allora non sarà più nè questione di metodo nè di sostanza. Sarà la paura vera. E la guerra generalizzata in medioriente, saldandosi alla crisi economica devastante che già attraversiamo, potrebbe segnare l'inizio della fine di un'epoca. Sono molto pessimista.




    Quoto.

    Ho visto in tv l'intervista a una giornalista egiziana,definiva questa rivolta come l'occasione per l'Egitto di ottenere finalmente una democrazia,una costituzione degna del modello Occidentale.
    Io temo che davvero non sia così,non vedo dei leader in questo momento capaci di trascinare la folla,di darsi un programma politico...temo anch'io che salga al potere un'altro dittatore fondamentalista. In tutto ciò l'Onu non capisco che posizione abbia assunto al riguardo [SM=x43606]
  • --letizia22--
    00 05/02/2011 10:09
    DA INTERNAZIONALE:

    Molti europei guardano alle rivolte nel mondo arabo con scetticismo e sospetto, come se certi popoli non fossero all'altezza di ripetere il loro cammino verso la democrazia. Ma negli ultimi anni il mondo è cambiato più di quanto immaginiamo.
    Robert Misik

    Come molti altri, in questi giorni passo ore intere davanti al Live Stream di Al Jazeera, con la sensazione di essere in tempo reale nei luoghi in cui si sta scrivendo la storia. Con la rivolta egiziana stiamo vivendo – dopo la rivoluzione democratica in Tunisia – il secondo atto di questa sorprendente “primavera araba”. O del “1989 degli arabi”.

    Quello che accade è avvincente ed entusiasmante: nessuno di noi si sarebbe aspettato rivoluzioni civili in importanti paesi arabi. Avevamo descritto le loro popolazioni come apatiche e rassegnate, o facilmente manipolabili da dittatori ed estremisti islamici. E invece no. Le giovani generazioni metropolitane non sono molto diverse da quelle occidentali. Hanno gli stessi desideri. E grazie a internet vivono davvero nello stesso mondo globale.

    Forse internet e i social media hanno avuto sulla consapevolezza collettiva un effetto molto più forte di quanto abbiamo pensato finora. Anche i cosiddetti esperti in realtà non sanno un bel niente: negli ultimi due anni troppe cose si sono messe in movimento, mentre il sapere specialistico ha bisogno spesso di esperienze storiche di lungo corso, proprio quelle che gli ultimi sviluppi hanno inesorabilmente sorpassato, senza che gli “esperti” se ne rendessero conto.

    Quello che mi stupisce, anzi, quello che mi riempie di indignazione è l'opinione che si sente ripetere in diversi ambienti: “ma per l'amor del cielo, quanto è pericolosa l'instabilità? Da questi arabi non verrà niente di buono. Alla fine vedrai che si ritroveranno con una dittatura islamica. Ma allora erano molto meglio i dittatori laici.”

    Considerazioni del genere sono spazzatura morale. Come se nel 1989 si fosse detto a Vaclav Havel, Jens Reich [attivista dei diritti civili nella Ddr] e alle migliaia di cittadini che non ne potevano più dei loro regimi, che avrebbero fatto meglio a tenersi Honecker, Husak e gli altri, perché non si poteva sapere quello che sarebbe uscito da una rivolta – chi lo sa, forse persino una Germania riunificata e smaniosa di guerre.

    Un atteggiamento del genere non origina solo dalla corruzione morale, ma anche da un profondo disinteresse per la realtà. Basta guardare con un po' d'attenzione questo movimento civile arabo per constatare che i tanto temuti estremisti islamici stanno giocando un ruolo decisamente secondario. La gente vuole democrazia e libertà, non i mullah. Alcuni addirittura fanno notare che l'influenza dei gruppi islamici – come i Fratelli Musulmani in Egitto – sembra essersi ridotta.
    Un passo verso l’ignoto

    Siamo di fronte a un'occasione storica. Appena iniziano a respirare la libertà, gli uomini si trasformano. Questo significa anche che nessuno sa come andrà a finire. Adesso vediamo un ceto medio urbano che caccia i dittatori. È possibile che poi le elezioni democratiche diano risultati deludenti. Non abbiamo idea di come voteranno i contadini del delta del Nilo. Ma questo, ripeto, nessuno lo può sapere, ed è proprio questa la grande opportunità.

    Certo, spesso le occasioni si perdono. Ma la possibilità di un fallimento è un buon motivo per ancorarsi alla stabilità – come vogliono farci credere i dittatori, che non hanno altri argomenti? No, certo che no.

    Quello che manca ai cinici è la capacità di immaginazione politica, il senso del possibile. Ma il loro atteggiamento ha anche una radice razzista. L'idea di fondo è che gli arabi non possono vivere in democrazia: preferiscono andare dietro ai dittatori. Queste sono idiozie.

    Quando i cittadini prendono in mano la loro storia e vogliono darsi nuove regole compiono un passo verso l'ignoto. E l'incertezza comporta sempre dei rischi. La storia ha sempre funzionato così, altrimenti non ci sarebbe stato alcun progresso, e la democrazia non sarebbe mai nata.

    Il pretesto che la democrazia è pericolosa è vecchio quanto l'impulso dell'uomo verso la libertà. Ed è sempre stato sollevato da quelli che si sono aggrappati alla stabilità. Se lo avessero ascoltato anche i nostri antenati, adesso vivremmo ancora come servi della gleba, inchinati al clero, sottoposti all'arbitrio dei nobili. (traduzione di Nicola Vincenzoni)
  • --letizia22--
    00 14/02/2011 12:27
    Egitto
    Chi ha paura dei Fratelli musulmani
    10 febbraio 2011 16.13
    I governi occidentali temono che dopo Mubarak andranno al potere gli islamisti. Ma hanno un’immagine distorta della realtà egiziana, scrive il filosofo Tariq Ramadan sul New Statesman.

    Quando sono cominciate le manifestazioni di massa in Tunisia, chi avrebbe immaginato che il regime di Zine el Abidine Ben Ali sarebbe crollato così rapidamente?

    E chi avrebbe potuto prevedere che subito dopo anche l’Egitto sarebbe stato scosso da una protesta popolare senza precedenti? È crollato un muro e niente sarà più come prima. È molto probabile che, considerata l’importanza simbolica dell’Egitto, altri pae­si seguiranno il suo esempio. Ma quale ruolo giocheranno gli islamisti dopo la caduta di queste dittature?

    Per decenni l’occidente ha usato la presenza degli islamisti come scusa per appoggiare le peggiori dittature del mondo arabo. A loro volta, questi regimi hanno demonizzato gli oppositori islamisti, in particolar modo i Fratelli musulmani egiziani, che storicamente sono il primo movimento di massa ben organizzato in grado di esercitare anche un’influenza politica.

    Da più di sessant’anni la Fratellanza è fuorilegge ma viene tollerata. Ha dimostrato una capacità straordinaria di mobilitare la popolazione ogni volta che ha potuto partecipare a un’elezione relativamente democratica per scegliere i vertici dei sindacati e delle associazioni professionali, gli amministratori locali o i parlamentari. Perciò, viene spontaneo chiedersi se i Fratelli musulmani siano una forza in ascesa in Egitto e cosa possiamo aspettarci da questa organizzazione.

    In occidente ci siamo abituati alle analisi superficiali del fenomeno dell’islam politico in generale e sul movimento dei Fratelli musulmani in particolare. L’islamismo, però, è un mosaico di tendenze e gruppi diversi tra loro, le cui numerose sfaccettature sono emerse nel corso del tempo e in risposta a determinati cambiamenti storici.

    Un po’ di storia
    I Fratelli musulmani sono nati negli anni trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento, che rivendicava la legittimità della resistenza armata all’espansionismo sionista in Palestina. I testi scritti tra il 1930 e il 1945 da Hassan al Banna mostrano che il fondatore della Fratellanza si opponeva al colonialismo e criticava i governi fascisti in Germania e in Italia. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava legittimo in Palestina come forma di resistenza ai gruppi terroristi sionisti Stern e Irgun. Era inoltre convinto che il modello più vicino ai princìpi islamici fosse quello parlamentare britannico.

    L’obiettivo di Al Banna era fondare uno “stato islamico” attraverso un processo graduale di riforme, puntando sulla scuola e i programmi sociali. Ma fu ucciso nel 1949 da alcuni emissari del governo egiziano, su ordine della Gran Bretagna. Dopo l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser nel 1952, la Fratellanza subì una violenta repressione, che fece emergere alcune tendenze. Dopo l’esperienza del carcere e delle torture, alcuni affiliati (che in un secondo tempo abbandonarono il movimento) si spinsero verso posizioni radicali e si convinsero che lo stato doveva essere rovesciato a tutti i costi, anche con la violenza. Altri rimasero fedeli all’idea di un riformismo graduale.

    Molti militanti furono costretti ad andare in esilio: alcuni finirono in Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia fondata sull’interpretazione letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, paesi a maggioranza musulmana dove coesistevano comunità diverse. Altri ancora si stabilirono in occidente, dove entrarono in contatto con la tradizione europea di libertà democratiche.

    Oggi nel movimento dei Fratelli musulmani convivono tutti questi diversi punti di vista, anche se la leadership, ormai molto anziana, non riflette le aspirazioni dei giovani, che sono più aperti al resto del mondo, hanno voglia di riformare l’organizzazione e sono affascinati dall’esempio della Turchia. Dietro un’immagine unitaria e fortemente gerarchica si agitano influenze contraddittorie. E nessuno sa ancora quale prevarrà.

    I Fratelli musulmani non sono alla testa della rivolta contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, che è animata invece da giovani donne e uomini stanchi della dittatura. I Fratelli musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione, così come non la rappresentano gli islamisti. Senza dubbio, sperano di partecipare alla transizione democratica dopo l’uscita di scena di Mubarak, anche se nessuno può ancora dire quale fazione interna riuscirà ad avere la meglio sulle altre e, di conseguenza, quali saranno le priorità del movimento. Il pensiero dei Fratelli musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie.

    Un’utile scusa
    Difficilmente gli Stati Uniti e l’Europa, e meno che mai Israele, sosterranno il sogno di democrazia e libertà degli egiziani. Considerazioni di tipo strategico e geopolitico stanno già spingendo Washington a sorvegliare attentamente il movimento riformatore, in stretta collaborazione con l’esercito egiziano, che ha assunto un ruolo fondamentale come mediatore.

    Scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli musulmani ha voluto lanciare un segnale: non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare non solo l’occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è cautela.

    Secondo i princìpi democratici, tutte le forze che si oppongono alla violenza e sostengono lo stato di diritto (prima e dopo le elezioni) devono poter partecipare a pieno titolo alla vita politica di un paese. Per questo è necessario che la Fratellanza diventi un partner del processo di cambiamento, e lo diventerà, se in Egitto si stabilirà un minimo di democrazia (anche se le vere intenzioni delle potenze straniere sono ancora un’incognita).

    La repressione e la tortura del regime di Mubarak non sono riuscite ad annientare la Fratellanza. Invece il dibattito democratico e lo scambio di idee sono riusciti ad ammorbidire le tesi islamiste più radicali e problematiche. Solo confrontando le varie opinioni, e non attraverso la tortura e la dittatura, sarà possibile trovare soluzioni che rispettino la volontà del popolo. Per questo bisognerebbe osservare con attenzione l’esempio della Turchia.

    L’occidente continua a nascondersi dietro la “minaccia islamista” per giustificare la sua passività o il sostegno alle dittature. Mentre aumentavano le proteste contro Mubarak, il governo israeliano ha più volte chiesto a Washington di appoggiare il regime del Cairo. L’Europa, invece, ha assunto un atteggiamento attendista. Entrambi i comportamenti sono significativi: in ultima analisi, le belle parole in difesa dei princìpi democratici passano in secondo piano di fronte alla necessità di difendere gli interessi politici ed economici.

    Ora tutto è possibile
    Invece di sostenere chi rappresenta realmente la volontà popolare, gli Stati Uniti preferiscono i dittatori che gli garantiscono l’accesso al petrolio e permettono a Israele di continuare il suo lento processo di colonizzazione. Citare le dichiarazioni di pericolosi islamisti per giustificare l’indifferenza alle rivendicazioni popolari è miope e illogico. Sia l’amministrazione Bush sia quella Obama hanno perso credibilità in Medio Oriente. Lo stesso vale per l’Europa. Se statunitensi ed europei non rivedranno presto le loro priorità politiche, altre potenze asiatiche e latinoamericane potrebbero presto entrare in gioco stringendo nuove alleanze strategiche.

    L’impatto regionale dell’uscita di scena di Mubarak sarà enorme, ma è impossibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze. Dopo la ribellione dei tunisini e degli egiziani il messaggio politico è chiaro: con una protesta di massa non violenta tutto è possibile, e nessun governo autoritario può considerarsi al riparo. Molti presidenti e sovrani sentono la pressione di questa svolta epocale. I disordini hanno raggiunto l’Algeria, lo Yemen e la Mauritania. E bisognerebbe tenere d’occhio anche Giordania, Siria e Arabia Saudita, i cui governi hanno annunciato riforme per prevenire le manifestazioni popolari. In realtà sono decisioni dettate solo dalla paura.

    I leader di questi paesi sanno di correre lo stesso rischio di Mubarak. Questa instabilità è preoc­cupante e allo stesso tempo estremamente promettente. Il mondo arabo si sta svegliando. Le prospettive di cambiamento sono guardate con speranza dai veri democratici e con preoccupazione da chi è pronto a sacrificare i princìpi democratici ai propri calcoli economici e geostrategici.

    La liberazione dell’Egitto sembra essere solo l’inizio. A chi toccherà dopo? Se i prossimi saranno la Giordania e lo Yemen, seguirà anche l’Arabia Saudita – il cuore del mondo musulmano – e il governo di Ri­yadh si ritroverà senz’altra scelta che progredire verso un sistema politico più aperto. In tutto il mondo, tra i musulmani c’è una massa critica che sostiene questi cambiamenti ed è convinta della necessità di una rivoluzione al centro. In fin dei conti, solo le democrazie in grado di accogliere al loro interno tutte le forze non violente saranno in grado di costruire la pace in Medio Oriente, una pace che rispetti la dignità dei palestinesi.

    Tariq Ramadan è professore di studi islamici all’università di Oxford. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli 2009).

    Traduzione di Giusy Muzzopappa.

    Internazionale,
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    Giubo
    Post: 36.947
    Post: 12.762
    Utente Gold
    00 14/02/2011 19:50
    non è il Muro di Berlino dell'Africa
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    nando85
    Post: 3.685
    Post: 3.217
    Utente Master
    00 14/02/2011 20:52

    Addirittura adesso parlano di sommosse anche in IRAN!
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    Giubo
    Post: 36.951
    Post: 12.765
    Utente Gold
    00 14/02/2011 21:10
    il vento della rivolta poteva virare a ovest...
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    trixam
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    Utente Veteran
    00 15/02/2011 16:38
    Re:
    --letizia22--, 14/02/2011 12.27:

    Egitto
    Chi ha paura dei Fratelli musulmani
    10 febbraio 2011 16.13
    I governi occidentali temono che dopo Mubarak andranno al potere gli islamisti. Ma hanno un’immagine distorta della realtà egiziana, scrive il filosofo Tariq Ramadan sul New Statesman.

    Quando sono cominciate le manifestazioni di massa in Tunisia, chi avrebbe immaginato che il regime di Zine el Abidine Ben Ali sarebbe crollato così rapidamente?

    E chi avrebbe potuto prevedere che subito dopo anche l’Egitto sarebbe stato scosso da una protesta popolare senza precedenti? È crollato un muro e niente sarà più come prima. È molto probabile che, considerata l’importanza simbolica dell’Egitto, altri pae­si seguiranno il suo esempio. Ma quale ruolo giocheranno gli islamisti dopo la caduta di queste dittature?

    Per decenni l’occidente ha usato la presenza degli islamisti come scusa per appoggiare le peggiori dittature del mondo arabo. A loro volta, questi regimi hanno demonizzato gli oppositori islamisti, in particolar modo i Fratelli musulmani egiziani, che storicamente sono il primo movimento di massa ben organizzato in grado di esercitare anche un’influenza politica.

    Da più di sessant’anni la Fratellanza è fuorilegge ma viene tollerata. Ha dimostrato una capacità straordinaria di mobilitare la popolazione ogni volta che ha potuto partecipare a un’elezione relativamente democratica per scegliere i vertici dei sindacati e delle associazioni professionali, gli amministratori locali o i parlamentari. Perciò, viene spontaneo chiedersi se i Fratelli musulmani siano una forza in ascesa in Egitto e cosa possiamo aspettarci da questa organizzazione.

    In occidente ci siamo abituati alle analisi superficiali del fenomeno dell’islam politico in generale e sul movimento dei Fratelli musulmani in particolare. L’islamismo, però, è un mosaico di tendenze e gruppi diversi tra loro, le cui numerose sfaccettature sono emerse nel corso del tempo e in risposta a determinati cambiamenti storici.

    Un po’ di storia
    I Fratelli musulmani sono nati negli anni trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento, che rivendicava la legittimità della resistenza armata all’espansionismo sionista in Palestina. I testi scritti tra il 1930 e il 1945 da Hassan al Banna mostrano che il fondatore della Fratellanza si opponeva al colonialismo e criticava i governi fascisti in Germania e in Italia. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava legittimo in Palestina come forma di resistenza ai gruppi terroristi sionisti Stern e Irgun. Era inoltre convinto che il modello più vicino ai princìpi islamici fosse quello parlamentare britannico.

    L’obiettivo di Al Banna era fondare uno “stato islamico” attraverso un processo graduale di riforme, puntando sulla scuola e i programmi sociali. Ma fu ucciso nel 1949 da alcuni emissari del governo egiziano, su ordine della Gran Bretagna. Dopo l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser nel 1952, la Fratellanza subì una violenta repressione, che fece emergere alcune tendenze. Dopo l’esperienza del carcere e delle torture, alcuni affiliati (che in un secondo tempo abbandonarono il movimento) si spinsero verso posizioni radicali e si convinsero che lo stato doveva essere rovesciato a tutti i costi, anche con la violenza. Altri rimasero fedeli all’idea di un riformismo graduale.

    Molti militanti furono costretti ad andare in esilio: alcuni finirono in Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia fondata sull’interpretazione letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, paesi a maggioranza musulmana dove coesistevano comunità diverse. Altri ancora si stabilirono in occidente, dove entrarono in contatto con la tradizione europea di libertà democratiche.

    Oggi nel movimento dei Fratelli musulmani convivono tutti questi diversi punti di vista, anche se la leadership, ormai molto anziana, non riflette le aspirazioni dei giovani, che sono più aperti al resto del mondo, hanno voglia di riformare l’organizzazione e sono affascinati dall’esempio della Turchia. Dietro un’immagine unitaria e fortemente gerarchica si agitano influenze contraddittorie. E nessuno sa ancora quale prevarrà.

    I Fratelli musulmani non sono alla testa della rivolta contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, che è animata invece da giovani donne e uomini stanchi della dittatura. I Fratelli musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione, così come non la rappresentano gli islamisti. Senza dubbio, sperano di partecipare alla transizione democratica dopo l’uscita di scena di Mubarak, anche se nessuno può ancora dire quale fazione interna riuscirà ad avere la meglio sulle altre e, di conseguenza, quali saranno le priorità del movimento. Il pensiero dei Fratelli musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie.

    Un’utile scusa
    Difficilmente gli Stati Uniti e l’Europa, e meno che mai Israele, sosterranno il sogno di democrazia e libertà degli egiziani. Considerazioni di tipo strategico e geopolitico stanno già spingendo Washington a sorvegliare attentamente il movimento riformatore, in stretta collaborazione con l’esercito egiziano, che ha assunto un ruolo fondamentale come mediatore.

    Scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli musulmani ha voluto lanciare un segnale: non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare non solo l’occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è cautela.

    Secondo i princìpi democratici, tutte le forze che si oppongono alla violenza e sostengono lo stato di diritto (prima e dopo le elezioni) devono poter partecipare a pieno titolo alla vita politica di un paese. Per questo è necessario che la Fratellanza diventi un partner del processo di cambiamento, e lo diventerà, se in Egitto si stabilirà un minimo di democrazia (anche se le vere intenzioni delle potenze straniere sono ancora un’incognita).

    La repressione e la tortura del regime di Mubarak non sono riuscite ad annientare la Fratellanza. Invece il dibattito democratico e lo scambio di idee sono riusciti ad ammorbidire le tesi islamiste più radicali e problematiche. Solo confrontando le varie opinioni, e non attraverso la tortura e la dittatura, sarà possibile trovare soluzioni che rispettino la volontà del popolo. Per questo bisognerebbe osservare con attenzione l’esempio della Turchia.

    L’occidente continua a nascondersi dietro la “minaccia islamista” per giustificare la sua passività o il sostegno alle dittature. Mentre aumentavano le proteste contro Mubarak, il governo israeliano ha più volte chiesto a Washington di appoggiare il regime del Cairo. L’Europa, invece, ha assunto un atteggiamento attendista. Entrambi i comportamenti sono significativi: in ultima analisi, le belle parole in difesa dei princìpi democratici passano in secondo piano di fronte alla necessità di difendere gli interessi politici ed economici.

    Ora tutto è possibile
    Invece di sostenere chi rappresenta realmente la volontà popolare, gli Stati Uniti preferiscono i dittatori che gli garantiscono l’accesso al petrolio e permettono a Israele di continuare il suo lento processo di colonizzazione. Citare le dichiarazioni di pericolosi islamisti per giustificare l’indifferenza alle rivendicazioni popolari è miope e illogico. Sia l’amministrazione Bush sia quella Obama hanno perso credibilità in Medio Oriente. Lo stesso vale per l’Europa. Se statunitensi ed europei non rivedranno presto le loro priorità politiche, altre potenze asiatiche e latinoamericane potrebbero presto entrare in gioco stringendo nuove alleanze strategiche.

    L’impatto regionale dell’uscita di scena di Mubarak sarà enorme, ma è impossibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze. Dopo la ribellione dei tunisini e degli egiziani il messaggio politico è chiaro: con una protesta di massa non violenta tutto è possibile, e nessun governo autoritario può considerarsi al riparo. Molti presidenti e sovrani sentono la pressione di questa svolta epocale. I disordini hanno raggiunto l’Algeria, lo Yemen e la Mauritania. E bisognerebbe tenere d’occhio anche Giordania, Siria e Arabia Saudita, i cui governi hanno annunciato riforme per prevenire le manifestazioni popolari. In realtà sono decisioni dettate solo dalla paura.

    I leader di questi paesi sanno di correre lo stesso rischio di Mubarak. Questa instabilità è preoc­cupante e allo stesso tempo estremamente promettente. Il mondo arabo si sta svegliando. Le prospettive di cambiamento sono guardate con speranza dai veri democratici e con preoccupazione da chi è pronto a sacrificare i princìpi democratici ai propri calcoli economici e geostrategici.

    La liberazione dell’Egitto sembra essere solo l’inizio. A chi toccherà dopo? Se i prossimi saranno la Giordania e lo Yemen, seguirà anche l’Arabia Saudita – il cuore del mondo musulmano – e il governo di Ri­yadh si ritroverà senz’altra scelta che progredire verso un sistema politico più aperto. In tutto il mondo, tra i musulmani c’è una massa critica che sostiene questi cambiamenti ed è convinta della necessità di una rivoluzione al centro. In fin dei conti, solo le democrazie in grado di accogliere al loro interno tutte le forze non violente saranno in grado di costruire la pace in Medio Oriente, una pace che rispetti la dignità dei palestinesi.

    Tariq Ramadan è professore di studi islamici all’università di Oxford. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli 2009).

    Traduzione di Giusy Muzzopappa.

    Internazionale,




    Certe cose proprio non si possono sentire. Ricordo solo per inciso che Tariq Ramadan è il figlio di Said, che fu leader dei fratelli musulmani oltre che un aperto simpatizzante del nazismo, uno degli uomini che organizzarono l'attentato a sadat.
    Si perchè nella piccola cronistoria si è dimenticato di dire che la fratellanza ha ucciso il presidente che ha firmato il trattato di pace con israele. Aggiungo solo per inciso che è un sostenitore della sharia. Quindi quello che dice va filtrato per bene.

    I fratelli musulmani forse sono meno pericolosi di quanto ce li hanno descritti, ma fino a quando?
    Qui non ci si rende conto che l'incubo di una guerra convenzionale in medioriente è tornato di drammatica attulità.
    Questo è il pericolo da cui sfuggire, ma di certo non con i consigli di ramadan.
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