Egitto
Chi ha paura dei Fratelli musulmani
10 febbraio 2011 16.13
I governi occidentali temono che dopo Mubarak andranno al potere gli islamisti. Ma hanno un’immagine distorta della realtà egiziana, scrive il filosofo Tariq Ramadan sul New Statesman.
Quando sono cominciate le manifestazioni di massa in Tunisia, chi avrebbe immaginato che il regime di Zine el Abidine Ben Ali sarebbe crollato così rapidamente?
E chi avrebbe potuto prevedere che subito dopo anche l’Egitto sarebbe stato scosso da una protesta popolare senza precedenti? È crollato un muro e niente sarà più come prima. È molto probabile che, considerata l’importanza simbolica dell’Egitto, altri paesi seguiranno il suo esempio. Ma quale ruolo giocheranno gli islamisti dopo la caduta di queste dittature?
Per decenni l’occidente ha usato la presenza degli islamisti come scusa per appoggiare le peggiori dittature del mondo arabo. A loro volta, questi regimi hanno demonizzato gli oppositori islamisti, in particolar modo i Fratelli musulmani egiziani, che storicamente sono il primo movimento di massa ben organizzato in grado di esercitare anche un’influenza politica.
Da più di sessant’anni la Fratellanza è fuorilegge ma viene tollerata. Ha dimostrato una capacità straordinaria di mobilitare la popolazione ogni volta che ha potuto partecipare a un’elezione relativamente democratica per scegliere i vertici dei sindacati e delle associazioni professionali, gli amministratori locali o i parlamentari. Perciò, viene spontaneo chiedersi se i Fratelli musulmani siano una forza in ascesa in Egitto e cosa possiamo aspettarci da questa organizzazione.
In occidente ci siamo abituati alle analisi superficiali del fenomeno dell’islam politico in generale e sul movimento dei Fratelli musulmani in particolare. L’islamismo, però, è un mosaico di tendenze e gruppi diversi tra loro, le cui numerose sfaccettature sono emerse nel corso del tempo e in risposta a determinati cambiamenti storici.
Un po’ di storia
I Fratelli musulmani sono nati negli anni trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento, che rivendicava la legittimità della resistenza armata all’espansionismo sionista in Palestina. I testi scritti tra il 1930 e il 1945 da Hassan al Banna mostrano che il fondatore della Fratellanza si opponeva al colonialismo e criticava i governi fascisti in Germania e in Italia. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava legittimo in Palestina come forma di resistenza ai gruppi terroristi sionisti Stern e Irgun. Era inoltre convinto che il modello più vicino ai princìpi islamici fosse quello parlamentare britannico.
L’obiettivo di Al Banna era fondare uno “stato islamico” attraverso un processo graduale di riforme, puntando sulla scuola e i programmi sociali. Ma fu ucciso nel 1949 da alcuni emissari del governo egiziano, su ordine della Gran Bretagna. Dopo l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser nel 1952, la Fratellanza subì una violenta repressione, che fece emergere alcune tendenze. Dopo l’esperienza del carcere e delle torture, alcuni affiliati (che in un secondo tempo abbandonarono il movimento) si spinsero verso posizioni radicali e si convinsero che lo stato doveva essere rovesciato a tutti i costi, anche con la violenza. Altri rimasero fedeli all’idea di un riformismo graduale.
Molti militanti furono costretti ad andare in esilio: alcuni finirono in Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia fondata sull’interpretazione letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, paesi a maggioranza musulmana dove coesistevano comunità diverse. Altri ancora si stabilirono in occidente, dove entrarono in contatto con la tradizione europea di libertà democratiche.
Oggi nel movimento dei Fratelli musulmani convivono tutti questi diversi punti di vista, anche se la leadership, ormai molto anziana, non riflette le aspirazioni dei giovani, che sono più aperti al resto del mondo, hanno voglia di riformare l’organizzazione e sono affascinati dall’esempio della Turchia. Dietro un’immagine unitaria e fortemente gerarchica si agitano influenze contraddittorie. E nessuno sa ancora quale prevarrà.
I Fratelli musulmani non sono alla testa della rivolta contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, che è animata invece da giovani donne e uomini stanchi della dittatura. I Fratelli musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione, così come non la rappresentano gli islamisti. Senza dubbio, sperano di partecipare alla transizione democratica dopo l’uscita di scena di Mubarak, anche se nessuno può ancora dire quale fazione interna riuscirà ad avere la meglio sulle altre e, di conseguenza, quali saranno le priorità del movimento. Il pensiero dei Fratelli musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie.
Un’utile scusa
Difficilmente gli Stati Uniti e l’Europa, e meno che mai Israele, sosterranno il sogno di democrazia e libertà degli egiziani. Considerazioni di tipo strategico e geopolitico stanno già spingendo Washington a sorvegliare attentamente il movimento riformatore, in stretta collaborazione con l’esercito egiziano, che ha assunto un ruolo fondamentale come mediatore.
Scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli musulmani ha voluto lanciare un segnale: non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare non solo l’occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è cautela.
Secondo i princìpi democratici, tutte le forze che si oppongono alla violenza e sostengono lo stato di diritto (prima e dopo le elezioni) devono poter partecipare a pieno titolo alla vita politica di un paese. Per questo è necessario che la Fratellanza diventi un partner del processo di cambiamento, e lo diventerà, se in Egitto si stabilirà un minimo di democrazia (anche se le vere intenzioni delle potenze straniere sono ancora un’incognita).
La repressione e la tortura del regime di Mubarak non sono riuscite ad annientare la Fratellanza. Invece il dibattito democratico e lo scambio di idee sono riusciti ad ammorbidire le tesi islamiste più radicali e problematiche. Solo confrontando le varie opinioni, e non attraverso la tortura e la dittatura, sarà possibile trovare soluzioni che rispettino la volontà del popolo. Per questo bisognerebbe osservare con attenzione l’esempio della Turchia.
L’occidente continua a nascondersi dietro la “minaccia islamista” per giustificare la sua passività o il sostegno alle dittature. Mentre aumentavano le proteste contro Mubarak, il governo israeliano ha più volte chiesto a Washington di appoggiare il regime del Cairo. L’Europa, invece, ha assunto un atteggiamento attendista. Entrambi i comportamenti sono significativi: in ultima analisi, le belle parole in difesa dei princìpi democratici passano in secondo piano di fronte alla necessità di difendere gli interessi politici ed economici.
Ora tutto è possibile
Invece di sostenere chi rappresenta realmente la volontà popolare, gli Stati Uniti preferiscono i dittatori che gli garantiscono l’accesso al petrolio e permettono a Israele di continuare il suo lento processo di colonizzazione. Citare le dichiarazioni di pericolosi islamisti per giustificare l’indifferenza alle rivendicazioni popolari è miope e illogico. Sia l’amministrazione Bush sia quella Obama hanno perso credibilità in Medio Oriente. Lo stesso vale per l’Europa. Se statunitensi ed europei non rivedranno presto le loro priorità politiche, altre potenze asiatiche e latinoamericane potrebbero presto entrare in gioco stringendo nuove alleanze strategiche.
L’impatto regionale dell’uscita di scena di Mubarak sarà enorme, ma è impossibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze. Dopo la ribellione dei tunisini e degli egiziani il messaggio politico è chiaro: con una protesta di massa non violenta tutto è possibile, e nessun governo autoritario può considerarsi al riparo. Molti presidenti e sovrani sentono la pressione di questa svolta epocale. I disordini hanno raggiunto l’Algeria, lo Yemen e la Mauritania. E bisognerebbe tenere d’occhio anche Giordania, Siria e Arabia Saudita, i cui governi hanno annunciato riforme per prevenire le manifestazioni popolari. In realtà sono decisioni dettate solo dalla paura.
I leader di questi paesi sanno di correre lo stesso rischio di Mubarak. Questa instabilità è preoccupante e allo stesso tempo estremamente promettente. Il mondo arabo si sta svegliando. Le prospettive di cambiamento sono guardate con speranza dai veri democratici e con preoccupazione da chi è pronto a sacrificare i princìpi democratici ai propri calcoli economici e geostrategici.
La liberazione dell’Egitto sembra essere solo l’inizio. A chi toccherà dopo? Se i prossimi saranno la Giordania e lo Yemen, seguirà anche l’Arabia Saudita – il cuore del mondo musulmano – e il governo di Riyadh si ritroverà senz’altra scelta che progredire verso un sistema politico più aperto. In tutto il mondo, tra i musulmani c’è una massa critica che sostiene questi cambiamenti ed è convinta della necessità di una rivoluzione al centro. In fin dei conti, solo le democrazie in grado di accogliere al loro interno tutte le forze non violente saranno in grado di costruire la pace in Medio Oriente, una pace che rispetti la dignità dei palestinesi.
Tariq Ramadan è professore di studi islamici all’università di Oxford. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli 2009).
Traduzione di Giusy Muzzopappa.
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