Dalla morte cerebrale alla donazione di organi.
Uno dei fattori che limita la diffusione della donazione è una perdurante ignoranza e confusione sull’incontestabile certezza che ne è alla base: l’avvenuta morte del “donatore”. La morte è più facilmente comprensibile se è chiaro che cosa è la vita. Il corpo umano è un insieme di organi e apparati che svolgono funzioni complementari unificate da un sofisticato sistema di controllo. Solo così è permessa quella condizione di autonomia che definiamo “vita”. L’organo chiave per il mantenimento dell’unitarietà funzionale corporea è il sistema nervoso centrale, di cui l’encefalo è la sede delle funzioni più elevate (cognitive, di coscienza, sensoriali e mnesiche), mentre che nel tronco dell’encefalo, serie di strutture anatomiche che uniscono l’encefalo al midollo spinale risiedono le funzioni di controllo della vita vegetativa (attività respiratoria e cardiocircolatoria in specie).
La perdita irreversibile e completa della funzionalità dell’encefalo e del tronco equivale alla cessazione definitiva delle funzioni di coscienza e psichiche e della regolazione degli organi extracranici (cuore, circolo, respirazione, metabolismo) che permettono la “vita”, e coincide perciò colla “morte”.
La morte, in realtà, non è un evento istantaneo, bensì un processo che si innesca (irreversibilmente) con la perdita delle funzioni dell’encefalo e del tronco. Questa può derivare da una lesione primaria del sistema nervoso centrale oppure dalla sua distruzione per cessazione dei processi che ne sostengono il funzionamento e la vitalità. Il tessuto nervoso ha una straordinaria sensibilità agli eventi lesivi (in specie alla riduzione del flusso ematico e alla carenza di apporto di ossigeno e di substrati metabolici) e le sue cellule, a differenza della più parte delle cellule del corpo, non possiedono le capacità biologiche di rigenerarsi e di ripararsi qualora danneggiate.
Il modo di “morire” a cui l’umanità è storicamente adusa è rappresentato dalla morte che segue all’arresto della circolazione e della respirazione. In questo caso la cessazione delle funzioni cerebrali è inapparente, perché è preceduta (di poco) da vistosi eventi di morte: arresto cardiaco, blocco della respirazione, emorragia ed anemia). Questa situazione è stata a lungo definita con il termine di “morte cardiaca”. D'altronde una lesione diretta dell’encefalo può distruggere talmente tessuto nervoso o degenerare la sua perfusione ematica al punto da causarne la morte, dapprima biologica e poi anatomica: l’organismo muore (il cuore si ferma …) perché è “morto” il cervello. Qualora l’attività cardiaca e la circolazione ematica vengano mantenute artificialmente gli organi extracranici restano momentaneamente vitali, in quanto continuano a ricevere i necessari nutrimenti. La condizione non è peraltro duratura poichè la mancanza di coordinamento cerebrale ne causa il danno progressivo ed inevitabile. E’ questa la condizione definita di “morte cerebrale”. Il fenomeno del morire è però sempre uno solo ed uno solo è sempre il momento della morte. Si è solo modificata la capacità di rilevarla e di accertarla. Il concetto di “morte cerebrale” è più facilmente comprensibile se lo si intende come “morte accertata con criteri neurologici. Morte, comunque in tutto e per tutto, anche se, per particolarissime condizioni di supporto medico, il cuore “ancora” batte e il torace si solleva mosso dalla respirazione artificiale.
Perché abbia successo, il trapianto esige che l’organo da trapiantare sia biologicamente ben funzionante, e pertanto normalmente perfuso sino al momento del suo prelievo dal cadavere. Organi in tale stato sono reperibili in soggetti in cui la funzione encefalica sia totalmente ed irreversibilmente persa, ma la cui attività cardiopolmonare sia mantenuta artificialmente presente. Ciò accade in pazienti sottoposti a manovre rianimatorie in cui un evento patologico abbia determinato la necrosi dell’encefalo e del tronco cerebrale, senza che si sia potuta verificare la conseguente cessazione delle funzioni degli organi extracranici a causa del trattamento rianimatorio. Il rilievo di una serie di segni e risposte ad esami clinico-strumentali permette di diagnosticare con assoluta certezza la morte dell’individuo, e obbliga alla sospensione della ventilazione meccanica e di ogni altro trattamento. La cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo e del tronco encefalico (morte encefalica) sono documentate da: stato di coma (incoscienza ed areattività); assenza di riflessi del tronco encefalico (nervi cranici); assenza dell’attività bioelettrica cerebrale (elettroencefalogramma cosiddetto piatto); apnea (assenza di respirazione spontanea al distacco dal ventilatore polmonare).Il cuore di questo cadavere non più sorretto da farmaci e dagli strumenti smette di battere.
L’obbligo di queste modalità di accertamento è supportato da alcune esigenze eticamente rilevanti: garantire la dignità della morte; non riservare trattamenti sanitari ad un cadavere; evitare sprechi inutili di risorse ed oneri economici; assicurare trattamenti sanitari adeguati a pazienti che possono giovarsene; permettere (peraltro non necessariamente) il prelievo di organi che possano essere trapiantati.
Dal momento dell’accertamento clinico della morte, il medico curante è tenuto ad una serie di obblighi di legge, consistenti nella segnalazione del caso alla Direzione Sanitaria dell’Ospedale, che convoca un’apposita Commissione composta da tre specialisti (rianimatore, neurologo, medico legale), i quali debbono procedere a tre controlli in un prestabilito arco di tempo (tre ore nell’adulto, dodici nel bambino tra 1 e 5 anni, ventiquattro nel bambino di età inferiore ad un anno) e che all’unanimità debbono certificare il permanere delle condizioni accertate al momento della morte.
In questo periodo di accertamento vengono continuate le “cure” tese al non facile mantenimento di una funzione biologica ottimale degli organi donabili, che, nonostante la perfusione, tendono al decadimento organico.
E’ in questa fase che, comunicato ai parenti il decesso, entra in gioco il problema del consenso alla donazione. La scelta fra il sì ed il no è regolata dalla Legge 91/99, cosiddetta del “silenzio/assenso” (acconsente anche chi non risponde a richieste ripetute). Tuttavia, in attesa della complessa registrazione centralizzata delle scelte, resta valido il principio del consenso o dissenso esplicito. Possono verificarsi tre casi. Se il soggetto ha espresso in vita documentata volontà negativa, non c’è prelievo di organi. Se ha espresso volontà positiva, i parenti non possono opporsi. Se non si è espresso, per il prelievo è necessario il consenso dei parenti.
In conclusione, mi sembra si debba constatare che la pratica del trapianto coinvolge centinaia di persone in un’organizzazione capillare che per la sua stessa complessità esclude patteggiamenti e compromessi, è ampiamente documentata e segue regole ben precise di trasparenza, gratuità, rispetto del donatore,ed equità per chi si gioverà dei trapianti.
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