Valutazioni Anvur della ricerca scientifica 2004 - 2010

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(pollastro)
00mercoledì 17 luglio 2013 17:25
Reso noto il rapporto
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Sono stati appena pubblicati sul sito Anvur i risultati della valutazione della ricerca scientifica nelle università italiane per il periodo indicato in epigrafe, effettuati - per conto dell'indicata Agenzia (governativa) nazionale di valutazione della ricerca (in sigla, appunto, Anvur) - da parte di valutatori anonimi col sistema (per Giurisprudenza) double blind , o " a doppio cieco": ogni "prodotto" (cioè scritto da valutare) è stato giudicato in forma anonima da due soggetti diversi. Trattandosi di scritti già pubblicati, in questo caso non erano anonimi gli autori (mentre - per quelli attuali e così in futuro - l'anonimato riguarda anche gli autori e il giudizio è anteriore alla pubblicazione e il suo esito positivo è condizione essenziale di questa).
Per il diritto, l'area interessata è contrassegnata col numero 12. Tra rapporto, appendici, tabelle, si tratta di circa 500 pagine, Ho stampato il tutto e (finito il lavoro) renderò analiticamente conto qui dei risultati che ne ho tratto e della motivazione del mio fiudizio, per orientamento degli utenti, derivandosene anche un giudizio sulle singole Facoltà dell'epoca (oggi Dipartimenti). Non sarà per la mole dei materiali uno studio breve, lo farò quindi nel mese di agosto. Mi riservo di farmi leggere in merito a settembre
Raffaele_23
00giovedì 18 luglio 2013 16:08
corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2013/18-luglio-2013/massimo-marrelli-flop-federico-ii-brutti-risultati-troppi-inattivi-22222223407...

corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/scuola/2013/18-luglio-2013/federico-ii-bocciata-matematica-architettura-psicologia-legge-22222221445...


Penso che almeno questo possa servire a tutti coloro (studenti e docenti) che inneggiano ai presunti fasti della Federico II rispetto ad altre Facoltà, campane e non. Per quanto riguarda la nostra Facoltà, filtrata attraverso la mia esperienza personale, senza alcuna velleità statistica, ho visto:
1. Professori di alto livello la cui ultima pubblicazione risaliva al Medioevo e che occupano il tempo in relazioni politicanti e/o divertissement.
2. Professori (soprattutto ricercatori) bravissimi, didatticamente coinvolgenti, aggiornati all'uso delle nuove tecnologie e con tantissime pubblicazioni.
3. Ricercatori (spesso divenuti professori) adibiti a galoppini e con ignoranze talmente gravi da palesarsi anche agli studenti.

Ma poi la cosa più divertente è che se fai notare all'Accademia la maggiore libertà di cui gode rispetto agli altri pubblici dipendenti quanto a carichi e ritmi di lavoro, ti risponde che è imprescindibile che sia così, perchè fare ricerca mica è come rilasciare un timbro in Comune. Io penso che il problema sia una grave disorganizzazione in modo efficiente di spazi, risorse e tempo.
connormaclaud
00giovedì 18 luglio 2013 18:29
Voglio essere egoista,questo schiaffo avrà,in primis, ripercussioni sugli studenti?
Ufficialmente non dovrebbero esserci,ma non vorrei che queste pulizie di pasqua si facesserono con la pelle degli studenti.
(pollastro)
00giovedì 18 luglio 2013 20:11
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Non ho evitato un immediato giudizio severo per eludere un nodo, tant'è che sono depresso anch'io per questi risultati, nei quali non riconosco il mio lavoro personale (sottolineo come si vede le ultime quattro parole). Ho chiesto tempo per non esprimermi su prime impressioni e notizie di stampa, ma - come promesso - vi fornirò un mio giudizio analitico e motivato (beninteso per ciò su cui penso di essere competente a pronunciarmi, cioè Giurisprudenza) dopo lo studio attento di un ponderoso rapporto con dati, appendici e tabelle. Prima documentarsi, poi riflettere, indi - ed infine - parlare o scrivere: questa è semplicemente la mia linea su ogni problema serio
luana.1990
00giovedì 18 luglio 2013 20:20
Alcuni professori sono molto preparati e capaci ad insegnare, altri sono preparati ma non sono portati per fare gli insegnanti, cioè per trasmettere sapere. Altri, non sono preparati, soprattutto tra gli assistenti, alcuni sono autorizzati a fare esami, quando fino a poco fa erano semplici studenti, solo per conoscenza.
Altra cosa negativa, e' l'educazione che spesso quando fai un esame non ti viene riconosciuta, generalmente professori e assistenti mentre ti esaminano, usano telefonini, civettano tra loro, et similia.
L'aspetto amministrativo pure lascia a desiderare. Lascia a desiderare l'organizzazione dei dipartimenti e la troppa libertà di cui godono i professori nell'organizzarsi per i ricevimenti.
I difetti sono davvero moltissimi. Scarsa professionalità, abusi, privilegi, e poca considerazione e poca passione per l'aspetto formativo.
(pollastro)
00giovedì 18 luglio 2013 20:36
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Concordo completamente con Luana, ma preciso che la valutazione alla quale ci stiamo ora riferendo era quella della sola attività scientifica delle università italiane nel periodo 2004 - 2010. Ad Ad essa limiterò pertanto la mia analisi del rapporto.
Se dovessimo allargarci anche alla valutazione della qualità e dell'efficacia didattica e dei servizi, nonché dell'impatto sociale delle università (quelle meridionali hanno - secondo la mia impressione - funzionato troppo spesso da ammortizzatori sociali, cioè da luoghi ai quali ci si iscriveva e nei quali si restava per avere un formale status di studente universitario, senza tuttavia procurarsi ed esigere preparazione di qualità, tanto si prendeva atto che il mercato del lavoro respingeva comunque), ho la sensazione che la classifica della Federico II peggiorerebbe ancora, salvo che per taluni corsi di carattere tecnico ed iperspecialistico, di eccellenza. Ripeto però che su questi aspetti ulteriori non mi risultano aperte indagini basate su indicatori oggettivi e dunque mi limiterò ad esaminare e a discutere i dati del rapporto finale citato

GiuristaCorsaro
00giovedì 18 luglio 2013 21:26
UNIVERSITA’
Ricerca, Salerno e Sun superano la Federico II
L'ateneo napoletano non accederà al fondo-premio Vanno bene Sun e Suor Orsola, male la Parthenope

NAPOLI — «Bocciata» in Matematica, in Architettura, in Ingegneria civile, in Scienze dell'antichità, in Scienze psicologiche, in Scienze giuridiche. Il verdetto dell'Anvur, l'Agenzia nazionale di valutazione, sulla qualità della ricerca prodotta dalla Federico II nel periodo compreso tra il 2004 e il 2010 è impietoso. Tanto da far infuriare il rettore Massimo Marrelli (intervista a pagina 3), che però non se la prende con l'Anvur, né con il ministero, ma con i propri colleghi inattivi, quelli che non fanno ricerca e non pubblicano. Le attese erano di tre pubblicazioni per ogni ricercatore in sette anni. Ma molti non hanno pubblicato alcunché e così hanno determinato una penalizzazione (di mezzo punto per ogni studio mancato) ai danni dell'ateneo. Sta di fatto che la più antica e prestigiosa università di Napoli, della Campania e dell'intero Mezzogiorno risulta solo ventottesima tra i trentadue grandi atenei italiani, lontanissima da Padova e Milano Bicocca, che guidano la graduatoria, con grandissimo disappunto del rettore Marrelli. Certo, dai dati emergono anche primati nazionali dell'Università di Napoli nei singoli settori, come quello di Farmacia, ma il risultato brucia. E brucia ancora di più perché molto meglio si sono classificati gli altri due grandi atenei campani: la Seconda Università di Napoli e Caserta (Sun) al diciottesimo posto, Salerno al diciannovesimo. Una bella soddisfazione per i rettori, Francesco Rossi e Raimondo Pasquino. Di quest'ultimo, proprio ieri è stato eletto il successore Aurelio Tommasetti (articolo a lato). La Federico II non avrà accesso al fondo di premialità, mentre potrebbero farcela Sun e Università di Salerno. Quest'ultimo ateneo ha conquistato anche alcuni «record» nazionali, risultando prima nell'Informatica e nella Fisica.

LE MEDIE - Passando alle medie università, i risultati campani appaiono ancora più controversi. Mentre l'Ateneo del Sannio conquista la decima posizione (prima è Trento) e aspira quindi a ottenere il fondo-premio, L'Orientale è dieci gradini più giù, ventesima; la Parthenope addirittura ventinovesima, davanti a Urbino, fanalino di coda. Eppure proprio la Parthenope ottiene un buon risultato per le strutture nelle Scienze mediche e, tra i dipartimenti, con Ingegneria. Molto meglio va l'Università del Sannio, che primeggia nell'area di Ingegneria civile e architettura, anche nella graduatoria dei dipartimenti. Dove ben figura Ingegneria industriale e dell'informazione. A Benevento il primo posto campano e il decimo nazionale su trenta medie università sono motivo di grande soddisfazione, anche se non viene sottovalutata la necessità di analizzare con attenzione le criticità, in particolare quella di Economia. Ricorrendo al gergo calcistico, risulta invece un po' anonima la prestazione dell'Orientale.

LE PICCOLE - Tra le piccole università, buoni i risultati dell'unica campana: il Suor Orsola Benincasa si è classificata ottava su venticinque atenei sottoposti a verifica dall'Anvur. «I dati sono un segno evidente di un progresso formidabile del Suor Orsola negli ultimi anni — commenta il rettore Lucio d'Alessandro — reso possibile dalla grande attenzione alla ricerca, da una spiccata vocazione alla cooperazione internazionale e dalla scelta di inserire nell'ateneo ricercatori giovani e preparati. In particolare è fortemente lusinghiero il riconoscimento della presenza di due grandi settori di eccellenza a livello nazionale come la piscologia e la giurisprudenza, tra i pochi risultati positivi del Mezzogiorno. Risultati importanti che ci rendono soddisfatti ma non certo sazi e ci stimolano ad impegnarci e migliorarci ancor più». Luci e ombre, insomma, nella ricerca campana. Ma nessuno dei rappresentanti delle sette università campane ha tirato in ballo la polemica sulla mancanza di accademici del Sud fra i nominati all'Anvur dall'allora ministro Profumo. Evidentemente ha ragione Marrelli: il problema della (mancata) ricerca devono risolverlo gli atenei.


Angelo Lomonaco
18 luglio 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/salerno/notizie/cronaca/2013/18-luglio-2013/ricerca-salerno-sun-superano-federico-ii-2222221637658.shtml
GiuristaCorsaro
00giovedì 18 luglio 2013 21:35
Marrelli sull'università:
"240 carriere da bloccare"
Il rettore della Federico II. "Siamo al 28esimo posto in Italia per qualità della ricerca, colpa di ricercatori e docenti fannulloni. Ma ne pagheranno le conseguenze, toglierò loro ogni risorsa"

di BIANCA DE FAZIO

"TUTTA colpa di 240 persone che si girano i pollici. Che non fanno nulla. 240 tra ricercatori e professori che gettano palate di fango sul prestigio di quest'ateneo, che fanno crollare il valore della Federico II e penalizzano i colleghi che invece si fanno in quattro. Ma prenderò provvedimenti. Sappiano, gli scansafatiche, che taglieremo loro ogni risorsa e bloccheremo le loro carriere ". Il rettore dell'ateneo Federico II, Massimo Marrelli, ha il sangue agli occhi. "Non sono arrabbiato. Sono furioso. Il danno provocato all'ateneo dai cosiddetti "inattivi" è enorme. Ed in quanto responsabile culturale di questa università non sono disposto a passarci
sopra".

Chi sono gli "inattivi"? Ormai ne conoscete nome e cognome.
"Gli inattivi sono i ricercatori ed i docenti che non hanno pubblicato lavori. Che non hanno, insomma, fatto ricerca. Ognuno ci costa un punto e mezzo nella valutazione dell'Anvur. Dunque partiamo con uno svantaggio, per colpa loro, di 360 punti. Impossibile, stando così le cose, ottenere un posizionamento
migliore nel quadro nazionale".

E le spesso sbandierate eccellenze?
"Quelle ci sono. La stessa Anvur conferma che qui la concentrazione di eccellenze è alta. Ma non bastano, i bravi, a colmare il vuoto lasciato da tutti gli altri. Abbiamo 240 zavorre. Praticamente il 10 per cento dei nostri docenti. Troppi, decisamente troppi".

Ma mica cadete dalle nuvole? I dipartimenti sanno perfettamente chi lavora e chi no.
"E da oggi voglio saperlo anche io. Perché l'università paga per tutti loro".

Avete quantificato il danno in termini economici?
"C'è solo una stima, perché il ministro non ha ancora stabilito
come distribuire la quota premiale dei fondi per l'università, quella quota di finanziamento assegnata in base ai risultati dell'Anvur. Ma secondo un primo calcolo perderemo tra i 4 ed i 5 milioni di euro. Mi viene voglia di andare dal ministro e dire "fammeli licenziare" questi che non fanno un piffero".

Invece non si possono licenziare.
"No. Devo tenermi anche le zavorre".

E con 4 o 5 milioni in meno l'università a cosa dovrà rinunciare?
"Ad assumere bravi ricercatori. Ne avrei potuti prendere almeno 55. E senza i giovani e bravi entriamo in un circolo vizioso pericolosissimo: meno finanziamenti equivalgono a meno ricercatori, meno ricercatori significa che la prossima valutazione ci vedrà ulteriormente penalizzati".

Dunque un declino inarrestabile?
"Questo mai. Ma provvedimenti seri sì, contro chi ci mortifica: se un'area è debole, non chiameremo idonei interni. Significa, ad esempio, che se c'è un idoneo a diventare ordinario non lo diventerà. Di più: se un settore, in base a questa indagine, dimostra di non avere le potenzialità per essere "produttivo", quel settore verrà abbandonato, non avrà più risorse. Ancora: se gli interni sono scansafatiche, basta chiamate tra gli interni. Blocchiamo le loro carriere: le poche risorse economiche di cui disponiamo saranno utilizzate solo per persone di levatura internazionale. Se devo chiamare un associato, lo sceglierò da fuori, se quelli che abbiamo qui non valgono la pena. Cambierà la nostra politica di reclutamento dei docenti: li andiamo a cercare all'esterno, li prendiamo da fuori. Ma una cosa la chiederò anche al ministro".

Cosa?
"Chiederò di introdurre un parametro che tenga conto della variazione nella valutazione. Se la prossima valutazione dell'Anvur andrà meglio, credo sia il caso di introdurre un premio".

A proposito dell'Anvur. Nessuna critica da muovere a questo sistema di valutazione?
"Ci sono cose opinabili. Ma l'Anvur ha il merito di aver fotografato la realtà com'è oggi. E di avercela sbattuta in faccia".




(18 luglio 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2013/07/18/news/marrelli_sull_universit_240_carriere_da_bloccare-63229458/
MARTINA.SANNINO83
00venerdì 19 luglio 2013 09:54
Marrelli sembra stia scendendo dalle nuvole. Eppure un giretto a giurisprudenza non gli farebbe male. In un clima di austerity e crisi profonda, in cui si dovrebbero ridurre all'osso gli sprechi vari ed eventuali, ogni semestre escono nuove cattedre(inutili, a mio parere), immettendo ulteriori docenti. Non ha senso. Che bisogno c'è di affidare un "sistemi fiscali" ad un professore ad hoc invece di inglobarlo in finanziario?E' come se al professor prisco togliessero un esame tra istituzioni di diritto pubblico o diritto pubblico comparato e lo affidassero ad altri. Anche qui ci sarebbe da parlare..e non poco.
E incide la qualità dell'insegnamento. Mi duole dirlo, ma i SIGNORI sono davvero pochissimi. Al contrario di ciò che si ritiene comunemente, preferisco la "cattiveria" nell'insegnamento di un prof. come di nanni o i professori di procedura civile, alla boria estrema di un professore di una materia economica che, ancor oggi, nel 2013 si permette di umiliare i suoi studenti, urlando in un'aula strapiena: "Adesso vi dirò i nomi di coloro che hanno fatto un compito pessimo, ASSOLUTAMENTE insufficiente". Ma dove siamo?In quale mondo siamo?Non sarebbe meglio comunicare a ciascuno l'esito del proprio esame o comunicare solo gli ammessi all'orale?
(pollastro)
00sabato 20 luglio 2013 13:55
Dal professore Prisco, che mi prega di postare e sempre riservandosi un commento analitico dei dati quando avrà finito di studiarli. Segnalo un commento del Professore Villone, Di tradizione si può morire, su Repubblica - Napoli di ieri

Non possiamo fare gli offesi, di Salvatore Prisco, Corriere del Mezzogiorno, Campania e Napoli, sabato 20 luglio 2013, pagg. 1 e 5

Sono professore a Giurisprudenza della Federico II e collaboro con questo giornale sin dalla sua fondazione. Sarei un pavido e imbarazzato disertore, se non mi esprimessi - in tale doppia qualità - sui risultati della valutazione della ricerca scientifica per il periodo 2004 - 2010 appena resi noti e che vedono il mio Dipartimento (come ora si chiama) classificato in posizione deludente. Solo di questo si tratta, perché - se la valutazione stessa si estendesse a qualità innovativa ed efficace della didattica e a diffusione ed efficienza dei servizi generali (anche di contesto urbano, in una città assai poco vivibile: il paragone con l’Ateneo di Fisciano è impietoso, a nostro danno) - il giudizio sarebbe ancora più severo.
Eppure tutto si tiene. Gli sforzi di molti docenti (e, se è permesso dirlo, dello scrivente, critico notorio e da anni delle sciatterie professionali dei suoi colleghi, delle pressioni delle famiglie al “pezzo di carta” comunque ottenuto, della bassa qualità dell’impegno di studenti spesso sfiduciati, tanto il futuro - loro pensano - resta la disoccupazione) sono palesi. La Federico II, però, è come un grosso transatlantico lento nelle manovre, onusto di un passato glorioso (spesso citiamo, per consolarci, i presidenti della Repubblica, gli uomini di governo, gli alti magistrati, notai e burocrati sfornati; e altri, bravi, ne produciamo ancora), ma anche “seduto” sulle sue glorie e pochissimo agile, oltreché incapace di “vendersi al meglio”, come fanno strutture consorelle. La tendenza all’ “esamificio” viene combattuta da convegni di qualità, ma gli studenti li frequentano poco, giacché resi dal sistema disperati a caccia di esami con troppi libri da studiare e poche esercitazioni partecipate in aula (modello assai antiquato) e di “crediti” da conseguire. La stessa didattica deve raggiungere un compromesso precario e al ribasso tra teorica raffinatezza - collegata alla ricerca (ma troppi docenti preferiscono lucrosi studi professionali e ricche attività di consulenza esterna) - e necessaria rimasticatura di nozioni di base, se chi frequenta (pochissimi, in percentuale) esibisce vuoti culturali da recuperare in fretta, frutto di pessime scuole pregresse. Si aggiunga che, in una situazione di mercato del lavoro e di mobilità sociale gravemente declinanti, le università meridionali sono state spesso (male) intese come ammortizzatori sociali.
Si miscelino gli ingredienti e si otterrà l’imbevibile pozione attuale, imputabile a molti: anche a politici, famiglie, studenti. Noi docenti siamo peraltro i primi responsabili di un’autonomia universitaria gestita malissimo, intenta a una riproduzione di ceto in cui clientelismo e familismo protetto da localismo esasperato hanno fatto troppo spesso premio sulla ricerca della qualità, che la competizione intellettuale globale invece ci impone, sicché non possiamo giocare allo scaricabarile e fare gli offesi.
Questa fotografia impietosa realisticamente ci riguarda: de te fabula narratur
.pisicchio.
00sabato 20 luglio 2013 14:02
Re:
(pollastro), 20/07/2013 13:55:

Dal professore Prisco, che mi prega di postare e sempre riservandosi un commento analitico dei dati quando avrà finito di studiarli. Segnalo un commento del Professore Villone, Di tradizione si può morire, su Repubblica - Napoli di ieri

Non possiamo fare gli offesi, di Salvatore Prisco, Corriere del Mezzogiorno, Campania e Napoli, sabato 20 luglio 2013, pagg. 1 e 5

Sono professore a Giurisprudenza della Federico II e collaboro con questo giornale sin dalla sua fondazione. Sarei un pavido e imbarazzato disertore, se non mi esprimessi - in tale doppia qualità - sui risultati della valutazione della ricerca scientifica per il periodo 2004 - 2010 appena resi noti e che vedono il mio Dipartimento (come ora si chiama) classificato in posizione deludente. Solo di questo si tratta, perché - se la valutazione stessa si estendesse a qualità innovativa ed efficace della didattica e a diffusione ed efficienza dei servizi generali (anche di contesto urbano, in una città assai poco vivibile: il paragone con l’Ateneo di Fisciano è impietoso, a nostro danno) - il giudizio sarebbe ancora più severo.
Eppure tutto si tiene. Gli sforzi di molti docenti (e, se è permesso dirlo, dello scrivente, critico notorio e da anni delle sciatterie professionali dei suoi colleghi, delle pressioni delle famiglie al “pezzo di carta” comunque ottenuto, della bassa qualità dell’impegno di studenti spesso sfiduciati, tanto il futuro - loro pensano - resta la disoccupazione) sono palesi. La Federico II, però, è come un grosso transatlantico lento nelle manovre, onusto di un passato glorioso (spesso citiamo, per consolarci, i presidenti della Repubblica, gli uomini di governo, gli alti magistrati, notai e burocrati sfornati; e altri, bravi, ne produciamo ancora), ma anche “seduto” sulle sue glorie e pochissimo agile, oltreché incapace di “vendersi al meglio”, come fanno strutture consorelle. La tendenza all’ “esamificio” viene combattuta da convegni di qualità, ma gli studenti li frequentano poco, giacché resi dal sistema disperati a caccia di esami con troppi libri da studiare e poche esercitazioni partecipate in aula (modello assai antiquato) e di “crediti” da conseguire. La stessa didattica deve raggiungere un compromesso precario e al ribasso tra teorica raffinatezza - collegata alla ricerca (ma troppi docenti preferiscono lucrosi studi professionali e ricche attività di consulenza esterna) - e necessaria rimasticatura di nozioni di base, se chi frequenta (pochissimi, in percentuale) esibisce vuoti culturali da recuperare in fretta, frutto di pessime scuole pregresse. Si aggiunga che, in una situazione di mercato del lavoro e di mobilità sociale gravemente declinanti, le università meridionali sono state spesso (male) intese come ammortizzatori sociali.
Si miscelino gli ingredienti e si otterrà l’imbevibile pozione attuale, imputabile a molti: anche a politici, famiglie, studenti. Noi docenti siamo peraltro i primi responsabili di un’autonomia universitaria gestita malissimo, intenta a una riproduzione di ceto in cui clientelismo e familismo protetto da localismo esasperato hanno fatto troppo spesso premio sulla ricerca della qualità, che la competizione intellettuale globale invece ci impone, sicché non possiamo giocare allo scaricabarile e fare gli offesi. Questa fotografia impietosa realisticamente ci riguarda: de te fabula narratur




Davvero molto coraggioso a scrivere queste cose.

Complimenti
connormaclaud
00sabato 20 luglio 2013 17:04
Un bel pezzo, se non ci fosse la "firma" del prof. Villone potrei pensare ad un intervento del prof. Prisco che ha analizzato il problema più di una volta sul forum e molto prima del declassamento,in questo periodo va di moda, di anvur.

Quello che mi domando è se questo si rivelerà uno dei tanti temporali di mezza estate,dimenticato presto dal nuovo sole, o una tempesta "perfetta" che mostrerà un cambiamento concreto dal prossimo anno accademico o addirittura da questa estate.

Messi sul piatto i problemi, condivisibili e condivisi, non resta che dare un segno agli altri e a noi stessi.

(pollastro)
00sabato 20 luglio 2013 18:48
Segnalo che quello postato qui sopra è un articolo del professore Prisco sul Corriere del Mezzogiorno di oggi, sabato 20 luglio. Quello del professore Villone, che pure ho segnalato per arricchire la discussione, è invece su Repubblica - Napoli di venerdì 19 luglio e non riesco a postarlo, perché è acquisibile in Internet solo in abbonamento (altrimenti è sul numero del quotidiano in cartaceo di ieri)
connormaclaud
00sabato 20 luglio 2013 19:52
desolato [SM=x43819]
connormaclaud
00domenica 21 luglio 2013 13:59
Dopo mesi e mesi di oscuro lavoro preparatorio pare proprio che stia per scoccare l’ora fatale della valutazione dell’apprendimento degli studenti. A gennaio L’ANVUR ha lanciato la sperimentazione di un nuovo test per valutare le “competenze generaliste” dei laureandi, che si terrà in dodici atenei italiani (Roma Sapienza e Tor Vergata, Milano Statale, Bologna, Padova, Firenze, Napoli Federico II, Cagliari, Messina, Piemonte Orientale, Udine e Lecce)

Se la sperimentazione avrà successo, a partire dal 2014 i risultati di questo test verranno utilizzati per l’accreditamento degli atenei e ai fini dei finanziamenti “premiali”, ovviamente distribuiti secondo il vangelo di San Matteo: “perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.”

La posta in gioco è quindi molto alta: in un momento in cui da più parti si invoca un forte ridimensionamento del sistema universitario, per ciascun ateneo un buon risultato nel test diventa una questione di vita o di morte. Facile prevedere che, in ossequio alla pratica del teaching to the test, ci sarà una corsa a modificare i programmi dei corsi di studio per massimizzare il punteggio ottenuto dagli studenti. Conoscere le modalità di questa ennesima valutazione diventa quindi di importanza cruciale.

Secondo il documento di presentazione dell’iniziativa, l’ANVUR si propone di misurare il grado di raggiungimento delle qualifiche che secondo l’Unione Europea devono essere conseguite dai laureati triennali (livello 6). I risultati dell’apprendimento relativi al livello 6 sono:

- critical thinking: Conoscenze avanzate in un ambito di lavoro o di studio, che presuppongano una comprensione critica di teorie e principi.

- problem solving: abilità avanzate che dimostrino padronanza e innovazione necessarie a risolvere problemi complessi e imprevedibili in un ambito specializzato di lavoro o di studio.

- decision making : Gestire attività o progetti tecnico/professionali complessi assumendo la responsabilità di decisioni in contesti di lavoro o di studio imprevedibili. Assumere la responsabilità di gestire lo sviluppo professionale di persone e gruppi.

Per assolvere questo compito cruciale il Gruppo di esperti dell’ANVUR ha deciso di affiancare a dei test specifici per ciascun ambito disciplinare un test “generalista” composto sia di domande a risposta aperta che di domande a risposta chiusa, il CLA plus.

Il CLA: Collegiate Learning Assessment

Il CLA è un test di valutazione dell’apprendimento di proprietà del CAE (Council for Aid to Education): è un’organizzazione statunitense finanziata (tra gli altri) dalla Carnegie Corporation (quella di Andrew Carnegie), dalla Ford Foundation e dalla Teagle Foundation, che opera nel campo dell’istruzione superiore.

Il presidente del CAE è Roger Benjamin, che precedentemente è stato per cinque anni direttore della divisione Educazione della nota RAND Corporation. Ed è proprio alla RAND che il CAE ha affidato l’incarico di sviluppare il CLA (Collegiate Learning Assessment): un test standardizzato che punta a valutare la performance didattica di interi atenei misurando il “valore aggiunto” fornito agli studenti. Il test non punta a valutare nozioni o competenze specifiche ma “higher order competencies” indipendenti da esse, che dovrebbero essere comuni a tutti gli ambiti disciplinari.

Il test è somministrato per via informatica su un campione di studenti ed è unico: tutti gli studenti degli atenei valutati vengono sottoposti alle medesime prove, indipendentemente dal corso di laurea che hanno frequentato. E’ costituito da tre prove scritte a risposta aperta: un singolo “Performance Task” e due “Analytic Tasks”: “Make an Argument” e “Critique an Argument” .

Nel “Performance Task” viene presentata allo studente una situazione immaginaria e assegnato un compito. Ad esempio, nel demo fornito dal CAE, una grande città in difficoltà di bilancio deve tagliare un progetto per le scuole medie: la scelta è tra un campeggio estivo in un parco naturale o un programma di tutoraggio didattico e sportivo. Lo studente deve redigere un memo indirizzato al city manager in cui analizza i due programmi e formula una raccomandazione su quale programma eliminare.

Riguardo gli analytic tasks, in “Make an Argument” agli studenti viene assegnata una traccia sotto forma di un’affermazione e hanno a disposizione 45 minuti per considerare ogni posizione sull’argomento e per motivarla. In “Critique an Argument” viene presentata un’altra traccia e allo studente viene chiesto di discuterne incongruenze e punti deboli in 30 minuti.

Gli elaborati vengono valutati secondo tre o quattro criteri: il livello di ragionamento analitico, l’efficacia dell’esposizione, la forma (grammatica, sintassi) e, solo per il performance task, la capacità di risolvere problemi. Per ciascun criterio viene assegnato un punteggio in una scala da 1 a 6.

Alla data del 2012 il CLA è stato utilizzato da università site in Irlanda, Hong Kong, Colombia, Portorico, Tailandia e Stati Uniti. I risultati di college e università statunitensi hanno fatto scalpore in quanto molto diludendo: secondo il libro-denuncia “Academically Adrift”, che riporta il risultato di uno studio condotto su 2000 studenti, dopo quattro anni di università ben il 36% dei valutati non ha mostrato alcun incremento “statisticamente significativo” rispetto al livello raggiunto al liceo.

La pubblicazione di “Academically Adrift” ha suscitato negli USA delle vivaci polemiche che hanno fatto finire il CLA sotto la lente di ingrandimento, e ben presto hanno cominciato ad emergere una serie di difetti che ne hanno rapidamente sgretolato la credibilità. Oltre a puntare sull’analisi dei dati , le critiche si sono concentrate sul metodo di valutazione in sé ma anche sull’oggetto della valutazione.

Le critiche – il valore aggiunto medio di ateneo

Le prime critiche hanno rilevato un difetto di base del CLA: il fatto di essere un unico test generalista con la pretesa di voler valutare il “valore aggiunto” medio di un intero ateneo. Innanzitutto, questa caratteristica fa sì che il test non possa venire impiegato per valutare la capacità dei singoli studenti: è inevitabile che, a seconda delle specifiche tracce assegnate nei vari tasks, gli studenti di alcuni corsi di studio saranno favoriti rispetto ad altri. Nell’esempio riportato (la grande città in difficoltà di bilancio) è evidente che uno studente di economia sarà mediamente avvantaggiato rispetto ad un iscritto a chimica o a lingue. Questo effetto si traduce in artificiali discrepanze di risultati tra un politecnico, un ateneo generalista e la Bocconi, tanto per fare un esempio. Questo problema del CLA è stato confermato anche dall’OCSE nell’AHELO Feasibility Study Report – Volume 2 per atenei di diverse nazioni

D’altra parte, oltre che al livello individuale, questo “valore aggiunto” mediato si dimostra molto poco utile anche a livello di ateneo. Un sistema di valutazione, per essere valido, deve essere finalizzato ad incrementare la qualità dell’ateneo: per fare questo deve fornire delle informazioni utili ad individuare con precisione i punti deboli, in modo da poter pianificare interventi correttivi. Ma, come è facile capire, l’informazione sull’ammontare di “valore aggiunto” erogato è ben poco significativa se è mediata su studenti di corsi di laurea completamente diversi, come fa il CLA. Oltre a ciò (ed è lo stesso Roger Benjamin, direttore del CAE, che lo afferma) il report CLA non può e non deve scendere nel dettaglio dei risultati conseguiti rispetto a ciascun singolo criterio di valutazione.

L’impostazione del CLA è olistica, pretende di condensare in un singolo numero tutta la complessità di un ateneo; punta a vedere la foresta disinteressandosi degli alberi, ma è solo a livello degli alberi (i dipartimenti) che si può agire per migliorare. Un po’ come se un medico si limitasse a misurare quanto i suoi pazienti stiano male senza entrare nel merito delle cause, ovvero delle loro malattie: magari può servire a fare una classifica del malessere, ma lo scopo dovrebbe essere quello di curarli, possibilmente con precisione chirurgica!

In definitiva, il concetto di “valore aggiunto medio di ateneo” è talmente vasto da rendere lo strumento spuntato e sostanzialmente inutile anche come strumento classificatore: secondo Douglass et al. una volta corretti i risultati in base al livello di partenza iniziale degli studenti (misurato dai test SAT) il valore aggiunto misurato dal CLA in diversi atenei statunitensi è sostanzialmente costante.

Le critiche – come viene valutato il test?

Ma le critiche non si sono fermate alla struttura del test: Kevin Possin ha analizzato in dettaglio la presentazione ufficiale del test CLA, nella quale viene illustrato con dovizia di particolari un test realmente utilizzato e ora ritirato dalla circolazione per essere utilizzato come esempio. Al termine dell’analisi Possin ha scoperto quello che definisce “a fatal flaw”, e ne ha ben donde perché è un difetto innegabilmente fatale: il test CLA fallisce nientemeno che nel suo scopo principale, ovvero misurare il livello di pensiero critico!

Possin si sofferma sull’esempio di “make an argument” contenuto nella presentazione ufficiale del CLA: la traccia proposta è “I finanziamenti statali sarebbe meglio destinarli alla prevenzione della criminalità invece che usarli per affrontare le sue conseguenze”. Il compito assegnato allo studente è: “Esprimere chiaramente una posizione e sostenerla con indizi e prove, considerando punti di vista alternativi oppure opposti alla propria argomentazione, sviluppando motivazioni logiche e convincenti e mostrando profondità e complessità di analisi riguardo alle questioni sollevate nella traccia”.

Nella presentazione vengono anche riportate tre risposte-tipo che rappresentano esempio di alta, media e bassa qualità, scelte dagli autori del test: ed è qui che arrivano le sorprese. La chilometrica risposta–tipo di “alta qualità” si rivela infatti un’autentica Caporetto della logica e del pensiero critico. In essa sono contenute: una banalità del tipo “l’affermazione contenuta nella traccia potrebbe essere falsa”; due argomenti dell’uomo di paglia; due false dicotomie; due fallacie del pendio scivoloso; un’argomentazione contraddittoria, che supporta sia una tesi che il suo contrario. Alla fine la risposta non riesce nemmeno a soddisfare la richiesta primaria, ovvero quella di esprimere chiaramente una propria posizione: si chiude infatti perfetto stile Ponzio Pilato, affermando che la questione della lotta alla criminalità dovrebbe essere semplicemente lasciata “al legislatore, alle Forze dell’Ordine, ai tribunali e ai cittadini”. [se vi state chiedendo come diamine possa essere la risposta di bassa qualità, la trovate a pagina 16 della presentazione, ma vi avvertiamo: il vostro sconcerto potrebbe aumentare!].

Il testo è ben scritto e scorrevole, ma è tutta retorica e niente sostanza. Il commento di Possin è lapidario: ”after reading this student’s response, I felt bullshitted”.

Il problema indotto dal fornire risposte-tipo non adeguate allo scopo va al di là di una brutta figura del CAE. Un’altra caratteristica inquietante del CLA è infatti il modo in cui vengono corretti e valutati gli elaborati, in quanto viene adottato un sistema del tutto inatteso in un contesto in cui si punta a misurare capacità logico-analitiche di livello superiore. Per il 90% degli elaborati il punteggio viene assegnato automaticamente da un software, l’Intelligent Essay Assessor prodotto dalla Pearson, ovvero la più grande multinazionale del mondo nel campo dell’editoria e dei servizi nel campo dell’educazione (include anche la casa editrice Penguin e il Financial Times). Il software viene calibrato dandogli in pasto circa un campione di circa 500 risposte, con le relative valutazioni assegnate da due umani differenti secondo linee guida definite dal CAE.

Vale la pena notare che l’utilizzo di algoritmi di correzione degli elaborati è in ascesa esponenziale (per ovvi motivi di economicità) e sta suscitando diffuse preoccupazioni. E’ di questi giorni la notizia di una mobilitazione di accademici contro la diffusione si questa pratica: ad oggi sono oltre 3.000 gli accademici statunitensi che hanno firmato una nitida petizione al riguardo, incluso Noam Chomsky. Se oltre alla stolidità dell’algoritmo aggiungiamo input umani che lasciano pesantemente a desiderare il disastro è pressoché completo.

Eppure la fiducia espressa dal CAE in questa procedura è pressoché illimitata: nel report relativo arriva addirittura al punto di affermare che la valutazione automatizzata sia su alcuni criteri “addirittura più accurata” di quella degli umani (!). La “prova” starebbe nel fatto che la discrepanza tra la valutazione di due umani diversi risulta mediamente più elevata di quella tra un umano e il calcolatore (!!): non si rendono neanche conto che, dal momento che il calcolatore è tarato mediando due umani, questi saranno ovviamente tra loro più distanti di quanto non lo sia il calcolatore da ciascuno di essi. In pratica, ragionamenti di questo tenore implicano che un calcolatore sia più abile di un umano non solo nel giocare a scacchi, ma anche nel problem solving e nel decision making: l’incubo fantascientifico di affidare i destini del mondo ad una grande “macchina delle selezioni” appare pericolosamente vicino.

Ritornando alle risposte tipo: come è dunque possibile che questi pessimi esempi siano addirittura utilizzati come materiale promozionale del test? Quali sono le cause di un simile autogol?

Il primo problema è che i test CLA si basano su un assunto quantomeno bizzarro: che il pensiero critico nasca per una sorta di “generazione spontanea”. Nei documenti CLA si legge infatti che anche se l’apprendimento dello studente universitario avviene all’interno di contesti disciplinari specifici e limitati, l’esperienza fatta in una particolare area scientifica fa sì che la conoscenza acquisita diventi “sufficientemente generalizzata” da consentirle di “trasferirsi” nel campo del ragionamento avanzato, del problem solving e del decision making a tutti i livelli.

Ma questo magico “trasferimento” esiste? E’ sufficiente essere esperti di un campo disciplinare per conoscere e gestire gli strumenti del pensiero critico di alto livello?

In realtà, pare proprio di no. Un significativo studio del 1995, condotto da Richard Paul sui docenti di 64 università californiane ha sollevato il velo su una realtà amara: non solo i professori capiscono poco di pensiero critico e di come insegnarlo, ma credono sinceramente (ed erroneamente) di esserne degli esperti. Ad esempio: nonostante ben l’89% dei professori abbia sostenuto che il pensiero critico costituisca un obiettivo primario della loro attività di docenti, solo il 19% è riuscito a definire il concetto di “pensiero critico” in modo soddisfacente; solo l’8% si è mostrato in grado di spiegare chiaramente che differenza c’è tra un assunto e un’inferenza. Il magico “trasferimento” non si vede affatto, anzi! Appare probabile che ideatori, estensori e correttori dei test CLA (reclutati in base al requisito piuttosto minimale di aver professionalmente valutato degli scritti) siano un campione rappresentativo della comunità accademica allargata e siano quindi privi di competenze specifiche nel campo della logica applicata e del pensiero critico.



Ma cos’è questo pensiero critico?

Il secondo problema va invece alla radice del concetto del CLA: è possibile misurare il pensiero critico in astratto? Indipendentemente dalle conoscenze specifiche e dall’ambito di applicazione? La risposta è no, e per un motivo molto semplice: definire che cosa sia il pensiero critico non è affatto semplice né scontato. Chi prova a farlo seriamente finisce inevitabilmente per scrivere lunghi componimenti che esaltano, invece che ridurre, la complessità del concetto. La verità è che non esiste una definizione semplice e condivisa di “pensiero critico”: la questione è anzi motivo di dispute non banali e per di più appare evidente che la nozione di pensiero critico non possa prescindere da considerazioni di tipo filosofico ed etico. Stephen Brooksfield pone la questione molto chiaramente: chi piega la propria intelligenza alle esigenze di mercato dell’attuale sistema capitalistico per massimizzare il proprio personale profitto immediato a discapito della collettività (e anche del suo stesso futuro) sta “pensando criticamente”? O forse il pensiero critico viene meglio esercitato da chi si oppone a queste logiche e tenta invece di realizzare forme di società alternative, come fecero gli operai dei consigli di fabbrica durante l’occupazione della FIAT nel 1920?

Il CLA non misura quindi (perché è impossibile farlo) la complessità del pensiero critico, ma solo alcune capacità logiche ed espressive arbitrariamente selezionate dai suoi ideatori, per di più in contesti artificiali, semplificati e in definitiva non generalizzabili. La sua pericolosità sta però proprio nella sua pretesa di misurarlo, perché così facendo impone una sua particolarissima definizione di pensiero critico che, con la complicità dell’OCSE e del nostrano connubio gattovolpesco ANVUR-MIUR, spazza via d’incanto ogni dibattito e diventa lo standard di riferimento in base al quale impostare l’intera preparazione universitaria dei nostri studenti.

n conclusione: che fare?

In definitiva, il CLA è uno strumento non solo inutile, ma addirittura dannoso nella misura in cui viene utilizzato per indirizzare le strategie didattiche di un ateneo o peggio di un intero sistema universitario, con tutte le ovvie e drammatiche ricadute che ciò comporta sull’intera struttura sociale. Sono molte le voci autorevoli che si sono levate per scongiurare un simile tragico scenario, ma il treno del CLA continua a procedere spedito, spinto dagli apprendisti stregoni dell’OCSE che perseguono l’incubo di misurare qualsiasi cosa. In questa situazione la domanda che appare più urgente l’hanno posta Douglass, Thomson e Zhao: “come si può fare per far capire meglio ai ministri e agli altri decisori politici i pericoli di un test di questo tipo”?

La nostra impressione è che, nell’attuale situazione politica, elaborare e proporre nuovi e sempre più cogenti ragionamenti che evidenzino le lacune e i danni del CLA non sarà sufficiente. Sono tanti, troppi coloro che oggi supinamente accettano o (in alcuni casi) addirittura implementano con entusiasmo provvedimenti destinati a radere al suolo le possibilità di un futuro cambiamento della società. E’ più che mai necessaria l’apertura di un dibattito pubblico che metta in movimento le coscienze, le menti, e i corpi contro questa perversa meritocrazia, che serve solo a garantire i privilegi a coloro che sono già privilegiati: possibilmente prima che lo sprofondamento sia tale da rendere impossibile il risalire.

www.roars.it/online/unaltra-clava-sta-per-abbattersi-sulluni...

(pollastro)
00domenica 21 luglio 2013 18:23
Sono in grado di postare l'articolo di cui ho consigliato sopra la lettura. bypassando il vincolo dell'abbonamento a Repubblica.it , perché l'autore lo ha postato su Facebook


Di tradizione si può morire di MASSIMO VILLONE, Repubblica -Napoli, venerdì 10 luglio 2013

Tanto tuonò che piovve. Le valutazioni Anvur di cui questo giornale riferisce fanno emergere quello che nella Federico II alcuni - tra cui io stesso - dicevano da tempo: di tradizione si può anche morire. Due premesse sono necessarie. La prima è che - per quanto mi risulta - non sono tra i magnifici 240. Questo rileva per la legittimazione a parlare sul tema. La seconda, che i criterî quantitativi utilizzati per la valutazione Anvur sono discutibili, e discussi. Probabilmente, la qualità di un ateneo sfugge, per una quota, a questo tipo di valutazione. E tuttavia i criterî quantitativi esistono, e per una parte non mentono. Se qualcuno - giovane o anziano che sia - smette di scrivere o di frequentare un laboratorio, il dato è inoppugnabile. Appartengo a uno dei settori colpevoli. E per la realtà che conosco posso dire che la Federico II mostra gli stessi mali di cui soffre larga parte dell’Università italiana. Sintomi di nepotismo e clientelismo, pervasività delle conventicole accademiche, squilibrio tra impegno universitario e attività professionale privata, obsolescenza della didattica. La Federico II ha due svantaggi. Anzitutto, il peso della tradizione può essere un potente freno al cambiamento, all’accettazione del nuovo, alla ricerca del meglio. Non c' è peggiore nemico della Federico II del docente o ricercatore che si ritiene già soddisfatto dalla carta intestata o dalla targa sulla porta dello studio professionale che ne certifica l’appartenenza alla “grande Federico II”. Inoltre, la qualità di un ateneo dipende anche dal rapporto con il territorio, dalla forza del tessuto socioeconomico nel quale si inserisce, dalle domande poste dalla società e dalle istituzioni, dalla efficienza organizzativa. E anche per questi versi la gloria passata può favorire la comoda disattenzione di molti al degrado del presente. Ho predicato per anni ai miei colleghi che un cambiamento epocale era in arrivo, e che bisognava essere pronti a governarlo, piuttosto che opporsi ad esso in modo vacuo e inconcludente. Ho riscosso consensi formali, e inerzie sostanziali. Invece bisognava - e bisogna - rimettersi in gioco, ogni giorno. I settori in sofferenza della Federico II devono ora interrogarsi. Smettiamola di chiamare maestri quelli che tali magari sono stati, ma che oggi non lo sono in fatto. Smettiamola di dire largo ai giovani, per poi mantenerli nella condizione di servaggio in cui li confinava una vecchia e deteriore accademia. Non consola sapere che siamo in ottima compagnia. Si pensi che nel concorso nazionale in atto per l’idoneità a professore ordinario e associato una commissione - non diciamo quale per spirito caritatevole - ha deciso che non contano per la valutazione dei candidati la direzione di gruppi di ricerca, riviste o strutture, la capacità di attrarre fondi, le esperienze all’estero. In breve, quello che fa punteggio per l’ateneo non serve a diventare professori. Questo per dire come non solo qualche settore un tempo vanto della Federico II, ma l’accademia italiana in genere abbia perso la bussola. Infine, una parola al rettore Marrelli. Caro rettore, capisco la tua rabbia, e in larga parte la condivido. Ma permettimi di dire che qualsiasi politica volta a penalizzare interi settori sarebbe controproducente, oltre che ingiusta. In ogni settore c’è chi si affanna a dare il meglio, in condizioni già oggi difficili se il settore nel suo complesso è in caduta. Penalizzare un intero settore significa anzitutto uccidere definitivamente i buoni - magari pochi - che ci sono e ne rappresentano la speranza. Una politica vincente vuole che l’amministrazione universitaria riesca a guardare dentro i settori, in modo mirato, e trovi gli strumenti per sostenere e incoraggiare quelli che si battono già oggi per la cosa giusta. Se gli strumenti non ci sono, bisogna inventarli. E se questo rompesse vecchie consuetudini di autonomia e di minuetti tra colleghi, sarebbe solo un altro pezzo di archeologia accademica da gettare via senza rimpianti
Raffaele_23
00lunedì 22 luglio 2013 18:08
Io credo che sia giusto conoscere e pubblicare, da parte del rettore, i nomi di questi docenti inattivi. Da un lato perchè la Federico II è un'università pubblica, dall'altro perchè l'intera accademia dovrebbe essere ad uso e consumo dei discenti, che quindi devono essere messi al corrente di chi, perdonatemi il demagogismo, spreca i loro soldi.
trixam
00lunedì 22 luglio 2013 19:05
Se ancora non li sa il rettore come fa a pubblicarli? Dagli altri 8/10 anni di tempo e li pubblica. Per altro dovrebbe essere semplice dato che i cv dei professori dovrebbero essere pubblici e messi in rete ma sembra che alcuni siano coperti da segreto di stato come nemmeno i fascicoli di piazza fontana.

Cmq non smetterò mai di sorprendermi abbastanza su come la scoperta dell'acqua calda in Italia abbia sempre effetti stupefacenti.
Gli articoli dei Professori Prisco e Villone sono emblematici. Testimonianze chiare che tutti sanno tutto di un sistema talmente marcio ed irriformabile che non ti lascia altro da fare che scrivere articoli sconsolati su un giornale dei quali il giorno dopo non frega più niente a nessuno.
Testimonianze del socialismo reale all'italiana dove pubblico è il nome politicamente corretto che si da alla confisca del denaro dei contribuenti per i fini privati delle oligarchie, come nell'unione sovietica degli anni 80.






Raffaele_23
00lunedì 16 settembre 2013 13:21
Che direzione intende prendere la Federico II dopo la "batosta" della valutazione Anvur? Al di là di classifiche inutili dei buoni e dei cattivi, quali saranno i provvedimenti concreti?
Raffaele_23
00sabato 30 novembre 2013 15:06
Dove eravamo rimasti?
Ormai ne è passato di tempo dalla Valutazione ANVUR che ha sostanzialmente bocciato la nostra Università. Nel mentre è stato emanato il discusso e discutibili DM punti organico. Cosa è cambiato da allora?Che cosa ha intenzione di fare quest'Università, che sembra sempre più inerte e in stato comatoso? Che fine ha fatto la pubblicazione dei nomi dei docenti inattivi, che hanno abbassato le nostre valutazioni? Quali miglioramenti si intendono apportare alla ricerca e alla didattica, anche alla luce del recente riassetto organizzativo?

Per quanto riguarda più precisamente il Dipartimento di Giurisprudenza, agli occhi di noi spettatori esterni sembra che nulla sia cambiato. Mentre altre Scuole cercano almeno di darsi da fare: ultimo l'esempio della Milano Bicocca, che dal 2014 introdurrà le cosiddette Cliniche legali, da affiancare ai corsi, sullo stampo del modello statunitense.

www.unimib.it/open/news/Avvocati_-si-rinnova-la-professione-si-rinnova-la-formazione/84909359683...
trixam
00domenica 1 dicembre 2013 12:15
Sei l'unico cui freghi ancora qualcosa. Take it easy.

Raffaele_23
00domenica 1 dicembre 2013 16:15
Forse hai ragione, caro Trixam. Ti leggo sempre con piacere, anche se abbiamo spesso posizioni sideralmente differenti. Tu cosa ne pensi della questione?
trixam
00domenica 1 dicembre 2013 20:53
Penso sia più facile vedere lo sbarco su Plutone piuttosto che uno dei temi da te sollevati sia affrontato e risolto.

La formazione giuridica nella mentalità legislativa dell'europa continentale non tiene conto di uno degli elementi fondamentali della moderna organizzazione sociale: gli incentivi.
I giuristi continentali sono abituati a pensare che dato un problema debba esservi una data soluzione che verrà presa.
Questo è il retroterra anche del tuo ragionamento sul tema ed è causa del tuo legittimo sconforto.

I dirigenti del dipartimento e dell'università in genere non hanno nessun incentivo a migliorare la situazione, per loro così com'è va benissimo. La minima sanzione che doveva produrre il rapporto Anvur è stata subito cecchinata in parlamento dai rappresentanti della lobby dei rettori(se nel frattempo non è intervenuto qualche cambiamento che non ho seguito) e nella miglior tradizione italiana tutto questo procedimento si è rivelato un inutile esercizio di gattopardismo burocratico.

Ed a dirla tutta nemmeno la maggioranza degli studenti ha incentivi a chiedere un miglioramento dell'università perché questa maggioranza teme una università più esigente invece di vederla come un'opportunità.

In Italia si è tutti d'accordo sulle riforme a patto che non si facciano.
(pollastro)
00domenica 1 dicembre 2013 22:21
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Troppo pessimista, caro Trixam: le riforme (anche dell'università) saranno imposte dalle cose. Competion is competition, purché sia chiaro che l'università a cui penso non è quella di una competizione al ribasso, tutta solo tecnica astratta e nessuna base culturale.
Io e Raffaele, intanto, siamo in guerra (dalla stessa parte) ;-)
trixam
00lunedì 2 dicembre 2013 20:04
Prof a me sembra banale realismo basato sui fatti. Un paese in cui non è cambiato niente nonostante abbia la corda del default avvolta intorno al collo non capisco da cosa possa essere costretto, forse una minaccia atomica. Dovremmo chiedere ai francesi di minacciare di lanciare i missili, non so.

Comunque quando sarà adottato qualche provvedimento incisivo in grado di affrontare qualcuno dei problemi sollevati ci faccia sapere, sarò lieto di fare i miei elogi.
Personalmente scommetto di vedere prima l'italia vincere il Sei nazioni.
Raffaele_23
00martedì 3 dicembre 2013 15:54
Concordo con entrambi. Ma al prof. Prisco obietto, ma condividerà, che lasciare imporre le riforme dalla natura degli eventi non sempre è conveniente e spesso è disonorevole (Dico solo due parole per esemplificare: legge elettorale). A trixam obietto che anche per me il suo pessimismo sembra eccessivo (anche se non riesco a negare che sia alimentato da un buon 80% di realismo).
Credo che L'Università debba operare con più trasparenza in relazione ai mutamenti necessari per adeguarsi al nuovo corso. Sempre che lo si voglia un nuovo corso invece di poltrire sui propri fasti, ormai decomposti e putrescenti.
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