"Tra semi-presidenzialismo e dintorni" è il titolo di una lettura interessante ed in chiave diversa sull'argomento, che ripropongo in questa sede.
Ciclicamente, in Italia si torna a parlare con maggiore insistenza di riforme istituzionali e, in primo luogo, di abbandono dell'assetto costituzionale incardinato sul parlamentarismo a favore di soluzioni "più forti".
Il lessico, come ben noto, non riflette un'opzione valoriale neutra, ma è sempre espressione di un approccio orientato. Laddove quindi compare l'aggettivazione "forte", questa viene contrapposta allo status quo, a cui vengono addebitate in larga misura le cause della crisi, o, quanto meno, una titubante capacità di reazione alla stessa, che si riconosce avere respiro internazionale e non essersi pertanto abbattuta sull'Italia esclusivamente a causa delle sue tare.
Tutte le istanze che si riaffacciano nel dibattito pubblico, al di là di ogni possibile considerazione sulla strumentalizzazione mediatica che delle stesse possa farsi, sono senza dubbio originate da elementi di criticità dell'esistente. La negazione radicale di questo dato, in nome, per esempio, di un arroccamento a difesa della Costituzione, svilita nella propria capacità trasformativa della datità e mummificata in una sorta di manifesto a memoria delle future generazioni, appare alla lunga come un nobile quanto sordo tentativo di non interfacciarsi con la realtà.
Con un salto netto dalla teoria al contesto attuale: che si torni a dibattere di assetto istituzionale complessivo non è solamente la proiezione in forma mass-mediatica di un'istanza nata nei cenacoli di ristrette élites, ma è la fisiologica conseguenza di un'insoddisfazione palpabile verso la fluidità del funzionamento del circuito politico.
Quel che non è affatto scontato, e che denota un approccio ideologico da parte dei grandi gruppi di potere, è l'attivazione dell'equazione secondo cui una soluzione in grado di garantire "governabilità" sia sostanzialmente quella presidenziale, declinata sia nella forma estrema statunitense, sia nella variante "semi" che ci suggerisce, per esempio, la Francia. Istituendo così un sillogismo arbitrario, che al presidenzialismo associa per "definizione" l'attivazione del corpo elettorale, per istituire un rapporto osmotico tra base indefinita e vertice della piramide. In tale predilezione si rintraccia una netta subordinazione della Politica al lessico economico del neo-liberismo, che gioca le proprie carte sul concetto di stabilità, elevato a vero proprio totem e sulla minimizzazione dei "costi decisionali", connessi esclusivamente al numero di persone coinvolte, per legge o di fatto, nel processo di formazione di una decisione.
Perché scriviamo che prospettare come facilitatrice della governabilità una soluzione presidenziale, più o meno accentuata, palesi contorni ideologicamente orientati? La risposta più digeribile per un lettore potrebbe consistere nel citare il cancellierato tedesco e le relative performances di quel paese pur in una congiuntura così critica come quella attuale. Ricordando quanto il cancellierato si sviluppi in una cornice profondamente parlamentare.
Con approccio invece di tipo storico, potremmo ricordare, palesando un pre-giudizio che immaginiamo assente nei cantori delle varie soluzioni presidenziali, che la soluzione di un "Uomo solo al comando" è nella storia sempre stata presentata come rimedio alla crisi della politica. E accettiamo quindi di discuterla sorvolando sugli esiti che storicamente ha prodotto in diverse zone del pianeta, preludendo a regressioni palesemente antidemocratiche e, non di rado, apertamente totalitarie.
Il punto di partenza è l'auspicio di poter riallineare i tempi della politica con la velocità del divenire, essenzialmente dettata dal mutamento tecnologico. È una premura largamente condivisa, che sembra poter abbattere le "lungaggini" che oggi, ancor più di ieri, spalancano uno iato incolmabile tra questi cambiamenti, effettivi o percepiti (perché resi "senso comune" dai media dominanti), e la lentezza paludata della politica, che arriva a partorire risposte sempre un momento in ritardo, offrendo dunque soluzioni simili a un cellulare reso obsoleto dal modello più smart appena messo in commercio. Già questo accenno, rispetto alle interconnessioni alle quali siamo ormai soggetti in tutti i campi – dalla richiamata tecnologia al sapere – dovrebbe suggerirci un radicale cambio di prospettiva, nel senso di segnalare l'urgenza di coordinare sempre di più, per esempio a livello di Unione Europea, l'azione di Paesi come l'Italia che, nel quadro geo-politico odierno, soffrono la potenza dispiegata da regioni un tempo marginali ma adesso divenute di primaria importanza anche per il proprio peso demografico, come l'India o il Brasile.
Ma, naturalmente, questo invito non è alternativo all'approfondimento dei problemi domestici. E l'Italia è un laboratorio particolarmente fertile. Nella crisi che investe la politica da più di un trentennio, e che si è sostanziata essenzialmente come una graduale subordinazione della stessa alla deregulation economico-finanziaria, il principale cardine che ha ceduto è quello rappresentato dai partiti. La loro implosione, raccontata in tutte le salse e sia con ricostruzioni divulgative che con racconti di taglio più prettamente scientifico, ha fatto venire meno quel contrafforte pensato da molte costituzioni del secondo dopoguerra alla declinazione del potere come arma (non mezzo) nelle mani di ristrette élites. I partiti, non a caso, sono indicati nella nostra Costituzione, anche reattivamente al ventennio di passivizzazione forzata del fascismo, come i più importanti "corpi intermedi" tra il popolo e il "potere". Investiti cioè, del compito, di guidare le masse verso pratiche partecipative che, non esaurendosi nell'espressione libera del voto, potessero riattivarle, sviluppando lentamente dal basso istanze che, raccolte e portate a sintesi dalle classi dirigenti dei partiti, venissero poi tradotte in leggi e atti dell'esecutivo, immaginato come espressione non autonoma, ma dipendente dalla fiducia raccolta in sede parlamentare e dunque subordinata alle assemblee legislative.
Lo sfaldamento dell'assetto della Prima Repubblica e la claudicante esperienza post-Tangentopoli, che pure era nata sotto l'auspicio di una liberazione di nuove forze della società civile, indica, nel bilancio tracciabile finora un senso di un disorientamento e di una disaffezione verso le agenzie politiche più radicate che assume contorni preoccupanti, prodromici a conati di antipolitica ripetutamente messi in campo con proposte politiche di vario segno.
In questo quadro, se dibattere di riforma ordinamentale della Repubblica non può esaurirsi nelle alchimie di allocazione e distribuzione del potere in capo a uno o più soggetti, ma dovrebbe affrontare il tema dell'assetto delle istituzioni periferiche che si vogliono (Province sì o no? Regioni sì o no e con quali poteri? Regionalismo o federalismo?) è altresì vero che tale discorso non possa essere disgiunto dalla legge elettorale. Essa è, per così dire, una condizione necessaria per qualsiasi proposta di riassetto istituzionale, potendo essa facilitare o bloccare in qualche misura la proliferazione dei partiti o il loro accesso nelle Camere rappresentative. Ma alla stessa non può, con operazione simmetrica, essere addebitato il compito di dipanare la matassa ingarbugliata attorno a due questioni che restano fondamentali: a) l'assetto istituzionale effettivo, con l'esigenza, in caso di sua modifica, di intervenire sul ripensamento dei pesi e contrappesi; b) l'esistenza o meno di partiti strutturati – variamente incalzati da pressioni di stampo movimentistico – e il loro funzionamento interno.
Il semi-presidenzialismo, sin dal lavoro di revisione complessiva della Costituzione messo in atto dalla cosiddetta Commissione Bicamerale D'Alema tra il 1997 e il 1998 (ma altri tentativi errano già stati esperiti ed altri ne sarebbero seguiti), è apparso come la soluzione più sbrigativa per comporre in sede politica gli interessi inevitabilmente divergenti che una società plurale e liquida – per dirla alla Bauman – esprime. Nell'incapacità diagnosticata ormai cronica dei partiti di mediare a valle i conflitti, sintetizzando al proprio interno posizioni da negoziare ulteriormente in sede parlamentare e governativa con le altre forze politiche, la soluzione viene individuata nella classica scelta decisionale sovrana incarnata dall'Uno. L'Uno, infatti, benché inevitabilmente oggetto di pressioni, risolve i conflitti con una decisione incontrovertibile. La sua decisione esprime una mediazione che non esplicita il percorso del suo formarsi e, disboscando la foresta simbolica di istanze divergenti, trasmette la sensazione di un ordine superiore e di una maggiore libertà di azione, espungendo dall'immaginario ogni problematizzazione relativa alla valutazione della sua concreta efficacia. Questo, naturalmente, presupponendo, uno schema alla "francese", in cui il vertice dell'esecutivo, eletto direttamente dai cittadini, sia il Presidente della Repubblica, che perde pertanto le attuali funzioni di "garanzia", assumendo un ruolo attivamente politico e contemporaneamente di unità simbolica della nazione. Compito tutt'altro che facile, ma che, d'altro canto, sarebbe forse ancor più arduo laddove il semi-presidenzialismo venisse declinato come elezione diretta del Capo dello Stato, lasciando però a esso esclusivamente le prerogative attuali.
D'altronde, appare ingenuo, se non volutamente fuorviante, associare il semi-presidenzialismo alla modalità di amministrazione delle città promossa attraverso la Legge 81/1993 sull'elezione diretta dei Sindaci. La garanzia di un risultato, la certezza di avere un vincitore scelto direttamente dai cittadini – ma quante volte selezionato partecipativamente? – ha mietuto riscontri positivi, ma non è, in quanto tale, elemento che abbia messo al riparo pur importanti Comuni dal crack finanziario o da ripetuti scioglimenti per infiltrazione mafiosa. Né l'identificarsi in un Sindaco direttamente votato o comunque indicato dalla maggioranza dei propri concittadini ha dissipato per incanto le nebbie che sorgono su delicate questioni ambientali, urbanistiche, di trasporto pubblico. Anzi, proprio su questi argomenti così sensibili, che travalicano le appartenenze politiche, le scelte effettuate in sede elettorale hanno spesso evidenziato maggiore efficacia e soddisfazione complessive con approcci esattamente opposti. Ossia attraverso quei tentativi di coinvolgimento della cittadinanza attiva, mediante pratiche di governance tra tutti i soggetti potenzialmente depositari di un diritto forte. Su questo terreno si gioca, ogni giorno, in centinaia di realtà metropolitane e cittadine, un nuovo percorso di inclusione e mobilitazione costante nel quale il vertice politico non viene spogliato delle proprie responsabilità, ma è sollecitato a istituire momenti di confronto, nella convinzione che una decisione condivisa, sebbene formalmente da adottarsi con un atto emanato dall'autorità politica, produca più adesione alle regole nella popolazione, un più alto livello di tutela del bene in questione, con una minimizzazione dei comportamenti devianti.
Ora, anche sorvolando sulle differenze tra l'amministrazione di una città e il governo di un Paese, se la carica monocratica (il Sindaco) assicura un effetto placebo sulla percezione dei cittadini di maggiore efficacia e rapidità nelle decisioni, non garantisce affatto – e, anzi, tendenzialmente inibisce – la formazione di una classe dirigente diffusa in grado di garantire governabilità nel medio termine. Che non significa propendere per la ricostruzione di apparati di partito lesti a occupare ogni posto della P.A. con propri uomini fidati, ma di preparare, come se fosse sempre la massima urgenza, la propria successione, un ricambio sempre anche generazionale. Quanti Sindaci, invece, esaurito il doppio mandato fissato in modo salutare dalla legge hanno poi assunto una funzione di primi cittadini occulta anche nel quinquennio successivo, per tornare a ricandidarsi finito il turno di stop, visto che la legge fissa il limite del doppio mandato consecutivo ma non fa cenno a un totale di mandati massimo? Questo (mal)costume diffuso trasversalmente stride con la richiesta di ricambio che i sondaggi segnalano molto presente nell'elettorato, nonché con quella pericolosa declinazione del professionismo politico come attività coincidente con l'intera vita di un soggetto.
Senza allora intervenire sui meccanismi di selezione della classe dirigente anche come esito di un'inversione di rotta culturale più vasta, affidare a una sola persona, che abbia il requisito essenziale di ottime doti comunicative, il compito di blandire la pluralità e le tensioni interne a una società attraverso un principio di ricostituzione attorno a sé dell'unità, appare operazione di maquillage, potenzialmente priva di efficacia. Il che non equivale a parteggiare per l'immobilismo. Ma a segnalare che un intervento sulla morfologia e la distribuzione del potere politico senza incidere sul rapporto tra politica ed economia, senza ripensare i meccanismi di produzione e riproduzione della ricchezza, è poco più di un'illusione ottica. È esercizio di distrazione di massa, che punta l'indice contro l'inefficienza dell'assetto istituzionale attuale per celare altri, persino più gravi, intoppi.
Le numerose implicazioni del tema dovrebbero allertare a diffidare dai cantori di soluzioni semplicistiche. Senza che ciò provochi un effetto di riluttanza: credere che la materia sia maneggiabile esclusivamente da "tecnici". Segnaliamo piuttosto quanto sia importante pensare il futuro prospettando soluzioni che non irridano la complessità. Perché, se di complessità si può morire, non possiamo neppure permetterci di liquidarla come un esercizio retorico, perché noi tutti ne siamo parte. Serve allora affrontarla senza imboccare scorciatoie per un tornaconto immediato.
Di Alessandro Lattarulo, su
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