PRATICANTATO ED ESAMI D’AVVOCATO: una situazione decisamente anomala

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(Hydra)
00giovedì 18 dicembre 2008 22:02
un pò lunghetto ma molto interessante

(tratto da Altalex di Marco Bona)


Quando si diviene avvocati si tende a relegare l’esperienza dell’esame di abilitazione tra i ricordi più infelici, quelli da dimenticare il più in fretta possibile. E così, passati dall’altra parte della barricata, semplicemente non si avverte più il problema e lo si lascia intatto per le generazioni successive. E’ quasi come se il titolo acquisito producesse un’autentica metamorfosi: molti avvocati si scordano tutto d’un colpo di essere stati praticanti e di aver provato ingiustizie, oppure, nonostante i ricordi, ritengono che l’esperienza ormai lasciata alle spalle possa risultare proficua per i giovani o, ancora, sfruttano la tradizione a proprio uso e consumo. Sta di fatto che nessuno si affanna a modificare il sistema od anche solo a prendere carta e penna e denunciare la situazione.

Personalmente ritengo che sia moralmente e deontologicamente doveroso per un avvocato concentrarsi, soffermarsi e non passare oltre sulle ingiustizie, sulle storture dell’ordinamento, su sostanziose anomalie e sulle sofferenze altrui, soprattutto quelle di chi aspira un domani a divenire un “collega” nonostante le scarse prospettive reddituali che si registrano nel settore. Mi sembra che sia più che dovuto, nei confronti di chi si troverà ad affrontare in futuro questa triste esperienza e soprattutto di quei praticanti non particolarmente fortunati quanto ad esperienza formativa ed a trattamenti economici, non considerare il problema in questione come “acqua passata”.

Le riflessioni che seguono nascono dunque dalla piena convinzione che si debba assolutamente procedere a riconsiderare una situazione – quella dei praticanti e dell’esame – che è del tutto anomala, ingiusta ed ai limiti dell’inciviltà.

Le ingiustizie e le anomalie sono invero notorie.

In primo luogo, mi preme rilevare l’anomalia, tutta italiana, di una classe di autentici lavoratori (peraltro qualificati) – i praticanti – i quali, nella maggior parte dei casi, si trovano impegnati quotidianamente e per anni su un posto di lavoro, senza essere supportati da un adeguato trattamento economico, assicurativo e pensionistico (la CPA disconosce tra l’altro i praticanti senza patrocinio). Al riguardo, tralascio qui le considerazioni che ben si potrebbero svolgere, in termini generali, sul piano economico e sociale (in sintesi si ha un’ampia categoria di persone che cominciano a contribuire al welfare intorno ai trenta anni, se non oltre, e che gravano sulle famiglie e dunque sulla capacità di risparmio/acquisto delle stesse) e mi limito a rilevare come non sia prevista dal nostro ordinamento alcuna particolare tipologia contrattuale che in qualche modo garantisca uniformemente sul territorio italiano in capo a questi lavoratori il rispetto dei ben noti diritti costituzionali di cui agli artt. 36, 37 e 38 Cost. E’ invero piuttosto singolare che la classe forense si sia spesso distinta nello sviluppo della tutela dei lavoratori sotto tutti i profili ed al contempo nulla faccia in concreto per regolarizzare il trattamento dei praticanti e costruire un sistema di criteri minimi per la gestione dei rapporti di quest’ultimi con gli studi legali. Eppure i modelli da prendere a riferimento ci sarebbero. In altri sistemi, ad esempio l’Inghilterra, esistono contratti-tipo e retribuzioni minime per gli aspiranti legali.

Gli scarsi livelli di retribuzione, peraltro, finiscono con lo scoraggiare quei praticanti che, pur dotati e promettenti, non riescono ad accettare o non possono permettersi di rinunciare per un periodo decisamente lungo ad una qualsivoglia autonomia economica e di dover gravare sulle rispettive famiglie.

La modestia dei compensi viene tradizionalmente giustificata adducendo che l’avvocato investe nella formazione del praticante, gli insegna il mestiere. Tuttavia, questa giustificazione, posto che il praticante sia adeguatamente assistito nell’apprendimento dell’arte forense e non sia invece relegato a segretario od a tuttofare di studio, può forse reggere nei primi mesi di apprendistato, non già in un periodo così lungo di tempo (almeno tre anni) quale quello che intercorre tra l’inizio della pratica ed il conseguimento del titolo. Dopo sei mesi, a meno di una scarsa attenzione alla sua formazione, il praticante è già ampiamente utile, in termini economici, allo studio: del resto, non ci vuole certo una grande scienza, se l’insegnamento è stato serio, per redigere diffide, diversi atti per le cause avanti l’Ufficio dei Giudici di Pace, precetti o decreti ingiuntivi o altri consimili atti. Con il conseguimento del patrocinio il praticante costituisce poi una presenza sicura nelle udienze bagatellari o contraddistinte da incombenti squisitamente formali.

Per una vita autonoma da single (non si considera ovviamente l’ipotesi della famiglia) occorrono oggi almeno € 1.000 nette al mese, e si tratta già di una stima ridotta al massimo, se si considerano anche solo i costi medi degli affitti, il mantenimento di una vettura (spesso utilizzata per le incombenze richieste dall’attività di studio), i pasti consumati nelle pause pranzo, e le altre spese di stretta necessità (vestiario consono, ecc.). Non mi risultano siano invero molti i praticanti che accedono a una somma di questo tipo, anche quando siano già in possesso del patrocinio.

Ciò posto, va rilevato come siffatta situazione economica costituisca un fattore da tenere in debita considerazione laddove si voglia procedere con un discorso serio sull’esame d’avvocato e sul praticantato.

Infatti, il praticante, che svolga seriamente l’apprendistato, si trova a dover spesso conciliare la propria preparazione dell’esame con le esigenze degli studi legali, fronteggiando il rischio di perdere anche in tale periodo il già ridotto sostentamento economico percepito.

Inoltre, la preparazione dell’esame richiede notevoli investimenti a carattere economico: l’iscrizione ai corsi per la preparazione dell’esame d’avvocato e l’acquisto di codici commentati e di manuali comportano un costo complessivo che si aggira molto approssimativamente, per la preparazione del solo esame scritto, intorno ad almeno € 1.000.

Ma veniamo all’esame.

L’esame indubbiamente non premia i praticanti “effettivi” e che hanno “investito” il loro tempo in attività scarsamente retribuite. I praticanti “veri” sono posti sullo stesso piano degli altri e risultano soventemente svantaggiati per il minor tempo a disposizione per la preparazione.

L’esame scritto è un autentico stress fisico, si svolge in aule sovraffollate ed è in larga misura aleatorio.

L’alea dell’esame scritto non è solo determinata dai temi assegnati (spesso, come si è osservato, lontani dall’esperienza maturata negli anni di pratica), ma anche e soprattutto dalle modalità con cui vengono corretti i compiti. Infatti, avendo avuto esperienze di docenza in corsi per la preparazione dell’esame d’avvocato, posso serenamente affermare come una correzione seria di ciascun compito scritto richieda almeno – a voler essere riduttivi - un dieci/quindici minuti e, prima dell’assegnazione dei voti, una più che opportuna comparazione tra i diversi scritti da valutare, il che mi sembra condurre a ritenere che le commissioni dovrebbero dedicare almeno fra i trenta/quaranta minuti per la correzione delle prove scritte di ciascun candidato, senza contare gli adempimenti burocratici connessi alla correzione. Mi pare allora che non vi sia affatto una perfetta coincidenza tra i tempi medi impiegati attualmente dalle commissioni per ciascun candidato e quelli che sarebbero richiesti da una procedura valutativa seria, approfondita, trasparente e rispettosa dei candidati.

A ciò si aggiungano le seguenti anomalie dell’esame scritto: 1) non vi è possibilità alcuna per i candidati bocciati o che hanno ricevuto una valutazione bassa di comprendere le ragioni della valutazione conseguita (i compiti rimangono intonsi e le motivazioni rimangono nelle teste di chi li corregge); 2) in molti fori le percentuali dei promossi e dei bocciati si ripetono incredibilmente di anno in anno (ma è mai possibile che vi siano sempre le stesse proporzioni?); 3) occorre attendere l’esito degli scritti per quasi oltre sei mesi.

Se non si passa lo scritto, si ricomincia nuovamente tutto dall’inizio. Ad esempio, per la gioia delle case editrici, si deve procedere a riacquistare codici e manuali. Si torna ad iscriversi ai corsi. E soprattutto si rimane bloccati per un altro anno ancora sui modestissimi compensi percepiti.

Se si passa l’esame scritto, occorre poi chiudersi in casa - studio legale e clientela permettendo - e studiare una montagna di pagine tra testi, manuali e codici, affrontando nuovi gravosi investimenti per almeno € 500-800. Contando deontologia, sono ben sei le materie da portare all’esame orale. Indubbiamente chi ha notevoli capacità di apprendimento mnemonico parte avvantaggiato, ma questi non necessariamente ha fatto sul serio la pratica, la quale, come noto, non è solo saper memorizzare articoli su articoli.

La preparazione dell’esame orale è davvero una pessima esperienza: è praticamente impossibile sapere tutto e bene, e non vi sono certezze neppure sui programmi d’esame e sui testi di riferimento. Può sempre capitare il commissario che di diritto civile domandi il contratto autonomo di garanzia o si diletti a scendere nel dettaglio dei titoli di credito, oppure interroghi il candidato sfogliando il codice civile o il manuale e, di conseguenza, richiedendo una precisione che con ogni probabilità non sarebbe in grado di soddisfare egli medesimo se seduto dall’altra parte della scrivania.

Docenti peraltro non ci s’inventa e dunque si hanno commissari che non hanno la più pallida idea di come si debba condurre un esame orale, a partire dalla formulazione delle domande.

Ovviamente – lo si ribadisce - avere fatto la pratica può essere del tutto ininfluente ai fini dell’esame orale: chi si è occupato nella pratica di ogni campo del diritto civile? Chi si è districato con le norme del diritto processuale internazionale? La stessa domanda, peraltro, andrebbe rivolta a diversi commissari.

Del tutto raro – anzi, non mi risulta – è che le commissioni chiedano al candidato di illustrare ciò di cui si è realmente occupato negli anni di pratica e quali saranno i possibili scenari della sua attività professionale.

Si tralascia poi come taluni commissari si sentano investiti di una sorta di missione, quasi come se fosse possibile in un’ora scarsa d’esame – in cui il candidato si gioca davvero più di un anno di vita – distinguere tra cattivi e buoni futuri avvocati. Si aggiunga che in diversi fori, quasi sempre nordici, vige una sorta di regola per la quale non si possono promuovere tutti i candidati di una giornata: massimo rispetto per le statistiche che paiono necessitare ogni anno di puntuali conferme.

Tralascio la frustrazione di chi, a seguito di un esame orale siffatto, ha la disgrazia di essere bocciato e si trova a ricominciare tutto daccapo.

Se le cose stanno così – e di prove al riguardo se ne possono addurre davvero di numerose – si può allora concludere come l’esame, complessivamente considerato, sia in realtà finalizzato esclusivamente per arginare l’accesso alla professione, non già per garantire un’adeguata preparazione dei futuri avvocati.

Il fatto è che questa selezione non premia in alcun modo ciò che davvero conta per divenire veri professionisti: la pratica. Che senso ha struggersi sostanzialmente a gratis negli studi legali, se poi l’esame richiede una preparazione che può ben prescindere dalla pratica?

Inoltre, le modalità e gli scopi selettivi dell’esame non considerano in alcun modo le sofferenze, i sacrifici, i patimenti, gli investimenti ed i diritti di tutti coloro che devono passare attraverso questa travagliata trafila. Ad esempio, non è in alcun modo tutelato il fondamentale diritto ad un esame fondato su valutazioni oggettivamente trasparenti, cioè verificabili nella loro genesi e procedura.

Peraltro, ormai l’esame è diventato occasione di un notevole business: quello delle case editrici, quello degli avvocati, dei magistrati e di altri professionisti che affollano le aule dei corsi per la preparazione dell’esame. Non è qui in discussione la legittimità di questi corsi (stante le caratteristiche dell’esame, sono anzi più che necessari anche solo per dare serenità ai candidati), ma non si può omettere di considerare come gli stessi siano ampiamente il frutto di un esame che, così come impostato, pone troppo in ombra l’esperienza che dovrebbe risultare più importante per la futura carriera di un avvocato, cioè – lo si ribadisce – la pratica.

Ora, è davvero un “mito” pensare che un esame siffatto sia giusto o siano sufficienti alcuni blandi correttivi per modificarlo.

Fermo restando che la selezione del numero di avvocati la dovrebbe fare in primis il mercato e che i cattivi avvocati potranno sempre essere posti al bando dai Consigli dell’Ordine (la cui funzione nell’assicurare il rispetto delle norme deontologiche è per certo imprescindibile), non sarebbe forse più opportuno sviluppare un sistema che valorizzi davvero, sino in fondo, la fase dell’apprendimento del mestiere di avvocato?




Si potrebbe ad esempio restringere il campo di chi accederà alla professione forense a coloro che abbiano effettivamente svolto la pratica, eventualmente predisponendo una fase di apprendistato più lunga (ma adeguatamente retribuita e garantita da una tipologia contrattuale con garanzie minime valide per tutto il territorio nazionale) ed affiancando alla stessa l’obbligo di frequentazione di corsi di approfondimento (sostenuti dagli studi o, meglio, dall’ordine forense). A questo punto l’esame potrebbe ben svolgersi oralmente ed essere centrato sulla conoscenza delle norme deontologiche e sull’esperienza maturata nel corso della pratica, senza trasformare l’accesso alla professione in un disumano concentrato di esami universitari.

A prescindere dalle soluzioni che si possono escogitare, mi sembra comunque importante ribadire un concetto fondamentale, soprattutto in un contesto giuridico che si richiama costantemente alla tutela dei diritti della persona: la pratica e l’esame d’avvocato non possono continuare a viaggiare su binari che trascurano e sviliscono posizioni costituzionalmente garantite.
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