Mediare sempre,decidere mai

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connormaclaud
00domenica 2 febbraio 2014 11:28
[Esplora il significato del termine: È perfettamente comprensibile che tanti cittadini non colgano il legame che esiste fra ciò che accade e, presumibilmente, accadrà alle loro vite o a quelle dei loro figli, e questioni «astruse» come la legge elettorale o i propositi di riforma della Costituzione. Essi pensano che tali questioni siano di interesse solo per i politici di professione, per i giornalisti e per gli esperti accademici di istituzioni. Molti ritengono anche che occuparsi di riforme elettorali e costituzionali sia, per i politici, una sorta di alibi, un modo per eludere i problemi «veri»: l’occupazione, il reddito delle famiglie, eccetera. Se è comprensibile che essi non vedano quel legame è anche un fatto che si sbagliano. Le due cose sono collegate. Il problema italiano, quello che ci impedisce di porre le condizioni per il rilancio dell’economia, è l’immobilismo decisionale, il fatto che non sappiamo attuare quei radicali interventi che ci permetterebbero di affrontare con più ottimismo il futuro. Ma quell’immobilismo non è effetto del caso né, come vuole la vulgata anti-politica, dell’inadeguatezza dei nostri uomini di governo. Non è vero che i politici britannici o spagnoli o tedeschi, siano, mediamente, migliori dei nostri: i politici si assomigliano un po’ tutti. L’immobilismo, e le risposte inadeguate che diamo ai problemi (si veda, ad esempio, ciò che ha scritto Francesco Giavazzi sulla privatizzazione delle Poste, Corriere del 29 gennaio), sono conseguenze della frammentazione politica, del fatto che qualunque decisione debba passare attraverso infinite mediazioni, e si scontri con un grandissimo numero di veti. E la frammentazione è appunto figlia di un sistema istituzionale che, dopo averla generata, la perpetua. Non faremo mai gli interventi che servono per avere di nuovo crescita economica e dare così un futuro ai nostri figli se non riusciremo a ridurre drasticamente la frammentazione, se non riusciremo a tagliare le unghie ai tanti poteri di veto che oggi ci paralizzano, se non disporremo di una democrazia capace di decidere. Sta precisamente qui il legame fra la questione istituzionale e la vita di ogni giorno delle persone. L’immobilismo condanna il Paese alla decadenza e l’unico modo per uscire dalla trappola è fare quei cambiamenti istituzionali che possano rimettere in funzione il motore imballato. Se a molti cittadini sfugge quel legame, esso però non è mai sfuggito a coloro che resistono attivamente a qualunque cambiamento istituzionale di una qualche serietà. C’è, e c’è sempre stata, una sovrapposizione quasi perfetta fra gli adepti di quello che potremmo definire il «partito trasversale del socialismo reale» (all’italiana) e i cantori della «Costituzione più bella del mondo». Sono in realtà, più o meno, le stesse persone. Quelli che «la spesa pubblica non si tocca», quelli che «le tasse alte non sono un problema», quelli che «il mercato del lavoro non si tocca», eccetera eccetera . Sono gli stessi che difendono l’assetto istituzionale vigente, e la frammentazione che esso contribuisce a perpetuare. Essi difendono in realtà il proprio potere di veto, la propria capacità di impedire che l’immobilismo abbia termine. È vero, in venti e passa anni di discussioni sulle questioni istituzionali abbiamo abbondantemente annoiato i cittadini mettendo in competizione tante proposte di riforma elettorale o costituzionale, alcune delle quali, peraltro, davvero astruse. Ma si consideri che gli obiettivi sono sempre stati gli stessi: ridurre la frammentazione, indebolire i poteri di veto, dare ai governi maggior potere decisionale. Non importa il colore del gatto purché acchiappi il topo. Non importa che si segua la via britannica o quella spagnola o quella francese. Non conta insomma il «modello costituzionale» a cui ci si ispira. Importa che i succitati obiettivi vengano, in un modo o nell’altro, raggiunti. La legge elettorale oggi in discussione, in virtù dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, non è certo la migliore possibile ma è, a quanto pare, il massimo che si possa realisticamente realizzare nelle condizioni politiche attuali. Se porterà con sé anche la riforma del Senato e la fine del bicameralismo simmetrico o paritetico, l’accordo suddetto avrà comunque dato un significativo contributo alla riduzione della frammentazione e all’indebolimento, almeno parziale, dei tanti poteri di veto. Vedremo se ciò basterà per lottare, finalmente ad armi pari, con il partito immobilista, con il partito del socialismo reale. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per svoltare, per fermare il declino. ] È perfettamente comprensibile che tanti cittadini non colgano il legame che esiste fra ciò che accade e, presumibilmente, accadrà alle loro vite o a quelle dei loro figli, e questioni «astruse» come la legge elettorale o i propositi di riforma della Costituzione. Essi pensano che tali questioni siano di interesse solo per i politici di professione, per i giornalisti e per gli esperti accademici di istituzioni. Molti ritengono anche che occuparsi di riforme elettorali e costituzionali sia, per i politici, una sorta di alibi, un modo per eludere i problemi «veri»: l’occupazione, il reddito delle famiglie, eccetera. Se è comprensibile che essi non vedano quel legame è anche un fatto che si sbagliano. Le due cose sono collegate.

Il problema italiano, quello che ci impedisce di porre le condizioni per il rilancio dell’economia, è l’immobilismo decisionale, il fatto che non sappiamo attuare quei radicali interventi che ci permetterebbero di affrontare con più ottimismo il futuro. Ma quell’immobilismo non è effetto del caso né, come vuole la vulgata anti-politica, dell’inadeguatezza dei nostri uomini di governo. Non è vero che i politici britannici o spagnoli o tedeschi, siano, mediamente, migliori dei nostri: i politici si assomigliano un po’ tutti. L’immobilismo, e le risposte inadeguate che diamo ai problemi (si veda, ad esempio, ciò che ha scritto Francesco Giavazzi sulla privatizzazione delle Poste, Corriere del 29 gennaio), sono conseguenze della frammentazione politica, del fatto che qualunque decisione debba passare attraverso infinite mediazioni, e si scontri con un grandissimo numero di veti. E la frammentazione è appunto figlia di un sistema istituzionale che, dopo averla generata, la perpetua.

Non faremo mai gli interventi che servono per avere di nuovo crescita economica e dare così un futuro ai nostri figli se non riusciremo a ridurre drasticamente la frammentazione, se non riusciremo a tagliare le unghie ai tanti poteri di veto che oggi ci paralizzano, se non disporremo di una democrazia capace di decidere. Sta precisamente qui il legame fra la questione istituzionale e la vita di ogni giorno delle persone. L’immobilismo condanna il Paese alla decadenza e l’unico modo per uscire dalla trappola è fare quei cambiamenti istituzionali che possano rimettere in funzione il motore imballato.

Se a molti cittadini sfugge quel legame, esso però non è mai sfuggito a coloro che resistono attivamente a qualunque cambiamento istituzionale di una qualche serietà. C’è, e c’è sempre stata, una sovrapposizione quasi perfetta fra gli adepti di quello che potremmo definire il «partito trasversale del socialismo reale» (all’italiana) e i cantori della «Costituzione più bella del mondo». Sono in realtà, più o meno, le stesse persone. Quelli che «la spesa pubblica non si tocca», quelli che «le tasse alte non sono un problema», quelli che «il mercato del lavoro non si tocca», eccetera eccetera . Sono gli stessi che difendono l’assetto istituzionale vigente, e la frammentazione che esso contribuisce a perpetuare. Essi difendono in realtà il proprio potere di veto, la propria capacità di impedire che l’immobilismo abbia termine.

È vero, in venti e passa anni di discussioni sulle questioni istituzionali abbiamo abbondantemente annoiato i cittadini mettendo in competizione tante proposte di riforma elettorale o costituzionale, alcune delle quali, peraltro, davvero astruse. Ma si consideri che gli obiettivi sono sempre stati gli stessi: ridurre la frammentazione, indebolire i poteri di veto, dare ai governi maggior potere decisionale. Non importa il colore del gatto purché acchiappi il topo. Non importa che si segua la via britannica o quella spagnola o quella francese. Non conta insomma il «modello costituzionale» a cui ci si ispira. Importa che i succitati obiettivi vengano, in un modo o nell’altro, raggiunti.

La legge elettorale oggi in discussione, in virtù dell’accordo fra Renzi e Berlusconi, non è certo la migliore possibile ma è, a quanto pare, il massimo che si possa realisticamente realizzare nelle condizioni politiche attuali. Se porterà con sé anche la riforma del Senato e la fine del bicameralismo simmetrico o paritetico, l’accordo suddetto avrà comunque dato un significativo contributo alla riduzione della frammentazione e all’indebolimento, almeno parziale, dei tanti poteri di veto. Vedremo se ciò basterà per lottare, finalmente ad armi pari, con il partito immobilista, con il partito del socialismo reale. Condizione necessaria, anche se non sufficiente, per svoltare, per fermare il declino.


www.corriere.it/politica/14_febbraio_02/immobilismo-politica-frammentazione-istituzioni-panebianco-21b4a544-8bd9-11e3-a29b-8636964bc6...



Aggiungo: a dover essere messa in discussione non è solo l'architettura costituzionale ed istituzionale, ma il complesso normativo tutto.

trixam
00domenica 2 febbraio 2014 20:04
Panebianco ha fatto l'editoriale istituzionale per dire che il corriere ed i suoi grandi elettori sono favorevoli alla legge elettorale proposta.

I suoi argomenti però sono solo in parte condivisibili. Due punti in particolare sono molto deboli.

Il primo è che la legge elettorale possa produrre la stabilità politica, questa è una cosa con cui in Italia ci si trastulla da venti anni o forse più senza capire che è un falso logico e politico. Un sistema politico stabilizzato crea una legge elettorale che funziona, non il contrario.
Se anche la legge obbligasse a fare due soli cartelli elettorali in una specie di bipartitismo niente impedirebbe poi in parlamento che ci siano scissioni e la nascita di gruppi parlamentari autonomi come è avvenuto nelle ultime legislature, a meno di non voler sposare la teoria dei gonzi che vogliono abolire il divieto di mandato imperativo che invece è una norma fondamentale di garanzia.
La roadmap di un paese in crisi istituzionale come l'italia dovrebbe essere il seguente: A) stabilizzazione sistema politico; B) Riforma della costituzione; C) varo di una legge elettorale che sia la logica conseguenze di A e B.
Invece in italia si cerca di fare una legge elettorale per stabilizzare il sistema politico nella speranza di riformare la costituzione.

Il secondo punto debole è l'assoluzione implicita che Panebianco fornisce a questa classe dirigente con l'alibi della frammentazione.
Quello che dice Panebianco si presta ad un semplice controfattuale: come mai quando c'è da fare una cazzata il sistema istituzionale non influisce? Pensiamo tra i tanti possibili esempi ad Alitalia, un'azienda fallita che grazie al suo potere lobbystico su tutto lo schieramento politico viene tenuta in vita artificialmente con i soldi di quel coglione del contribuente italiano.
In casi del genere il sistema politico va come un freccia rossa a dimostrazione che quando vuole può e che la frammentazione ed i poteri di veto sono solo scuse con le quali fregare i militonti.

Il tema di fondo è sempre quello della qualità della classe dirigente e del suo ruolo. Anche i commentatori seri come Panebianco cincischiano attorno al nodo di questa crisi economica ed istituzionale facendo finta di non vederlo, cioè che il sistema sociale italiano è insostenibile e totalmente inadeguato ad affrontare le sfide davanti alle quali l'italia si trova. Quel sistema andrebbe radicalmente riformato ma qui si pone il famoso problema del
time inconsistency, perché riformare il sistema significherebbe cancellare la classe dirigente che di quel sistema è l'espressione.

Si tratta di un classico problema di principal-agent problem sul quale vi è ampia letteratura scientifica.
Un esempio di un buon paper che se ne occupa per chi fosse interessato.
faculty.washington.edu/jwilker/571/571readings/Miller.pdf

GLi incentivi che ha la classe dirigente attuale sono di tirare a campare e resistere fino all'ultimo uomo, per questo stanno trasformando il paese in una specie di gigantesco carcere fatto di desertificazione industriale, pressione fiscale folle, distruzione del mercato che producono come reazione fiammate populistiche che sono politicamente sterili. Ridurranno il paese in cenere prima di mollare.
connormaclaud
00lunedì 3 febbraio 2014 15:32
Strano a dirsi,ma condivido.
Il problema è' l'assenza di consapevolezza dal basso, sono i cittadini ad incitare questo circo.
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