L'IRAQ VINCERA'- di Wu Ming 4

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Qoelet
00martedì 20 aprile 2004 22:38
L'Iraq vincera'. Ma nessuno vincera' in Iraq.
Quella a cui stiamo assistendo e' la piu' grande defaillance politico-militare della storia dell'Occidente moderno. Metafora e concretizzazione della fine dell'Occidente stesso.
L'idea folle e nazista che uno scontro di civilta' potesse risolvere il disastro neo-liberista porta il mondo al suo punto di collasso. La' dove la pulsione di morte insita nella nostra incivilita' voleva arrivare. La' dove la concezione possidente, acquirente, dell'esistenza doveva giungere: il mondo va consumato, sfruttato, bruciato e niente piu' delle bombe consegue la stessa efficacia economica.

Le oligarchie capitaliste dell'Estremo Occidente, abbandonata la maschera del liberismo dal volto umano, hanno scommesso tutto sul piano del conflitto bellico per affrontare la crisi. Dimenticando che quando non si ha piu' niente da offrire in cambio dell'obbedienza, se non la minaccia di morte, non e' detto che all'avversario importi piu' granche' della vita.
Il kamikaze e' l'arma piu' micidiale ed efficace della storia. Nessun bombardiere puo' competere con un tizio qualunque che si siede accanto a te al ristorante o alla stazione della metropolitana con uno zainetto in spalla. Questo le oligarchie petrolifere arabe lo sanno bene. La religione e' soltanto la copertura ideologica prescelta per mettere in atto la strategia in un determinato contesto culturale. Ma soprattutto sanno che il soldato occidentale che punta il fucile sul ragazzino con lo zainetto non ha scelta. Se lo lascia venire avanti, salta in aria e muore. Se gli spara, uccide un bambino. Comunque vada, la guerra dell'Occidente e' persa in partenza.

In Iraq l'Alleanza Occidentale paga il conto della spocchia, dell'ignoranza, dell'ipocrisia, dimostrate nel volersi proporre come forza liberatrice mondiale. In Vietnam sono occorsi anni prima che si giungesse a un livello analogo di stillicidio e ingestibilita' della situazione. In Iraq sono bastati dodici mesi. Incredibile che qualcuno al Pentagono non abbia tenuto conto dell'assioma di Sun Tzu: mai chiudere le vie di fuga al nemico, chi e' posto davanti alla morte combatte, chi ha le spalle al muro e' l'avversario piu' temibile.
Le bande armate che reagiscono all'occupazione straniera dell'Iraq non sono il Vietminh, almeno quanto non lo sono i bombaroli fanatici che si fanno esplodere nelle stazioni. Ma tutti assieme sono l'armata all'altezza della sfida che gli americani hanno lanciato, all'altezza dei tempi impazziti che viviamo. L'esercito dei folli, dei fascisti, dei disperati. Come Bush e chi lo segue.

Il risultato politico e' che l'Alleanza Occidentale si sta sfasciando, i governi bellicisti cadono o si apprestano a cadere. Due anni fa Bush metteva una taglia sulla testa di Bin Laden e lo braccava nelle grotte afgane. Oggi Bin Laden si concede il lusso di proporre una tregua agli alleati europei dell'America. Una tregua che se non stesse in bocca a un petroliere fascista, fanatico e molto "americano", suonerebbe perfino ragionevole: se voi smettete di attaccarci, noi smettiamo di attaccarvi.

Quando un anno fa scrivevamo sulle pagine di "Carta" che Bush avrebbe perso la guerra, qualcuno all'interno del movimento dei movimenti ci liquido' con sufficienza, accusandoci di non voler guardare in faccia l'onnipotenza imperiale e di volerci rifugiare in un pacifismo innocuo ed ecumenico. La storia invece sta dimostrando il contrario: il vero struzzo e' chi si nasconde dietro l'idea che i Grandi Piani mondiali possano essere progettati e portati a compimento a tavolino, per puro dispiego di forza, lasciandoci solo la possibilita' di un generico e testimoniale ribellismo.
Non esiste un piano che possa prevedere tutto, e quello di Bush e dei suoi alleati era davvero un piano ben misero e negligente. Per questo, ancora piu' disastroso e terribile. Per questo, per l'assoluta mancanza di conoscenza, di prospettiva, di intelligenza (anche perversa), porta a una catastrofe di dimensioni incalcolabili. Lo scontro di civilta' non ha in palio niente, se non forse la fine di ogni margine di convivenza e vivibilita' sul pianeta. L'Impero era un sogno velleitario gia' crollato.

Contro il rinculo delle utopie senescenti novecentesche che divorano il globo, rimane l'utopia senile di chi non ha nulla da perdere, per il semplice fatto che il capitalismo armato non ha piu' niente da offrire eccetto la guerra. Contro la pulsione di morte rimane la vita. Su cui vale la pena scommettere tutto cio' che resta del giorno. E per cui lottare e resistere, affrontando il peggio quanto piu' collettivamente possibile.
Un'ostinata impeccabilita' e uno sprezzante sorriso della ragione, fossero anche un lusso in mezzo all'apocalisse, sono la condizione necessaria per rimanere vivi e continuare a difendere i mondi diversi e possibili che portiamo con noi.
(17 aprile 2004)
Qoelet
00martedì 20 aprile 2004 22:52
[Lalo ci segnala questo stralcio di un articolo di Karl Marx apparso sul New York Daily Tribune il 5 giugno 1857. Qualunque riferimento a "esportazioni di democrazia" attualmente in corso e', com'e' ovvio, casuale.]

«[...] Oggi, fra i cinesi, regna manifestamente uno stato d'animo ben diverso da quello della guerra 1840-42.
Allora il popolo non si mosse: lascio' che i soldati imperiali lottassero contro gli invasori e dopo ogni sconfitta si inchinarono con fatalismo orientale alla volonta' superiore del nemico.
Ora invece, almeno nei distretti del Sud ai quali il conflitto e' rimasto finora limitato, le masse popolari partecipano attivamente, quasi con fanatismo, alla lotta contro lo straniero. Con fredda premeditazione, esse avvelenano in blocco il pane della colonia europea di Hong Kong (Liebig pote' stabilire in alcune pagnotte, che gli erano state mandate in esame, la presenza diffusa ed uniforme di grandi quantita' di arsenico: segno indubbio che il veleno era gia' stato lavorato nella pasta. Ma la dose era cosi' potente che agi' come ematico, annullandone gli effetti mortali).
I cinesi salgono armati sulle navi mercantili, e durante il viaggio massacrano la ciurma e i passeggeri europei. Si impadroniscono dei vascelli. Rapiscono e uccidono qualunque straniero capiti vivo nelle loro grinfie. Perfino i coolies a bordo delle navi di trasporto degli emigranti si ammutinano come per un intesa segreta, lottano per impossessarsi degli scafi, piuttosto che arrendersi, colano a picco con essi o muoiono nelle loro fiamme. Anche i coloni cinesi all'estero - finora i sudditi piu' umili e remissivi - cospirano e, come a Sarawak, insorgono in brusche rivolte o, come a Singapore, son tenuti in scacco solo da un rigido controllo poliziesco e dalla forza.
A questa rivolta generale contro lo straniero ha portato la brigantesca politica del governo di Londra, che le ha imposto il suggello di una guerra di sterminio.
Che cosa puo' fare un esercito contro un popolo che ricorre a questi mezzi di lotta? Dove, fino a che punto, deve spingersi in territorio nemico? Come puo' mantenervisi?
I trafficanti di civilta', che sparano a palle infuocate contro citta' indifese, e aggiungono lo stupro all'assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie.
Se i rapimenti, le sorprese, i massacri notturni vanno qualificati di codardia, i trafficanti in civilta' non dimentichino che, come hanno essi stessi dimostrato, i cinesi non sarebbero mai in grado di resistere coi mezzi normali della loro condotta di guerra, ai mezzi di distruzione europei.
Insomma, invece di gridare allo scandalo per le crudelta' dei cinesi (come suol fare la cavalleresca stampa britannica), meglio faremmo a riconoscere che si tratta di una guerra pro aris et focis, di una guerra popolare per la sopravvivenza della nazione cinese - con tutti i suoi pregiudizi
altezzosi, la sua stupidita', la sua dotta ignoranza, la sua barbarie pedantesca, se volete, ma pur sempre di una guerra popolare. E in una guerra popolare i mezzi dei quali si serve la nazione insorta non si possono misurare ne' col metro corrente nella guerra regolare, ne' con altri criteri astratti, ma solo col grado di civilta' che il popolo in armi ha raggiunto [...]»

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