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Referendum sull'acqua: le ragioni del No

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2011 13:40
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05/06/2011 15:57
 
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L’acqua “diritto umano”, con rispetto parlando, è difficile bersela. Eppure c’è scritto nella risoluzione Onu del 28 luglio 2010, approvata con 122 voti a favore (tra cui quello italiano) e 41 astensioni, tutte motivate da esplicite perplessità di paesi che vanno dalla Danimarca al Botswana. La risoluzione “esprime profonda preoccupazione per i circa 884 milioni di persone prive di accesso all’acqua potabile e i più di 2,6 miliardi che non hanno accesso ai basilari servizi sanitari”. Da qui la conclusione che “l’acqua potabile e i servizi sanitari sono parte integrale della realizzazione di tutti i diritti umani”.

Ora, le parole sono belle, e quelle che descrivono un mondo coi fiumi di miele e le case di marzapane specialmente. Però, definire qualcosa un diritto non fa comparire per miracolo le infrastrutture dove le infrastrutture non ci sono, e non bagna – di per sé – le labbra agli assetati. Non fa miracoli, tra l’altro, quando le rotonde enunciazioni dei diritti sono contenute in una risoluzione non vincolante che, come scrive l’Ocse con tono talmente serio da apparire canzonatorio, “stabilisce che i governi dovrebbero garantire l’accesso all’acqua potabile, ma non dice come tale accesso dovrebbe essere garantito, né che dovrebbe essere gratuito”.

Dietro queste silenziose schermaglie tra istituzioni internazionali non c’è solo l’apparente incomunicabilità tra economisti e giuristi (o politici). Né si può ridurre tutto alla mera tensione tra il “vorrei ma non posso” dei diritti e il brutale “vuoi qualcosa? Compralo” dei cinici. Nel mezzo c’è una faccenda dannatamente concreta. I numeri dell’Onu sono veri e terribili: un sesto della popolazione mondiale beve poca acqua e sporca, e quasi la metà non è servita da alcun sistema fognario (e lasciamo perdere, per carità di patria, la depurazione dei reflui).

Da qui, la querelle sulla privatizzazione. Che è pura aggressione ideologica e immotivata contro i privati. Quando dovrebbe essere ricerca pragmatica di soluzioni che funzionino, se non in modo perfetto, almeno in modo accettabile. La prima e più banale osservazione è che, poiché l’acqua è generalmente gestita dallo stato, l’insoddisfacente livello di copertura è indice della non sempre straordinaria efficienza degli enti pubblici e dei decisori politici. Perché un primo punto su cui bisogna mettersi d’accordo è questo: l’acqua non è un “bene pubblico” nel senso specifico che a questa espressione danno gli economisti, cioè un bene il cui consumo sia “non rivale” e “non escludibile” quale, per esempio, la difesa nazionale. Può essere un bene pubblico nel senso che è di proprietà dello stato: ma allora è mera evidenza descrittiva. Può essere un “bene comune”, qualunque cosa significhi, come dice Stefano Rodotà nell’esercizio un po’ funambolico di immaginare “una forma di gestione comune” (sì, ma gli investimenti chi li decide? E i costi chi li paga?). L’acqua può persino essere “un grande dono di Dio che non può essere trasformato in merce”, come ha scritto padre Alex Zanotelli, ma il buon Dio non ci ha dato potabilizzatori, pompe, condotte, stazioni di sollevamento, depuratori e quant’altro. Ci ha detto che, volendo la bicicletta, dobbiamo pedalare, e pedalare costa fatica – o, in questo caso, denaro. L’acqua è, insomma, un “bene economico”, cioè scarso, e questo vale a maggior ragione per la fornitura del servizio che noi, semplificando, chiamiamo il diritto all’acqua. Il Padreterno, insomma, ci ha dato il diritto di abbeverarci al fiume e pisciare nel mare, ma se vogliamo che l’acqua potabile esca dal rubinetto di casa e che i nostri liquami non scorrano lungo le strade (con tutte le conseguenti esternalità negative), dobbiamo rivolgerci agli uomini. Dai e dai, e anche grazie al sostegno di istituzioni quali la Banca mondiale e l’Ocse, si è così arrivati alla “privatizzazione”, ossia al coinvolgimento – in varie forme – di attori privati nella realizzazione e gestione (anche commerciale) delle infrastrutture idriche e fognarie. Coinvolgimento che, ovunque nel mondo, presuppone un forte e attivo ruolo pubblico di regolazione e sorveglianza, che forse è meno sexy ma che nasconde l’hic Rhodus, hic salta di qualunque ragionamento serio.

Le forme di “privatizzazione” sono molto diverse tra di loro, e molto diversi sono i risultati, ma generalmente positivi. Per esempio, Cuba ha privatizzato l’acqua dell’Avana nel 2000, firmando una concessione venticinquennale con Aguas de la Habana (una sussidiaria del gruppo spagnolo Aguas de Barcelona). Nel suo libro “Acqua in vendita? Come non sprecare le risorse idriche” (Ibl Libri, pp. 174, 15 euro), Fredrik Segerfeldt passa in rassegna molte esperienze di privatizzazione nel mondo in via di sviluppo, osservando “nel mondo reale dobbiamo confrontare alternative imperfette e stabilire quale funziona meglio. Se mettiamo a confronto la distribuzione d’acqua pubblica e quella privata, i fatti dimostrano che l’alternativa privata, in generale, è sempre stata molto superiore”. Perfino quando non sono stati raggiunti i risultati sperati – e sovente ciò è accaduto per colpa di una cattiva regolazione – le cose sono migliorate rispetto alle precedenti gestioni pubbliche. In Bolivia – paese che dopo l’avvento di Evo Morales nel 2006 ha dichiarato guerra alle gestioni private – “nel 2003, in un sondaggio condotto dal governo boliviano, Aisa (il gestore idrico di La Paz ed El Alto) venne votata come la migliore azienda del settore”. In meno di un decennio, Aisa ha allungato le condutture di 1.430 chilometri, dando accesso all’acqua corrente al 98,5 per cento della popolazione e allacciando 373.000 persone in più all’acquedotto e 435.000 alla fognatura. Nelle nazioni povere, infatti, l’acqua non è un diritto in nessun senso del termine: e, in generale, il coinvolgimento di attori privati ha consentito di allargare le opportunità d’accesso. Alzando le tariffe per chi già era allacciato alla rete (generalmente i ceti urbani medio-alti), ha potuto raggiungere le periferie più povere, che in precedenza si rifornivano presso venditori d’acqua più o meno legali, virtualmente in assenza di controlli sanitari e soprattutto, dice Segerfeldt, pagandola “in media 12 volte più cara di quella che avrebbero in rete, e in alcune occasioni ancora di più”.

Straordinario è, in questo senso, il caso della Guinea. Fino al 1989, solo il 20 per cento della popolazione urbana poteva aprire il rubinetto: dodici anni dopo, grazie all’avvio di una partnership pubblico-privato, erano diventati il 70 per cento. Naturalmente, questa evoluzione non è stata priva di costi: la tariffa è lievitata da 15 centesimi a quasi un dollaro per metro cubo. Ma la domanda cruciale è: chi ha subito il rincaro? Principalmente, il 38 per cento della popolazione urbana nelle dieci città già allacciate ai tubi: l’aumento tariffario è stato invece un’opportunità per tutti gli altri, cioè il 70 per cento degli abitanti di 18 città, che oltre tutto hanno goduto dell’ulteriore esternalità positiva della maggiore igiene sulla salute pubblica. Un successo, va da sé, non nasconde gli insuccessi: per esempio il caso clamoroso di Buenos Aires, bandiera del movimento anti privatizzazione, con l’annullamento nel 2006 della concessione affidata ad Aguas Argentina nel 1993.

Dietro lo scontro tra i privati e il governo ci sono tante brutte vicende – da un contratto di servizio poco chiaro fino a episodi di corruzione – ma il tracollo venne causato da ragioni di politica monetaria, con l’impossibilità per il gestore di adeguare le tariffe (espresse in valuta argentina) ai costi (perlopiù in dollari). Quella di Buenos Aires è anche una storia di cattiva regolazione. Tutto ciò non nasconde i clamorosi risultati raggiunti: in pochi anni vennero allacciati più di 3 milioni di nuovi utenti, l’85 per cento dei quali nelle zone più povere. Il “fallimento”, insomma, va messo nella prospettiva della crisi argentina, e in ogni caso ha lasciato in eredità un sistema idrico migliore di quello di cui i privati si erano fatti carico.

Nel “nostro” mondo, naturalmente, le cose stanno diversamente. Pressoché tutti hanno l’acqua corrente, e il problema è semmai di altro tipo: in casi patologici l’“oro blu” non rispetta la prescrizioni sui livelli di certi inquinanti (come l’arsenico, oggetto di molte deroghe contestate all’Italia dall’Unione europea). Mentre è “fisiologico” lo stato di degrado delle condotte e l’insufficienza del servizio di depurazione. Queste sono le ragioni per cui è necessario, anche in Italia e nel mondo industrializzato, mobilitare investimenti. Come è accaduto dove ci si è provato: il Regno Unito, ha privatizzato le sue dieci “Water Authorities” nel 1989, affidando i compiti di regolazione a un organo indipendente, Ofwat, ha avuto risultati lusinghieri. Secondo la Banca mondiale, nei sei anni successivi gli investimenti sono cresciuti da 9,3 a 17 miliardi di sterline, sono stati raggiunti standard ambientali e sanitari più stringenti, e la qualità dell’acqua è migliorata. E se è vero che Parigi ha recentemente deciso di ripubblicizzare l’acqua (dopo 150 anni di gestione privata), è anche vero che diverse nazioni, specialmente nell’Europa dell’est, hanno seguito con soddisfazione la strada opposta, mentre nel mondo in via di sviluppo il numero di persone servite da gestori idrici privati è esploso da 6 milioni nel 1991 a 160 milioni nel 2007.

Ed è qui che emerge la superiorità, se non del privato, almeno di un modello che consenta, volta per volta, di chiamarlo in campo oppure no, e di indurre pure il pubblico a comportarsi secondo criteri “privatistici”. Ci sono tre aspetti di grande importanza.
Uno riguarda gli incentivi: un’impresa privata è spinta a fare profitti, e quindi è naturalmente indirizzata a tagliare, non gonfiare, i costi (dato un certo livello di prestazione). Una buona regolazione – che è essenziale poiché l’infrastruttura idrica è un “monopolio naturale” – può trasferire parte di questo beneficio al consumatore. Viceversa, un soggetto pubblico, che non corre il rischio reale di sanzioni o di perdere l’affidamento, può diventare strumento clientelare nelle mani dei politici. Secondariamente, la dialettica tra regolatore e regolato tende a essere più efficace e trasparente se essi sono distinti: quando invece entrambi vengono nominati dallo stesso soggetto, allora il loro confronto tende a sfumare in un conflitto di interessi il cui punto di caduta è, probabilmente, la cattura del regolatore. Terzo, data la crescente complessità del settore idrico – che non è più fatto di soli tubi – i privati, per dimensione e vocazione, in genere sanno “fare meglio” il proprio lavoro. Possono esserci (e ci sono) casi di eccellenza nel pubblico e fiaschi clamorosi nel privato, ma gli uni e gli altri è facile che siano l’eccezione, non la regola.

Tutto ciò ha di per sé poco a che fare coi meccanismi tariffari. Si può affidare il servizio idrico a un privato oppure al pubblico, e praticare in entrambi i casi le politiche tariffarie più diverse. In generale, è buona prassi coprire la maggior parte dei costi (possibilmente tutti) con la tariffa, limitando al massimo i contributi in conto capitale da parte degli enti pubblici affidatari. Questo perché, da un lato, l’obbligo di soddisfare le spese coi ricavi “commerciali” è di per sé un incentivo a comportarsi bene; dall’altro perché, dal punto di vista redistributivo, è opportuno che chi consuma, paghi; dall’altro ancora perché far pagare un prezzo inferiore al necessario induce il consumatore allo spreco. Quali alternative sono possibili? Dice il referendario Corrado Oddi, intervistato da Luca Martinelli (autore anche di un intelligente pamphlet pro referendum, “L’acqua (non) è una merce”, Altreconomia, pp. 151, 12 euro): “Facciamo scendere in campo la finanza pubblica e la fiscalità generale”. Ma, in questo modo, si innescano distorsioni le più pervese. Antonio Massarutto, nel suo bel libro “Privati dell’acqua?” (Il Mulino, pp. 252, 16 euro), spiega che “se la tariffa non si fa carico di ricostituire il capitale iniziale, vuol dire che la generazione dei nonni e quella degli adulti omettono di pagare qualcosa, il cui costo ricadrà sui figli”. Infatti, l’infrastruttura idrica ha una vita tecnica molto lunga – a volte nell’ordine del secolo – ma nel frattempo deve essere manutenuta, e alla fine ricostruita. Sempre che gli investimenti vengano fatti: se si vuole impedire alla tariffa (o alla spesa pubblica) di crescere, basta non investire. Ma bisogna essere consapevoli delle conseguenze.

A volte, comunque, aumentare i ricavi da tariffa significa soltanto costringere tutti a pagare, essere meno tolleranti coi morosi. Anche la riscossione dei crediti è un’attività che i privati sanno (e vogliono) fare meglio.

Le obiezioni ai rischi delle “privatizzazioni” rasentano il paradosso: come scrive Franco Bassanini nell’introduzione al libro di Claudio De Vincenti e Adriana Vigneri (“I servizi pubblici locali tra riforma e referendum”, Astrid, pp. 168, 18 euro), “se un ente locale non è capace di indirizzare e controllare, non sarà neanche capace di indirizzare, controllare e gestire”.

Parte del problema sta nella confusione più o meno deliberata tra “privato” e “profitto”, come se “guadagnare sull’acqua” fosse immorale. Il fatto è che qui non ci sono né il tempio né i mercanti: la “privatizzazione” non è il cavallo di Troia del profitto, ma lo strumento per attirare imprese specializzate. In presenza di una buona regolazione, la capacità di fare profitti è indice anzitutto di efficienza, e quindi dello sforzo di mantenere bassi i costi operativi (e magari ridurli). Inoltre, profitti “troppo alti” sono chiaramente visibili al regolatore, che può intervenire – nei modi e nei tempi opportuni – per riallineare la tariffa (attraverso il metodo del “price cap”). Viceversa, un’impresa pubblica formalmente in pareggio, in assenza della spada di Damocle della gara, potrebbe essere semplicemente spendacciona, e trasformare l’extraprofitto monopolistico – anziché in un luminoso attivo di bilancio – nell’elargizione opaca di commesse a fornitori amici o nel mantenimento di un organico sovradimensionato (ciò che gli economisti chiamano x-inefficiency).

In ultima analisi, insomma, a dispetto della comprensibile retorica che desta, l’acqua richiede di stare coi piedi per terra. Qualunque decisione non riguarda solo le tasche dei cittadini, ma anche il rapporto tra lo sviluppo umano e l’ambiente. E’ proprio l’attenzione all’impatto ambientale del ciclo dell’acqua che ha spinto un’associazione ambientalista come gli Amici della Terra a schierarsi contro il referendum del 12-13 giugno: “Una buona parte degli obiettivi di tutela ambientale delle acque dipende dagli investimenti per colmare il deficit depurativo e per un efficace funzionamento del ciclo integrato dei servizi idrici”. In sostanza, l’acqua ha bisogno di attenzione, discrezione e pragmatismo. Lo scontro tra pubblico e privato è in parte fuorviante, ma sarebbe sbagliato sottrarsi.

Molte città in giro per il mondo, dall’Avana fino a Londra, si sono affidate con soddisfazione a gestori privati. Chiedere la piena privatizzazione (come ha fatto l’Ocse per il nostro paese) forse è politicamente irrealistico. Ma chiedere in Italia che i capitalisti dell’acqua siano trattati almeno con lo stesso rispetto che gli è riservato a Cuba è pretendere troppo?

Carlo Stagnaro
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05/06/2011 17:36
 
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Legittima l'opinione postata da Trixam perchè, credo, da lui condivisa. Legittimo l'articolo di Stagnaro: anche lui in fondo cerca una soluzione terza tra opposte tendenze (tutto al pubblico o tutto ai privati), in nome degli investimenti e dell'efficienza della gestione e avverte che non bisogna essere semplicistici di fronte a questioni complesse. Il nodo è la regolazione. Personalmente ritengo che i beni relativi a servizi di interesse generale (ci metto anche la formazione scolastica e universitaria e la tutela della salute, nonché linee almeno essenziali di traporto e impianti telefonici e telematici di base; si potrebbe invece privatizzare del tutto la radiotelevisione, salvo un canale snello di servizio)debbano essere in linea di principio pubblici e che il pubblico debba gestire secondo queste direttive: far pagare di più chi può, ma di meno o nulla a chi non può, secondo controlli rigorosi e sanzioni a chi imbroglia (il sevizio deve essere universale), amministrare bene soldi di tutti (nessuna lottizzazione partitica: prevedere anche gestioni a controllo popolare, con rappresentanti di utenti e consumatori eletti nei consigli di amministrazione ed eventualmente revocabili in sede di verifica periodica sul raggiungimento degli obiettivi), mantenere efficienti gli impianti. Un pubblico (meglio: un collettivo, anche sulla base dell'art. 43 comma, Cost., nella parte - moderna, ma mai attivata - della gestione da parte di comunità di utenti...) efficiente, non certo sprecoe, clientelare e speculativo. Utopia? Fore, ma non meno di quella di chi crede alla favola del filantropismo privato...
Voterò perciò con convinzione sì, come negli altri referendum, su tutti i quali spero che si raggiunga il quorum, ma consapevole che la battaglia è solo all'inizio. Un sì bloccherebbe la legittimazione della speculazione sui beni comuni, poi c'è da costruire l'efficiente gestione sotto (ribadisco) controllo collettivo
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05/06/2011 18:39
 
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Io nella filantropia non ho mai creduto, né in quella dei privati né in quella dello stato sociale.
Non ho mai creduto nemmeno alle posizioni fideistiche, del tipo che votando Si ci si schiera contro la speculazione sui beni comuni. Nel referendum di domenica prossima non si vota pro o contro la speculazione. Giusto per ripetere il concetto, la proprietà dell'acqua rimane pubblica in ogni caso, essa è stata affermata in una legge del 1994, la legge Galli, e ribadita dalla legge Napolitano Vigneri. Quello su cui si vota è la GESTIONE dell'acqua.
La legge Ronchi prevede che la gestione dei sistemi idrici sia affidata tramite una gara pubblica a cui possono partecipare ANCHE i soggetti privati, in alternativa prevede che le municipalizzate possono continuare nella gestione ma con l'obbligo di trovare un partner industriale, da individuare sempre tramite gara ad evidenza pubblica, fondando società miste in cui i comuni potranno detenere al massimo il 60% del capitale sociale. Questa è la materia del contendere.

Si tratta di una legislazione che si adegua non solo alle normative europee, ma alla strada scelta dai paesi più avanzati in tema di implementazione dell'offerta dei servizi pubblici.
Se davanti a questo mi si dice che si preferisce che sia lo stato ad occuparsi anche della gestione, io posso non essere d'accordo, ma quando si aggiunge che però deve essere uno stato diverso da quello che è ed è sempre stato, allora non riesco più nemmeno a capire.
Specialmente quando si tratta di uno stato come il nostro dove nelle aziende pubbliche è lottizzata anche l'assunzione del vice aiutante parcheggiatore.
Dare allo stato la gestione e la regolazione significa favorire il conflitto di interessi che in altri settori tanto denunciamo e consegnarci mani e spiedi alla spirale perversa delle lottizzazioni, con la nomina del dirigente amico che poi fa assumere tutta la famiglia del politico che l'ha nominato e poi affida l'appalto truccato all'imprenditore che è amico del politico di riferimento e che per farselo assegnare paga la tangente ecc.... mentre i conti dell'azienda vanno allo sfascio e per aggiustarli si ricorre alla tasca di pantalone, cioè lo stato, che i soldi li prende dai soliti noti, con l'aumento della spesa pubblica che comporta l'aumento della pressione fiscale, l'unica classifica che ormai il nostro paese scala in europa.

Il secondo problema è quello delle tariffe. Per come è prospettata la disposizione normativa, anche io ho dei dubbi e temo che possa nascondere una forma di rendita. Resta indubitabile però che portare l'acqua nelle case( e penso alle migliaia di persone che in regioni come la sicilia il bene pubblico ancora non lo hanno) ha un costo enorme e non è mai gratis.
Secondo una stima di federutility la manutenzione dei nostri sistemi idrici(che perdono il 37% del carico, una indecenza) costerà 64 miliardi di euro. Escludendo che questi soldi li tiri fuori la divina provvidenza, da qualche porta bisognerà trovarli. Dunque chi paga?
Le strade sono due: o la tariffa copre tutti o gran parte dei costi, o si va a carico della fiscalità generale, in ogni caso non è gratis niente. Ora in un paese come l'Italia dove solo il 2% dei contribuenti dichiara di guadagnare più di 70.000 euro e dove denunciamo sempre il fatto che c'è una gigantesca evasione fiscale, siamo sicuri che la scelta di pagare con la fiscalità generale sia la più socialmente giusta? O invece è quella che favorisce la possibilità per i furbi di sottrarsi alla partecipazione dei costi?


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05/06/2011 19:15
 
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Molto di quello che dice Trixam è realistico: lottizzazione spinta nelle assunzioni pubbliche, costo degli interventi che vanno perciò incentivati e remunerati, scandalo delle perdite eccessive d'acqua, ecc... Conosco il contesto, ma conosco anche i privati in giro e le gare che "vincono": ci capiamo? Come inoltre dovrebbe essere noto, camorra e mafia non sono estranei nemmeno a tale settore...Insisto: non attribuisco valore fideistico ai referendum, ma non mi appecorono davanti alle privatizzazioni (e non sto dicendo, beninteso, che lo faccia Trixam); perciò propongo l'ingresso di privati - ma no-profit e rappresentanti di associazioni di utenti e consumatori - in questo e negli altri settori dei servizi essenziali, il cui controllo deve restare pubblico, insisto. Non si discute della proprietà del bene, ma della gestione? Certo, chi ha detto diversamente? Solo che, ai fini dell'utente finale, il risultato (potenzialmente esoso e disuguagliante) è lo stesso. Che cosa volete farci? Ognuno ha le sue rigidità e io sono un socialista (ma vecchio stile, avete presente Riccardo Lombardi?). I referendum abrogativi hanno del resto sempre un valore immediato e un senso più largo e simbolico; il liberismo - liberalismo (corretto e proprio di una borghesia "etica", se in Italia esistesse) non mi dispiace in sé, ma di quello arraffone e alle vongole che c'è da noi ne faccio volentieri a meno: avete presente (e non per sparare sulla Croce Rossa, visto che lo dicevo fin da quando l'hanno candidato a sindaco di Napoli...) il personaggio Lettieri?
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05/06/2011 19:26
 
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molto giusto e molto interessante quello che scrivi,Trixam, ma io credo che votare si sia una prova di civiltà e di democrazia vera
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06/06/2011 08:43
 
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MITO numero uno: gli acquedotti "pubblici" sono dei colabrodo. "Falso: secondo i dati di Mediobanca, il peggiore, se consideriamo la dispersione idrica (litri immessi in rete e non fatturati/abitanti/lunghezza della rete gestita), è quello di Roma, dove l'acquedotto è affidato ad Acea, una spa quotata in borsa i cui principali azionisti sono il Comune di Roma, Francesco Gaetano Caltagirone e Suez". In vista del referendum del 12 e 13 giugno, Altraeconomia ha pubblicato un dossier "speciale" 1. Lo scopo? Sfatare punto per punto tutte le false credenze nate intorno alla privatizzazione del servizio idrico italiano. A partire dai costi. Secondo il Conviri (Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche), per i prossimi 30 anni servono circa 64 miliardi di euro per la manutenzione e l'ammodernamento delle reti idriche di casa nostra. Due miliardi l'anno, una cifra standard necessaria in ogni caso, a prescindere dall'esito del referendum. Di questi, il 49,7% è diretto al comparto acquedottistico (per nuove reti, impianti e per manutenzione) mentre il 48,3% alle fognature e alla depurazione. A metterci i quattrini dovrebbero essere lo Stato, le Regioni e i Comuni d'Italia dato che quelli - spiega Pietro Raitano, direttore del mensile Altreconomia e curatore del dossier Speciale Referendum - sono "soldi delle nostre tasse, gli stessi che vengono usati anche per riparare le strade, per costruire il ponte sullo Stretto o per la Difesa".



Ed ecco sfatato il secondo mito. Con l'ingresso dei privati, la bolletta non si ridimensionerà. Al contrario, ai costi standard appena elencati se ne aggiungono altri. Per fare i lavori infatti (gli stessi che dovrebbero fare gli enti pubblici) le aziende punteranno al risparmio tentando di "scaricare l'investimento sulle bollette, come previsto dalla legge". Dunque, nel conto di ogni italiano saranno inclusi, oltre ai lavori ordinari, "anche gli utili delle aziende", spiega Raitano. La concorrenza tra privati non basterà a contenere i costi. Anzi. In assenza di ulteriori interventi normativi e in virtù della legge Galli del 1994, come modificata dal dl 152/2006, i costi di tutti gli investimenti sulla rete acquedottistica finiranno in bolletta. Il business ringrazia. I consumatori non proprio perché - conclude Raitano - pretendere tariffe più basse significherebbe - trattando con dei privati - "necessariamente un blocco degli investimenti".

La privatizzazione della gestione dell'acqua prevista dal decreto Ronchi (numero 135 del 2009) ha dunque di fatto provocato un aumento dei costi. A dimostrarlo sono anche le cifre del rapporto Blue Book 4 che ha pensato di confrontare le tariffe della gestione privata con quelle in house. Risultato? Nel primo caso sono aumentate del 12% rispetto alle previsioni, nel secondo il dato è rimasto quasi costante (solo l'1% in più). Conferma la tendenza anche l'annuale dossier 5, realizzato dall'Osservatorio Prezzi & Tariffe di Cittadinanzattiva, dal quale si scopre che dal 2008 il costo dell'acqua non ha fatto che aumentare: la media è del più 6,7%, con aumenti del 53,4% a Viterbo (record nazionale), Treviso (+44,7%) Palermo (+34%) e in altre sette città, dove gli incrementi hanno superato il 20%: Venezia (+25,8%), Udine (+25,8%), Asti (+25,3%), Ragusa (+20,9%), Carrara (+20,7%), Massa (+20,7%) e Parma (+20,2%).

In generale, gli incrementi si sono registrati in 80 capoluoghi di provincia ma è la Toscana che si conferma la regione con le tariffe mediamente più alte (369 euro). Costi più elevati della media nazionale anche in Umbria (339 euro), Emilia Romagna (319 euro), Marche, Puglia (312 euro) e Sicilia (279 euro) mentre capita spesso di trovarsi di fronte a differenze all'interno di una stessa regione: l'acqua di Lucca costa 185 euro in meno di quella di Firenze, Pistoia e Prato. Stessa cosa in Sicilia: tra Agrigento e Catania lo scarto è di 232 euro. D'altra parte, la logica che muove ogni business degno di tale nome - scrive Luigino Bruni, docente di economia politica all'università Milano-Bicocca - è quella di fare utili, possibilmente a breve termine. Il ragionamento fila: "Le imprese private hanno per scopo il profitto. Chi massimizza il profitto non tiene conto dell'ottimo sociale e difficilmente può essere controllato, nemmeno con un meccanismo di sanzioni".

Sul tema dell'acqua poi sembra circolino tanti altri falsi miti. Si dice, ad esempio, che la gestione privata della rete idrica sia molto efficiente. Sbagliato. "Uno dei migliori acquedotti del nostro Paese - spiega Raitano - è quello di Milano, al cento per cento di gestione pubblica, dove l'acqua viene controllata più volte al giorno e le dispersioni sono minime". E' quindi "dogmatico dire che la gestione privata garantisce una migliore gestione della rete. Le esperienze che si sono fatte in questi anni in Calabria, ad Agrigento, a Latina dimostrano che dove gli acquedotti sono passati in mano ai privati c'è stato solo un aumento delle tariffe". E' successo in Calabria, dove alcuni sindaci della Piana di Gioia Tauro si sono visti raddoppiare la bolletta. A San Lorenzo del Vallo, comune di 3.521 abitanti della provincia di Cosenza, il conto è salito da 100 a 190 mila euro l'anno perché - spiega il sindaco - l'azienda che gestisce l'acqua in tutta la Calabria (la So.Ri.Cal) con concessione trentennale ha arbitrariamente aumentato la tariffa del 5%. Una cifra, questa, pari all'intero bilancio del piccolo comune che, non avendo saldato il debito, e stato dichiarato moroso.

Privati o no, la gestione idrica pubblica in Italia sembra aver fallito. Il Belpaese spreca acqua continuamente. Ogni giorno si perdono circa 104 litri di sangue blu per abitante, il 27% di quella prelevata. Considerando ogni singolo italiano si scopre che consumiamo a testa in media 237 litri di liquido al giorno: 39% per bagno e doccia, 20% per sanitari, 12% per bucato, 10% per stoviglie, 6% per giardino, lavaggi auto e cucina, 1% per bere e 6% per altri usi. A fronte di un terzo dei cittadini che non ha un accesso regolare e sufficiente alla risorsa idrica, otto milioni di italiani non ne hanno di potabile e 95 milioni di litri di acqua che, ogni anno, vengono usati per l'innevamento artificiale. Dunque il problema - conclude il dossier - non si risolve nemmeno affidando l'acqua ai privati che - per loro natura - tenderebbero a spostare le reti idriche nelle zone d'Italia più fruttuose. Il punto semmai è la totale assenza di un piano normativo, economico ed amministrativo nazionale volto a finanziare e supportare le tecnologie necessarie. In alcune regioni d'Italia mancano ancora gli Ato, ambiti territoriali ottimali, territori appunto su cui sono organizzati servizi pubblici integrati. Come quello dell'acqua o dei rifiuti.



Da Repubblica.it
[Modificato da napulitanboy 06/06/2011 08:44]


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06/06/2011 09:21
 
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Re:
(pollastro), 6/5/2011 7:15 PM:

Molto di quello che dice Trixam è realistico: lottizzazione spinta nelle assunzioni pubbliche, costo degli interventi che vanno perciò incentivati e remunerati, scandalo delle perdite eccessive d'acqua, ecc... Conosco il contesto, ma conosco anche i privati in giro e le gare che "vincono": ci capiamo? Come inoltre dovrebbe essere noto, camorra e mafia non sono estranei nemmeno a tale settore...Insisto: non attribuisco valore fideistico ai referendum, ma non mi appecorono davanti alle privatizzazioni (e non sto dicendo, beninteso, che lo faccia Trixam); perciò propongo l'ingresso di privati - ma no-profit e rappresentanti di associazioni di utenti e consumatori - in questo e negli altri settori dei servizi essenziali, il cui controllo deve restare pubblico, insisto. Non si discute della proprietà del bene, ma della gestione? Certo, chi ha detto diversamente? Solo che, ai fini dell'utente finale, il risultato (potenzialmente esoso e disuguagliante) è lo stesso. Che cosa volete farci? Ognuno ha le sue rigidità e io sono un socialista (ma vecchio stile, avete presente Riccardo Lombardi?). I referendum abrogativi hanno del resto sempre un valore immediato e un senso più largo e simbolico; il liberismo - liberalismo (corretto e proprio di una borghesia "etica", se in Italia esistesse) non mi dispiace in sé, ma di quello arraffone e alle vongole che c'è da noi ne faccio volentieri a meno: avete presente (e non per sparare sulla Croce Rossa, visto che lo dicevo fin da quando l'hanno candidato a sindaco di Napoli...) il personaggio Lettieri?




Cosa c'entra Lettieri con il liberalismo/liberismo?

Mi preoccupo perchè credo che bisognerebbe spiegarlo prima a lui, che presumo ignori il termine.
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Re:
napulitanboy, 6/6/2011 8:43 AM:

MITO numero uno: gli acquedotti "pubblici" sono dei colabrodo. "Falso: secondo i dati di Mediobanca, il peggiore, se consideriamo la dispersione idrica (litri immessi in rete e non fatturati/abitanti/lunghezza della rete gestita), è quello di Roma, dove l'acquedotto è affidato ad Acea, una spa quotata in borsa i cui principali azionisti sono il Comune di Roma, Francesco Gaetano Caltagirone e Suez". In vista del referendum del 12 e 13 giugno, Altraeconomia ha pubblicato un dossier "speciale" 1. Lo scopo? Sfatare punto per punto tutte le false credenze nate intorno alla privatizzazione del servizio idrico italiano. A partire dai costi. Secondo il Conviri (Commissione nazionale di vigilanza sulle risorse idriche), per i prossimi 30 anni servono circa 64 miliardi di euro per la manutenzione e l'ammodernamento delle reti idriche di casa nostra. Due miliardi l'anno, una cifra standard necessaria in ogni caso, a prescindere dall'esito del referendum. Di questi, il 49,7% è diretto al comparto acquedottistico (per nuove reti, impianti e per manutenzione) mentre il 48,3% alle fognature e alla depurazione. A metterci i quattrini dovrebbero essere lo Stato, le Regioni e i Comuni d'Italia dato che quelli - spiega Pietro Raitano, direttore del mensile Altreconomia e curatore del dossier Speciale Referendum - sono "soldi delle nostre tasse, gli stessi che vengono usati anche per riparare le strade, per costruire il ponte sullo Stretto o per la Difesa".



Ed ecco sfatato il secondo mito. Con l'ingresso dei privati, la bolletta non si ridimensionerà. Al contrario, ai costi standard appena elencati se ne aggiungono altri. Per fare i lavori infatti (gli stessi che dovrebbero fare gli enti pubblici) le aziende punteranno al risparmio tentando di "scaricare l'investimento sulle bollette, come previsto dalla legge". Dunque, nel conto di ogni italiano saranno inclusi, oltre ai lavori ordinari, "anche gli utili delle aziende", spiega Raitano. La concorrenza tra privati non basterà a contenere i costi. Anzi. In assenza di ulteriori interventi normativi e in virtù della legge Galli del 1994, come modificata dal dl 152/2006, i costi di tutti gli investimenti sulla rete acquedottistica finiranno in bolletta. Il business ringrazia. I consumatori non proprio perché - conclude Raitano - pretendere tariffe più basse significherebbe - trattando con dei privati - "necessariamente un blocco degli investimenti".

La privatizzazione della gestione dell'acqua prevista dal decreto Ronchi (numero 135 del 2009) ha dunque di fatto provocato un aumento dei costi. A dimostrarlo sono anche le cifre del rapporto Blue Book 4 che ha pensato di confrontare le tariffe della gestione privata con quelle in house. Risultato? Nel primo caso sono aumentate del 12% rispetto alle previsioni, nel secondo il dato è rimasto quasi costante (solo l'1% in più). Conferma la tendenza anche l'annuale dossier 5, realizzato dall'Osservatorio Prezzi & Tariffe di Cittadinanzattiva, dal quale si scopre che dal 2008 il costo dell'acqua non ha fatto che aumentare: la media è del più 6,7%, con aumenti del 53,4% a Viterbo (record nazionale), Treviso (+44,7%) Palermo (+34%) e in altre sette città, dove gli incrementi hanno superato il 20%: Venezia (+25,8%), Udine (+25,8%), Asti (+25,3%), Ragusa (+20,9%), Carrara (+20,7%), Massa (+20,7%) e Parma (+20,2%).

In generale, gli incrementi si sono registrati in 80 capoluoghi di provincia ma è la Toscana che si conferma la regione con le tariffe mediamente più alte (369 euro). Costi più elevati della media nazionale anche in Umbria (339 euro), Emilia Romagna (319 euro), Marche, Puglia (312 euro) e Sicilia (279 euro) mentre capita spesso di trovarsi di fronte a differenze all'interno di una stessa regione: l'acqua di Lucca costa 185 euro in meno di quella di Firenze, Pistoia e Prato. Stessa cosa in Sicilia: tra Agrigento e Catania lo scarto è di 232 euro. D'altra parte, la logica che muove ogni business degno di tale nome - scrive Luigino Bruni, docente di economia politica all'università Milano-Bicocca - è quella di fare utili, possibilmente a breve termine. Il ragionamento fila: "Le imprese private hanno per scopo il profitto. Chi massimizza il profitto non tiene conto dell'ottimo sociale e difficilmente può essere controllato, nemmeno con un meccanismo di sanzioni".

Sul tema dell'acqua poi sembra circolino tanti altri falsi miti. Si dice, ad esempio, che la gestione privata della rete idrica sia molto efficiente. Sbagliato. "Uno dei migliori acquedotti del nostro Paese - spiega Raitano - è quello di Milano, al cento per cento di gestione pubblica, dove l'acqua viene controllata più volte al giorno e le dispersioni sono minime". E' quindi "dogmatico dire che la gestione privata garantisce una migliore gestione della rete. Le esperienze che si sono fatte in questi anni in Calabria, ad Agrigento, a Latina dimostrano che dove gli acquedotti sono passati in mano ai privati c'è stato solo un aumento delle tariffe". E' successo in Calabria, dove alcuni sindaci della Piana di Gioia Tauro si sono visti raddoppiare la bolletta. A San Lorenzo del Vallo, comune di 3.521 abitanti della provincia di Cosenza, il conto è salito da 100 a 190 mila euro l'anno perché - spiega il sindaco - l'azienda che gestisce l'acqua in tutta la Calabria (la So.Ri.Cal) con concessione trentennale ha arbitrariamente aumentato la tariffa del 5%. Una cifra, questa, pari all'intero bilancio del piccolo comune che, non avendo saldato il debito, e stato dichiarato moroso.

Privati o no, la gestione idrica pubblica in Italia sembra aver fallito. Il Belpaese spreca acqua continuamente. Ogni giorno si perdono circa 104 litri di sangue blu per abitante, il 27% di quella prelevata. Considerando ogni singolo italiano si scopre che consumiamo a testa in media 237 litri di liquido al giorno: 39% per bagno e doccia, 20% per sanitari, 12% per bucato, 10% per stoviglie, 6% per giardino, lavaggi auto e cucina, 1% per bere e 6% per altri usi. A fronte di un terzo dei cittadini che non ha un accesso regolare e sufficiente alla risorsa idrica, otto milioni di italiani non ne hanno di potabile e 95 milioni di litri di acqua che, ogni anno, vengono usati per l'innevamento artificiale. Dunque il problema - conclude il dossier - non si risolve nemmeno affidando l'acqua ai privati che - per loro natura - tenderebbero a spostare le reti idriche nelle zone d'Italia più fruttuose. Il punto semmai è la totale assenza di un piano normativo, economico ed amministrativo nazionale volto a finanziare e supportare le tecnologie necessarie. In alcune regioni d'Italia mancano ancora gli Ato, ambiti territoriali ottimali, territori appunto su cui sono organizzati servizi pubblici integrati. Come quello dell'acqua o dei rifiuti.



Da Repubblica.it




I dati di Mediobanca?

ma che adesso fanno i "funtanieri"?
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Re:
Giubo, 6/5/2011 7:26 PM:

molto giusto e molto interessante quello che scrivi,Trixam, ma io credo che votare si sia una prova di civiltà e di democrazia vera




In pratica sei d'accordo con lui però voti sì per partito preso...
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Re:
(pollastro), 6/5/2011 5:36 PM:

Legittima l'opinione postata da Trixam perchè, credo, da lui condivisa. Legittimo l'articolo di Stagnaro: anche lui in fondo cerca una soluzione terza tra opposte tendenze (tutto al pubblico o tutto ai privati), in nome degli investimenti e dell'efficienza della gestione e avverte che non bisogna essere semplicistici di fronte a questioni complesse. Il nodo è la regolazione. Personalmente ritengo che i beni relativi a servizi di interesse generale (ci metto anche la formazione scolastica e universitaria e la tutela della salute, nonché linee almeno essenziali di traporto e impianti telefonici e telematici di base; si potrebbe invece privatizzare del tutto la radiotelevisione, salvo un canale snello di servizio)debbano essere in linea di principio pubblici e che il pubblico debba gestire secondo queste direttive: far pagare di più chi può, ma di meno o nulla a chi non può, secondo controlli rigorosi e sanzioni a chi imbroglia (il sevizio deve essere universale), amministrare bene soldi di tutti (nessuna lottizzazione partitica: prevedere anche gestioni a controllo popolare, con rappresentanti di utenti e consumatori eletti nei consigli di amministrazione ed eventualmente revocabili in sede di verifica periodica sul raggiungimento degli obiettivi), mantenere efficienti gli impianti. Un pubblico (meglio: un collettivo, anche sulla base dell'art. 43 comma, Cost., nella parte - moderna, ma mai attivata - della gestione da parte di comunità di utenti...) efficiente, non certo sprecoe, clientelare e speculativo. Utopia? Fore, ma non meno di quella di chi crede alla favola del filantropismo privato...
Voterò perciò con convinzione sì, come negli altri referendum, su tutti i quali spero che si raggiunga il quorum, ma consapevole che la battaglia è solo all'inizio. Un sì bloccherebbe la legittimazione della speculazione sui beni comuni, poi c'è da costruire l'efficiente gestione sotto (ribadisco) controllo collettivo




Infatti la nostra università è quasi totalmente pubblica e sappiamo tutti che fornisce un servizio impeccabile a tutti (specie ai professori e ai loro parenti/amici/conoscenti/amanti).


http://it.wikipedia.org/wiki/Classifica_accademica_delle_universit%C3%A0_mondiali

Non dico che il "privato" sia la soluzione di tutti i mali ma credo che la concorrenza tra privato e pubblico sia una soluzione alternativa ragionevole, ad oggi mai sperimentata in Italia.

ps: non riesco a trovare il primo ateneo italiano nella classifica di cui al link e faccio anche fatica a trovare università pubbliche...(credo che la prima sia francese...se non vado errato).
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Da parte del professor Prisco, che mi prega di postare

Anticipo al Forum un articolo inviato al Corriere del Mezzogiorno -Campania. E a Pisicchio dico che le sue considerazioni sull'università pubblica italiana sono ahimé fondate, ma che è ingenuo credere che dal circuito di parenti/conoscenti/ amanti quelle private siano immuni... D'accordo anche sulla necessità di concorrenza e trasparenza nella fornitura di beni e servizi, ma si ovvia con altri meccanismi, ad esempio introducendo nei consigli di amministrazione rappresentanti di utenti e consumatori, di cui al finora negletto art. 43 della Costituzione (Pollastro è stato un mio ottimo allievo, raccolgo volentieri da lui il suggerimento...), non svendendo il "pubblico" al "privato". Quello che esattamente penso è che il primo sia stato giustamente costretto a ritrarsi da molte cose che faceva (in un certo periodo, ad esempio, statalizzarono anche la fabbricazione dei panettoni, ricordate?), ma che nei settori strategici deve starci il giusto e comunque in funzione di controllo (però a sua volta controllato dal "collettivo", cioè dal privato no profit). E ora beccatevi l'articolo

I miei sì a questi referendumdi SALVATORE PRISCO

Sì al referendum in linea di principio.
Ora che il quorum può essere di nuovo raggiunto (in attesa di calcolarlo sulla base del numero degli elettori alle politiche immediatamente precedenti, per depurare la consultazione dagli astenuti irriducibili, secondo la giusta proposta di Barbera e Morrone di qualche anno fa), è importante salvare in linea di principio uno strumento di democrazia diretta, da integrare ormai con la partecipazione per via di social networks e forum telematici, da disciplinare formalmente. Chi vuole votare no lo faccia, ma vada al seggio.
Referendum politici, non partitici.
Perché il quorum sia raggiunto, dovranno giocoforza partecipare anche elettori di centrodestra. Occorre perciò togliere ai referendum valore antiberlusconiano e sottolineare invece che si decide di questioni essenziali per i nostri figli, nipoti, posteri in genere. Il voto investe temi molto politici, ma non sul piano contingente; si uniscano allora sui suoi oggetti sensibilità trasversali, pensose di un assetto futuro più equilibrato quanto a correttezza costituzionale (valore di e per tutti, chiunque governi) e all’ambiente.
Sì a questi referendum nel merito.
Gestione pubblica dell’acqua. L’essenziale è la regolazione e l’efficienza: purtroppo molte aziende municipalizzate non sono innocenti, Asìa docet. Giusto allora darsi con urgenza regole per una gestione dei servizi pubblici seria e non partiticamente lottizzata, ma intanto bisogna stabilire subito che sui beni essenziali di interesse collettivo (anche la formazione lo è, ad esempio) il privato può avere al più un ruolo sussidiario-integrativo, ma non determinante.
Legittimo impedimento. Benché la Corte Costituzionale ne abbia riscritto la modalità applicativa e sebbene non mi scandalizzi che chi governa debba avere spazio e tempo per farlo, immunità sostanziali e processuali di titolari di organi costituzionali vanno tecnicamente previste solo da legge costituzionale derogatrice.
Nucleare. Il risultato di un referendum abrogativo può essere rivisto con legge ordinaria, ma non prima di cinque anni. Il nucleare è forse l’inevitabile futuro energetico, però le attuali centrali non sono sicure. Prendiamoci dunque pragmaticamente tempo e intanto studiamo la possibile introduzione di misure di migliore sicurezza e l’impiego di energie pulite alternative (eolica, solare), come fa la saggia - anche a proposito dell'intervento militare in Libia - Germania
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Re: Re:
.pisicchio., 06/06/2011 09.23:




In pratica sei d'accordo con lui però voti sì per partito preso...



non si vota per partito preso ma per ragioni obiettive
www.youtube.com/watch?v=VFFepJpoq74
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Re: Re:
.pisicchio., 06/06/2011 09.23:



In pratica sei d'accordo con lui però voti sì per partito preso...



secondo me il buon Peppino voleva dire che, per coerenza, se sei per il No dovresti andare a votare per il No. [SM=x43805]
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06/06/2011 20:34
 
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Concordo con Pollastro sulle vongole, ma le vongole nascono dalla distorsione del sistema che non è assolutamente liberista.
Infatti il nostro privato è solitamente legato alla peggiore politica. Non credo si possa parlare di privato quando le compenetrazioni con il settore pubblico sono a tutti i livelli (dal supermercato di paese non controllato dai vigili, dal grande imprenditore che ha interesse a collegarsi alle rendite di posizione, assolutamente non liberiste, assicurategli dalla politica).

Il vero problema dell'acqua è l'assenza di un obbligo del privato a migliorare la rete.
Ora il problema è stato affrontato da trixam. I costi complessivi ricadono sui contribuenti. La vera questione, quindi, riguarda la gestione complessiva del settore pubblico e dei suoi immensi costi che in un modo o in un altro ricadono sugli italiani.
Il punto è che questo referendum non è una vera scelta, perché probabilmente il risultato non cambierà.
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Re: Re: Re:
gran generale, 06/06/2011 20.32:



secondo me il buon Peppino voleva dire che, per coerenza, se sei per il No dovresti andare a votare per il No. [SM=x43805]




volevo dire che il no avrà le sue ragioni anche condivisibili ma quelle del si lo sono di più
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08/06/2011 21:22
 
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Bè non sempre pubblico significa cattiva gestione in tema di acqua (vedi Milano)
E comunque non sempre quando il pubblico non funziona delegare al privato è la panacea di tutti i mali (vedi Arezzo)

Personalmente in questo settore non vedo la necessità di privatizzare a tutti i costi, preferirei altre soluzioni, e non mi piace come privatizza questa legge.






([SM=x43808])

Usa la funzione "Cerca"! [SM=x43666] La Funzione "Cerca" è il miglior amico del forumista! Non abbandoniamola...[SM=g2725338]
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Concordo con le ragioni di Trixam..

in ogni caso bisognerebbe informarsi bene sui quesiti riguardanti l'acqua e non farsi accecare dall'ondata (giusta) di SI per i quesiti numero 3 e 4..

[SM=x43799]
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10/06/2011 20:21
 
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Tutto giusto e condivisibile, ma questa legge non porta al risultato di cui sopra... insomma in Italia abbiamo solo grandi titoli, ma nel merito si parla d'altro (penso al federalismo che è un grande bluff)
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Re:
(pollastro), 05/06/2011 17.36:

Legittima l'opinione postata da Trixam perchè, credo, da lui condivisa. Legittimo l'articolo di Stagnaro: anche lui in fondo cerca una soluzione terza tra opposte tendenze (tutto al pubblico o tutto ai privati), in nome degli investimenti e dell'efficienza della gestione e avverte che non bisogna essere semplicistici di fronte a questioni complesse. Il nodo è la regolazione. Personalmente ritengo che i beni relativi a servizi di interesse generale (ci metto anche la formazione scolastica e universitaria e la tutela della salute, nonché linee almeno essenziali di traporto e impianti telefonici e telematici di base; si potrebbe invece privatizzare del tutto la radiotelevisione, salvo un canale snello di servizio)debbano essere in linea di principio pubblici e che il pubblico debba gestire secondo queste direttive: far pagare di più chi può, ma di meno o nulla a chi non può, secondo controlli rigorosi e sanzioni a chi imbroglia (il sevizio deve essere universale), amministrare bene soldi di tutti (nessuna lottizzazione partitica: prevedere anche gestioni a controllo popolare, con rappresentanti di utenti e consumatori eletti nei consigli di amministrazione ed eventualmente revocabili in sede di verifica periodica sul raggiungimento degli obiettivi), mantenere efficienti gli impianti. Un pubblico (meglio: un collettivo, anche sulla base dell'art. 43 comma, Cost., nella parte - moderna, ma mai attivata - della gestione da parte di comunità di utenti...) efficiente, non certo sprecoe, clientelare e speculativo. Utopia? Fore, ma non meno di quella di chi crede alla favola del filantropismo privato...
Voterò perciò con convinzione sì, come negli altri referendum, su tutti i quali spero che si raggiunga il quorum, ma consapevole che la battaglia è solo all'inizio. Un sì bloccherebbe la legittimazione della speculazione sui beni comuni, poi c'è da costruire l'efficiente gestione sotto (ribadisco) controllo collettivo



Concordo pienamente..pensavo in questi giorni come l'appartenenza ad un partito politico possa portare ad un travalicamento della stessa ragionevolezza!C'è addirittura chi ne fa una questione terminologica..E'vero l'art.23 bis dice che la proprietà rimane pubblica ma che la loro gestione può essere affidata a privati ma ciò che mi sconvolge e come non ci si renda conto di cosa può comportare una gestione privata!Mi viene da ridere solo a pensare a queste "fantomatiche" gare ad evidenza pubblica!Ma quale evidenza..ma quale pubbliche..
Riflettevo anche su quel "può"..onestamente è una bella presa per il culo! [SM=x43819]






11/06/2011 13:05
 
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Re:
giusperito, 06/06/2011 20.34:


Infatti il nostro privato è solitamente legato alla peggiore politica. Non credo si possa parlare di privato quando le compenetrazioni con il settore pubblico sono a tutti i livelli (dal supermercato di paese non controllato dai vigili, dal grande imprenditore che ha interesse a collegarsi alle rendite di posizione, assolutamente non liberiste, assicurategli dalla politica).

Il vero problema dell'acqua è l'assenza di un obbligo del privato a migliorare la rete.




Nella migliore delle ipotesi...pensiamo ad una realtà come il Sud non c'è solo la politica ma anche le mafie che fanno di tutto per prendersi gli appalti!Indubbiamente la rete idrica dovrebbe essere gestita meglio ma darla in pasto a società per azioni con chissà quali loschi intenti beh non mi sembra affatto una soluzione giusta!
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