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Il pensiero economico di Vendola II

Ultimo Aggiornamento: 17/11/2010 17:39
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17/11/2010 17:39
 
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sandro brusco
La sinistra italiana ha sempre avuto un rapporto difficile con il libero mercato. L'idea che la concorrenza, la meritocrazia e la competizione possano essere utili strumenti per aiutare la mobilità sociale e per favorire proprio i più svantaggiati non ha mai preso realmente piede (anche se qui e là qualche flebile segnale di speranza si può cogliere). Non solo il libero mercato viene giudicato negativamente sul piano economico. Le posizioni più oscurantiste all'interno della sinistra tendono in aggiunta a caricare la concorrenza di significati morali negativi. La concorrenza è brutta perché stimola gli istinti più belluini dell'uomo: l'individualismo, la brama di possesso materiale, il disprezzo per gli altri e il successo economico come unica bussola di riferimento.

Vendola ha parlato troppo poco di queste cose per potergli ascrivere con certezza queste convizioni, ma echi di questa posizione si colgono per esempio all'inizio dell'intervista di agosto al Sole 24 Ore:

«Il dibattito dell'economia – dice – è asfittico e criptato, monopolizzato da tecnocrati, lobbysti e moralisti a libro paga. Un dibattito drammaticamente orfano di quell'etica della responsabilità che per me significa confronti con l'inviolabilità della vita e del vivente e porre un argine alla mercificazione del mondo. Cos'è la crisi? Una calamità naturale o il frutto avvelenato di quel potere soprannazionale della rendita e della speculazione finanziaria che ha umiliato il lavoro e ucciso milioni di imprese?».

Alla radice di queste posizioni sta spessissimo una radicale ignoranza su due aspetti.

Da un lato si ignora ciò che la concorrenza veramente è. Si scambia infatti la concorrenza per una specie di condizione primitiva e primordiale, uno ''stato di natura'' in cui le regole sono completamente assenti e l'unica cosa che conta è il risultato indipendentemente da come è raggiunto. Quindi ignorare la legge o piegarla a favore dei propri interessi, la distruzione dei beni comuni e addirittura il furto vero e proprio, vengono considerati come comportamenti che discendono direttamente dalla concorrenza e dal libero mercato. Come nel caso del signor Lamborghini, tanto per dire. Basta una minima conoscenza di teoria economica per sapere che non è così. La concorrenza per funzionare ha bisogno di regole chiare e uguali per tutti, e tali regole devono essere rigorosamente rispettate. Va aggiunto che almeno in Italia, ma non solo, la confusione è abbastanza comprensibile. L'esistenza di potenti personaggi che puntualmente piegano la legge ai propri interessi e poi si dicono a favore di concorrenza e libero mercato non può che generare confusione tra gli osservatori meno preparati. Da Vendola, così come da qualunque politico di rilevo nazionale, però ci aspetta un po' di più.

Dall'altro si fa continuamente confusione tra analisi economica e proposta etica
. Le due cose, piaccia o meno, sono separate. Quando si fa analisi economica si parte da certe ipotesi plausibili (ed empiricamente verificabili) sul comportamento degli agenti economici, e si formulano modelli per cercare di capire, tra le altre cose, l'impatto dei provvedimenti di politica economica. L'economia si è beccata l'epiteto di ''scienza triste'' perché normalmente gli economisti tendono ad assumere che le motivazioni degli agenti economici siano abbastanza egoistiche. La cosa che molti sembrano non capire, o che fanno finta di non capire, è che gli economisti questa ipotesi non la fanno perché ritengono l'egoismo bello e giusto. La fanno perché, nella maggior parte dei casi, l'ipotesi sembra ben funzionare dal punto di vista empirico. I richiami alla ''etica della respondsabilità'' o cose del genere che ogni tanto affiorano appaiono quindi terribilmente fuori posto e generano confusione. Inoltre, per essere un po' brutali, puzzano proprio tanto di demagogia inconcludente e a buon mercato. Non è certo predicando la bontà che si risolvono i problemi di crescita dell'economia italiana.

A parziale discolpa di Vendola va detto che questo tipo di posizioni reazionarie anti-mercato sono comuni non solo nella sinistra italiana ma anche, e forse ancor più, nella destra. Su questo versante dello schieramento politico il fastidio verso la concorrenza tende a tingersi da un lato di clericalismo oltranzista (la concorrenza e il libero mercato, ci vien detto, sono pericolosi perché minano i valori della tradizione) e dall'altro di toni protezionistici e xenofobi, a livello sia nazionale sia regionale. Abbiamo scritto un libro, che presto uscirà con una nuova post-fazione, per spiegare come Tremonti abbia cercato di impossessarsi, a suo uso e consumo politico, di questo guazzabuglio di idee poco coerenti, per cui non insisteremo ulteriormente su questo. Ma di Vendola e della sinistra parla questo post, per cui torniamo al punto.

Ora, un paio di interviste sono poche per comprendere appieno la filosofia economia di qualunque persona pubblica, ma a nostro avviso l'oscurantismo e l'arretratezza di Vendola su questa questione appaiono con nitidezza nell'intervista al Sole 24 Ore di ottobre. Tra le altre cose in essa si afferma:

Noi siamo in una condizione disatrosa a causa di politiche liberiste. Artefice è Giulio Tremonti, con qualche corresponsabilità di Padoa-Schioppa.

C'è poco da fare, queste sono frasi che lasciano sbigottiti. Cominciamo dalla tesi di Tremonti artefice di politiche liberiste. Ho già ricordato che abbiamo scritto un libro per spiegare come Voltremont c'entri con il libero mercato quanto i cavoli a merenda, per cui non perderò tempo a confutare la tesi di Vendola. Osservo però che l'affermazione di Vendola è estremamente bizzarra. Tremonti stesso si vanta continuamente di essere un dirigista e la stampa che lo ossequia propaga con fervore questo messaggio. Persino Paolo Ferrero lo accredita di essere un non-liberista, che per Ferrero è inteso essere un complimento. Quindi l'affermazione di Vendola appare essere semplicemente la ripetizione meccanica e fuori tempo di vecchissimi stereotipi della sinistra, italiana e no, senza ormai nemmeno il più tenue legame con la realtà. Questo denota una bassissima volontà di recepire nuove idee e di andare al di là dei recinti tradizionali, che invece inizialmente Vendola aveva cercato di proporre come parte di un nuovo approccio alla politica. Francamente, quando si ha un senso della realtà inferiore a quello di Paolo Ferrero vuol dire che si è nei guai.

Per quanto riguarda i danni del ''paradigma liberista'' ed in che senso le ''politiche liberiste'' abbiano causato la crisi, è difficile fare valutazioni ulteriori senza sapere meglio cosa si intende. Di certo l'uso del termine non augura nulla di buono e di nuovo sembra indicare una certa pigrizia mentale, unita a mancanza di coraggio di uscire dal proprio recinto. Aspettiamo quindi di capire meglio, da Vendola o da chiunque altro vada ripetendo il mantra del ''paradigma liberista'', cosa esattamente significhi e quali siano i rimedi specifici proposti. E speriamo che il rimedio non sia la riproposizione del ''paradigma statalista''.

Ma passiamo alle questioni concrete. Perché preoccuparsi di queste posizioni, che possono in fondo apparire semplici enunciazioni di principio quando non banali trucchetti demagogici per accattivarsi a buon mercato una fetta dell'elettorato? In fondo fare predicozzi sulla necessità del comportamento morale in economia non aiuta ma nemmeno fa necessariamente danni. I danni, casomai, derivano dalle azioni concrete di politica economica che vengono intraprese, o più frequentemente che non vengono intraprese.

Da questo punto di vista ciò che preoccupa di più della posizione di Vendola non è la sua novità, la sua radicalità o la sua forza dirompente. Al contrario, è la sua sostanziale continuità con il pensiero unico della classi dirigenti politico-economiche italiane. Si consideri per esempio la seguente risposta tratta dall'intervista di agosto.

La crisi è ancora in atto, qual è la sua ricetta per uscirne?
Io penso che per fare ripartire l'economia bisogna uscire dall'angolo della superstizione liberista, in cui si canta il "de profundis" della spesa pubblica e si considera l'abbattimento del debito come una specie di dio pagano a cui sacrificare i poveri, le famiglie, le partite Iva, il welfare, e anche un pezzo di civiltà europea. Penso che oggi occorre sostenere la domanda interna, dare ossigeno ai ceti medio-bassi, aumentare l'area di consumo, sbloccare la spesa degli enti locali ibernata dalle ridicole penalità delle norme sul patto di stabilità. L'Italia affronta sacrifici durissimi senza alcuna prospettiva di crescita e un'intera generazione viene tagliata fuori dalla prospettiva del lavoro e del futuro.

Lasciamo perdere la prima frase propagandistica che è francamente ridicola. Dio pagano? Civiltà europea in pericolo? Ma figuriamoci. Guardiamo all'abbozzo delle proposte, che sono sostanzialmente di sussidiare il consumo (misura bizzarramente chiamata ''aumentare l'area del consumo''; forse fa a gara con Voltremont su chi inventa più frasi ad effetto per dire cose banali) e aumentare la spesa pubblica locale. Questo può sembrare diverso da ciò che sta facendo Tremonti ma non lo è affatto. Per esempio, appena insediato il nostro si sbracciava affermando la necessità di ''sostegno della domanda'', che poi voleva dire abolire l'ICI. E quanto giunge l'ora, la faccia dura del Tremonti rigorista si trasforma sempre nel sorriso compiacente del distributore di mancette. Basta guardare l'ultimo maxi-emendamento alla legge finanziaria, in cui tra le altre cose si viene incontro esattamente alla richiesta vendoliana di allentare il patto di stabilità per i comuni.

Una volta al governo Vendola, che ha più volte dato prova di pragmatismo, non potrà che prendere atto dei vincoli che sono imposti dalla presenza di un debito pubblico che naviga al momento verso il 120% del PIL. Per questa ragione i tassi sui nostri titoli di stato sono circa 1,5% in più che quelli sui titoli tedeschi. Si tratta di un sacco di soldi, pari grosso modo, se ci si perdona la spannometria, alla manovra tremontiana estiva e che Vendola aveva bollato con scarsissima fantasia di ''macelleria sociale''. Il punto molto semplice è che a passare dall'1,5% (o dal 2%, come durante la scorsa settimana) al 5% non ci vuole molto, come una rapida occhiata agli altri PIIGS dovrebbe rendere chiaro. Basta che il governo lasci andare per un po' i cordoni della borsa, convincendo i mercati che il tempo della responsabilità è già passato. Vendola lo sa, e sa anche che più di tanto le tasse non si possono aumentare. Ne segue che grandi programmi di aumento della spesa pubblica, indipendentemente dal giudizio sulla loro desiderabilità, semplicemente non sono possibili. Per cui tutte le menate sull'allargamento dell'area del consumo e sulla spesa degli enti locali non possono che ridursi, in perfetta continuità con la linea seguita finora, in interventi cosmetici e necessariamente di entità ridotta. In altre parole, cose del tipo ripetizione della detassazione dei premi di produzione e degli ''incentivi'' per motorini e motori fuoribordo, probabilmente con un twist di sinistra. Facile scommettere su ''incentivi verdi'' di un qualche tipo.

Il pensiero di Vendola, se si smussano un po' certe espressioni ideologiche, è in realtà il pensiero unico della classe dirigente politica italiana. Un pensiero che rifiuta di ammettere che la politica può tanto facilmente creare problemi quanto risolverli, che rifiuta di ammettere che i politici sono uomini come gli altri (soprattutto quelli convinti di essere migliori degli altri!) soggetti alle stesse tentazioni di fare il proprio interesse e agli stessi errori di giudizio. Un pensiero che ha generato l'orrendo intervento su Alitalia del governo di centrodestra e che rischia di generare simili mostruosità in un possibile prossimo governo di centrosinistra. Un pensiero, infine, che è il primo responsabile, per il tipo di politiche che ha generato, della scarsa dinamicità dell'economia e della società italiane.

Questo, alla fine, è forse l'aspetto più deludente della proposta economica di Vendola. Il meglio che di lui si può dire infatti è che è pragmatico. Che va bene, per carità, indubbiamente meglio pragmatico che pazzo. Ma il pragmatismo va bene per gestire l'esistente. Se vogliamo qualcuno che aggredisca alle radici la crisi italiana, che dia al paese una speranza di ritorno alla crescita, il pragmatismo non basta. In effetti essere pragmatici in un paese come l'Italia rischia addiirittura di essere deleterio, perché conduce rapidamente ad assuefarsi alle pratiche che hanno condotto il paese alla stagnazione. L'Italia in realtà ha bisogno di una rottura e di dirigenti che abbiano l'audacia di percorrere strade non battute.

Fino ad adesso Vendola non ha dimostrato di aver la stoffa per queste cose. Il fatto che nessun altro lo abbia fatto e che tanti politici, a cominciare da quelli che compongono l'attuale governo, siano peggio di lui è una ben magra consolazione.
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