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Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!
       
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Ultimo Aggiornamento: 14/01/2008 11:58
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12/11/2007 17:37
 
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Bregantini è venuto a Riva, invitato alla convention della Cgm, non per celebrare i funerali suoi e della lotta anti 'ndrangheta in Calabria ma per lanciare un nuovo messaggio di speranza
di Guido Pasqualini «Mi sento come le foglie su un albero in autunno, ma tira un forte vento». Sono le 14.30 e, mentre il sole scende dietro la Rocchetta, il Garda viene spazzato dal «balinòt», il vento che scende da Tenno. È quello il momento in cui al Palameeting arriva monsignor Giancarlo Bregantini, il vescovo trentino di Locri-Gerace trasferito a Campobasso. Torna in mente una delle ultime frasi di Enzo Biagi e ci si immagina un presule smarrito e rassegnato. Ma Bregantini è venuto a Riva, invitato alla convention della Cgm, non per celebrare i funerali suoi e della lotta anti 'ndrangheta in Calabria ma per lanciare un nuovo messaggio di speranza. Monsignor Bregantini, molti pensavano di non vederla qui oggi. «Dico la verità. Inizialmente la mia idea era disdire tutti gli impegni presi. Cambiamo storia e vita, mi sono detto. Sarebbe però stato un po' morire dentro se avessi detto basta e avrei dato ragione a chi sostiene che la Locride senza Bregantini resta orfana. Invece non è così. Ho voluto esserci proprio per dire che nulla cambia. L'albero potato rinasce». I trentini cosa possono fare per Locri? «Continuare a essere vicini alla sua gente. Lo spostamento di sede non significa spostamento di ideali. Io chiedo ai trentini di dimostrare la loro fedeltà alla Calabria come hanno fatto con me. Le cose fatte con i trentini sono efficaci e hanno messo radici buone. Continuate a sostenerle». Ci sono o non ci sono state pressioni per il suo trasferimento? «L'iter è stato talmente rapido da non consentire pressioni. Monsignor Dini, che ha cessato il suo incarico per raggiunti limiti di età, ha chiesto di avere me come successore, tutti i vescovi hanno espresso il loro consenso così come i cardinali in assemblea plenaria. Poi c'è stata la firma del papa, ma è accaduto tutto in poche settimane». Come gliel'hanno comunicato? «Stavolta mi hanno chiamato a Roma, non come quando mi nominarono vescovo di Locri che trovai la lettera fra gli auguri di Natale. In Vaticano sono poi abilissimi (sorride) . Non ti dicono "lei vorrebbe, le piacerebbe", ma "guardi, questa è la lettera del Santo Padre, lei non ci dica se è d'accordo, ma ci dimostri il suo assenso"». Mai pensato di dire no? «Sì, molte volte. Specialmente nei primissimi giorni il combattimento interiore è stato molto molto sofferto. Mi sono sentito come Gesù nell'orto: "Sia fatta non la mia ma la tua volontà". Ho parlato con molte persone, ma alla fine ho pensato che quando si obbedisce si affida la propria storia a chi è più grande di noi». E se avesse detto no? «Difficilmente mi avrebbero mandato. Però nei nostri ambienti, dove tutto si sa un po' alla volta anche sotterraneamente, i preti della mia diocesi ai quali ho chiesto di spostarsi, spesso in modo eroico, mi avrebbero potuto rinfacciare il diniego. Ciò sarebbe stato fonte di un'interiore debolezza e incoerenza che diventa incapacità di proporre cose alte. Se sei capace di dire sì di fronte a cose alte, poi il volo resta alto, altrimenti diventa basso e anche meschino». In questi giorni le sono arrivati messaggi dal Trentino? «Tanti, inizialmente di preoccupazione. Io non potevo rispondere perché dall'alto ti dicono "non smentisca né confermi" che non so nemmeno cosa voglia dire». Chi l'ha sostenuta di più? «Mio fratello Piero. Da buon contadino, quando gli ho chiesto il suo parere, è rimasto in silenzio dieci secondi e poi mi ha detto tre cose: "Hai sempre obbedito e continua a obbedire. Anche noi viviamo diversi stadi, prima eravamo genitori e ora siamo nonni, ma la vita continua. Infine cambiare ti farà bene, ti ringiovanirà». E sua mamma che dice? «Lei ha accompagnato le intuizioni di mio fratello e sta vivendo questo passaggio con grande serenità. Più di una volta mi ha detto "dai che ti passa, non esser così tragico". E poi, in dialetto, "boni e tristi i se trova dapertut". Lei, che ha 87 anni, ha consolato me». Esclude l'ingerenza di poteri forti nel suo trasferimento? «Sì. Piuttosto è adesso che potrebbero innescarsi logiche di innesto di poteri forti nel vuoto che io potrei lasciare. Questo pericolo c'è e per questo ora chiedo a tutti, autorità e semplici cittadini, di riempire questi vuoti con presenze fortificate. Bisogna dimostrare che esiste continuità e dare conseguenti segnali positivi, ad esempio nella scelta del vescovo che mi succederà. Tutto il dibattito di questi giorni servire a far riflettere il Vaticano». È stato rassicurato in questo? «Certo, il cardinale Re mi ha fatto una lunga telefonata per ribadirmi piena fiducia e dire che la mia è stata una promozione». A Campobasso? «Nel senso che il Molise è una regione strategica, perché vicina a Puglia, Campania e Roma. E Campobasso, come metropolia, ogni cinque anni guida la conferenza episcopale». In Molise però non c'è la mafia. «No, ma c'è una politica assistenzialista dominata dalla logica devastante delle raccomandazioni. A noi non tocca vincerle, ma creare una coscienza di pulizia interiore che è attesa dalla gente. Avremo altre fatiche e altre responsabilità». Il governatore trentino Dellai ha però parlato di "segnale inquietante". «Non la scelta ma la consequenzialità potrebbe diventare inquietante se non accompagnata da fatti veri e risposte efficaci. Di certo c'è gente che non dico abbia brindato come ha scritto Gianantonio Stella sul Corriere, ma ha comunque detto che ora è il momento di procedere in maniera forte. Tocca a noi reagire». Qualcuno ha sostenuto che il trasferimento è stato dettato da esigenze di protezione della sua integrità fisica. «Allora è stata un'eccessiva dimostrazione di affetto (ride) e della solita sterile polemica laicista. No, guardi, non c'è motivo. Non ho mai attaccato personalisticamente la 'ndrangheta. La nostra tattica non è mai stata quella del muro contro muro perché la mafia se la contrasti in modo diretto, la rafforzi. Fai sapere loro che sono troppo importanti. Bisogna invece ridicolizzarla e svuotarla dall'interno come ha fatto Saviano con il suo libro "Gomorra". È un intellettuale ma fa più rumore di mille poliziotti o di tanti giudici perché ha fatto apparire la mafia cretina, stupida e vuota. La mafia è veramente fragile, si riveste della corazza che le diamo noi attribuendole forza. Lo insegna il libro dei Promessi Sposi: don Rodrigo e l'innominato erano paurosi. Il primo lo affronta fra' Cristoforo con quel dito alzato e il monito "verrà un giorno" che poi sarà vincente, l'innominato viene sconfitto dalla fragilità di Lucia che in realtà è più forte di lui». I ricordi più belli di questi 13 anni? «Sono i momenti in cui ho condiviso le lacrime e le paure della gente più fragile. L'ultimo è stato quando, io vescovo, ho partecipato ai funerali di un ragazzo suicida, Bruno Piccolo, il teste chiave nelle indagini per il delitto Fortugno. La mafia gli aveva bruciato il terreno attorno, togliendoli la speranza di una onorabilità. Lui era un "infame". Ai funerali non c'era né sindaco, né polizia, né magistratura, né la famiglia Fortugno, nonostante sia stato merito suo la scoperta degli assassini. Ho denunciato tutto questo in prima pagina nella mia rubrica sul Quotidiano di Calabria e il mio attacco diretto ha provocato un sacco di fastidio. Ma la Chiesa deve schierarsi laddove ci sono più lacrime. Se non sono consolate, le lacrime diventano macigni che ti impediscono di sperare, ma se sono consolate da una mano che ci sta vicino, le lacrime ti aiutano a sperare. Compito della Chiesa è consolare il popolo e schierarsi con chi ha sofferto di più. Io, consolando, ho dato una lezione di chiarezza a chi non lo fa, come spesso accade con le forze politiche o quelle del male». fonte - L'Osservatore Romano -
[Modificato da Selkis 12/11/2007 17:39]




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13/11/2007 17:09
 
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Sovente è davvero difficile esercitare l’arte dell’imparzialità! Specie quando, si discute dei “propri” diritti e dei doveri “altrui” senza valutarli con lo stesso metro se s’inverte il binomio, doveri/diritti altrui! Vale a dire: osservare bene i propri “doveri” senza eludere i “diritti” altrui. Di solito uguale squilibrio si avvera, quando si sminuisce la giustizia divina creduta non consona agli schemi umani (e tanto per rifarmi alle citazioni non solo della forumista @kykketta, io mi prendo pure quella famosa di Epicuro - ”dio può e vuole, ma non s’interessa dell’uomo”), così da identificare Dio come l’archetipo dell’ingiustizia e l’uomo quale sua impotente vittima (Mt 20, 11-12). Ragionando così, gli arbitri imparziali lamentano solo il sopruso dei diritti umani da parte dell’inadempienza divina ai suoi doveri; e non anche viceversa: riconoscere a Dio i suoi giusti diritti – ammesso che l’Onnipotente rifiuti i diritti dell’uomo e abbia verso di lui dei doveri, se non eventualmente in virtù della sua Grazia! Tale deficienza di parzialità, se non fosse solo bella e vacua retorica, sembrerebbe la stereotipata smania di dover protestare sempre su qualsiasi questione. Invece, a mio avviso, è l’irresistibile inclinazione a generare nuova acredine: essa dapprima attira con l’appetibile curiosità, riempita subito dopo col tedio di congetture capziose, seguite da polemiche petulanti – e quante, e quali disastri hanno combinato nel corso dei millenni! Alla fine, il risultato è di fare dei “diritti” e dei “doveri” umani uno zibaldone tenebroso, buono soltanto per potenziare l’egocentrismo che, già di suo schiavizza indistintamente l’animo d’ogni persona. Come accennato, però, è noto che simile involuzione insita nel comportamento umano, è legata all’insipienza del pregiudizio da cui tutti sono condizionati. Ne è succube anche il non-credente, e lui, in maniera del tutto particolare. Egli, infatti, a differenza del metodico dubbioso (agnostico) o del credente che si crea l’idea di un deus ex machina, ha in più di lasciarsi manipolare dalla sua sviscerata avversione a Dio (intervista al Cardinale J.Ratzinger – "Una voce grida" marzo 1999, n°9). Questa sua immotivata inimicizia verso di Lui (Gv 1. 5; Ef 2, 14) la nasconde con le bautte del disinteresse a cercare Dio e della diffidenza ad ascoltarlo sul serio. Le sue sono facciate molto solide perché impastate con la cultura del sospetto: anzitutto un sotteso panico di dover rinunciare alle proprie scelte di vita anziché il soppesare con lungimiranza, le vere ragioni e le esigenze impegnative che il Signore chiede a quanti vogliano seguirlo (Lc 14, 26-27). Con la prima e più robusta maschera, dunque, quella tenuta sotto le altre e ben appiccicata sulla faccia incredula della sua dea ragione, il non-credente filtra la qualità dei rapporti interpersonali che anch’egli trattiene, di necessità o di circostanza, con il credente. È proprio quest’ultimo, infatti, che manifestando la sua testimonianza già solo con la propria presenza, gli crea “il problema” che, sempre al dire del non-credente, non esiste all’origine per lui: Dio, giustappunto! Un segno chiaro dell’anomalia di cui ansima il non-credente si nota dall’agitazione d’alcuni di loro in questo forum, pronti più che al confronto sincero, alle “polemiche petulanti” - di cui parlavo - se non di passare alle rivendicazioni, alle pretese esternate con insolenza o al peggio, perché arrabbiati con se stessi, alle varie forme d’offesa e di bestemmia. Quanta “libertà” in più e quanto maggior “diritto” alla licenziosità dei costumi ci sarebbero per i pochissimi di costoro se i credenti non esistessero! E invece, per grazia e per fede, ci siamo sempre stati in ogni e in questa generazione, seppure con tutto il carico della nostra debolezza di peccatori e del bisogno costante di conversione per conformarci all’uomo perfetto: il Cristo Gesù! Ecco allora spiegata in parte la ragione per cui, il non-credente più riottoso riversa la sua ostilità, non soltanto contro di quelli che, vantandosi d’esser credenti o cristiani, vivono purtroppo nella pusillanime incoerenza, ma anche e soprattutto contro i cattolici fedeli a Gesù e alla sua Santa Chiesa Cattolica. Così a sua autodifesa, il non-credente sfrutta le occasioni propizie e tenta di scaricare al principale “despota” onni-potente, accuse pretestuose, tra le quali il suo modo oppressivo e arbitrario d’intromettersi nelle faccende umane. Il “dio” che non c’è, pensa il non-credente, è oppressivo, crudele perché incalza sadicamente con il dolore accanito, portandolo fino alla sua estrema esasperazione. Per altro verso, pensano, è arbitrario perché proprio su questo ha reso la creatura incapace di eliminare la propria sofferenza con le sole sue forze. Vuoi ora affidandosi ai palliativi della scienza medica, sennò in extremis, ritornare alle antichissime pratiche, con lo sperare soluzioni dalla nuova magia delle scienze neoesoteriche, da quelle raffinate a quelle più popolari, scaltre solo però - com’è sempre stato - ad occultare i quattrini e i beni dei creduloni e dei superstiziosi... che restano in ogni caso, sofferenti e perciò ancora più disperati. Non è un caso che il ”Gott ist tot!” (F.Nietzsche - La gaia scienza - libro 3°, 108 ) ha invece disperso (Lc 1, 51) ancora una volta il superuomo con la sua illusoria volontà di potenza, nei meandri tormentosi della sua follia. Quella dell’uomo autosufficiente è alla fine, un’incapacità da superare aspettando con rassegnazione la morte o di affrettarla, a causa della tribolazione insopportabile che la precede, col “suo” diritto ai vari modelli di suicidio – eutanasia, dolce morte eccetera. Insomma, l’uomo nonostante i traguardi della tecnologia, patisce tuttora incessantemente di una disarmante impotenza, identica e scandalosa quanto quella dei tempi remotissimi e sopportata, ad esempio, dal pio Giobbe: ”Satana… colpì Giobbe con una piaga maligna…Allora sua moglie - di Giobbe – disse: "Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!". Ma egli le rispose: "…Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?". [Gb 2, 3-10] In ultima analisi, con la sua congenita non-potenza ogni uomo è da sempre costretto a convivere, durante il lento trascorrere della sua quotidianità che appunto, è sentita spesso insopportabile seppure in tempi e gradi diversi, poiché molto dolorosa o troppo lungamente sofferta. Tra l’altro egli è coartato dalla pressante conflittualità con se stesso ed è pressoché obbligato, anche nelle relazioni di necessità o nei chiarimenti con gli altri, alle regole del giustificazionismo, soggettivista e univoco. Ma in questo contraddittorio si avvera un discernimento per tutti gli uomini: per il fedele credente prima, per l’inappagabile dubbioso poi, e infine, per il convinto non-credente. La verifica, non è tanto sul perché l’uomo vive nella sofferenza o perché egli debba capire il significato del dolore. Questo semmai, viene dopo. È invece sul perché ognuno, per la parte personalissima che gli spetta, tocchi con la propria debolezza, la potenza della fede o del credo a cui si è affidato. Un’immagine di quest’inevitabile contrasto, ad esempio, si vede bene nelle risposte non date o in quelle domande che, in certa misura racchiudono già implicite risposte – ciò è consono dell’agnostico e ben focalizzato in un utente di questo forum. Di certo, scimmiottare secondo gli opportunismi l’abile tattica socratica, assomiglia più al prodotto dell’indolenza piuttosto che all’effettiva dimestichezza di spiegare se stesso con intelligente razionalità e almeno con l’uso di informazioni attendibili. Ripeto: nondimeno però, certe domande/risposte esternate da alcuni, lasciano intravedere qualcosa di vago sui loro pareri, sui bisogni e sul malcontento di ciò che soffrono. È utile per tutti, sempre a mio parere, raccogliere volentieri l’invito, spesso provocante e a volte assai veemente-rabbioso, rivolto a puntino dai dubbiosi e specie dai non-credenti con il loro convinto ”sbilancio” allo smacco di Dio. D'altronde il loro confutare è valido, anche se sottovalutano i canoni dell’ermeneutica rispettati dalla teodicea – perché Dio si comporta così? Si spera pertanto che, la discussione diventi esplicativa per noi e ancora proficua per altri navigatori. A tal proposito e per dirla con molta franchezza: da queste loro temerarie domande-quesiti, si evince la logica partorita direttamente dalla mente di Satana. Una logica che, prima è stata ascoltata, sennonché poi accettata repentinamente dai suoi predestinati iniziati. Sento, infatti – e non credo solo io – che è quantomeno fatuo il dire di alcuni, che: ”Dio obbliga a soffrire”; acciocché non fosse invece vanesia la sua Parola di vita. Il serpente, ossia il più astuto degli esseri maligni, il Diavolo, quel malevolo che è alieno dalla verità ed è il sistematico negatore di Dio e che sa perfettamente quali sono le effettive capacità e dimensioni dell’uomo, essendo omicida e bugiardo dall’origine (Gv 8, 44) ha voluto traviare sin dall’inizio il senso più autentico e largo della libertà donata per grazia dal Creatore alla sua particolare creatura: l’Uomo, per l’appunto! Così, il Tentatore mentendo ad Eva e Adamo sul fine e conseguenze del comando divino a loro indirizzato - di non mangiare i frutti dell’albero del bene e del male per non provarne poi il danno della morte certa – insinuò e insistette senza alcuna remora: "Non morirete affatto! Tutt’altro Dio sa invece che, quando voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e, diventereste tali e quali a Lui, conoscendo il bene e il male" [Gn. 3, 4-5] Dopo aver mangiato, gli occhi si aprirono subito e l’uomo vide la sua nudità, n’ebbe profonda vergogna mescolata soprattutto con la paura. Cominciò così il suo percorso di sofferenza verso la morte preannunciata. Cosicché, la morte immortale, passaggio ne l'etterno dolore (Dante – “D.C. Inferno canto III, 3”) e di cui appunto la sofferenza è il suo nutrimento perpetuo, è entrata nel mondo per invidia del diavolo e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono (Sap 2, 24). Non dunque il libero arbitrio ha introdotto il disordine, la sofferenza e la nausea sartriana della vita, bensì l’agire dell’uomo con la misura della sua Superbia - madre del peccato che è il leit motiv del dolore patito e causato (Gn 3, 16-17). Ma Dio vuole bene all’uomo e non vuole abbandonarlo nel suo peccato e nella imperitura morte dolorosa, perchè: “Dio è amore” [1Gv 4, 8b]. Egli istruisce per educare e manda ancora oggi i suoi profeti. Difatti, l’esatto opposto della disubbidienza umana è il fidarsi, lo sperare, il cercare e finalmente il trovare quelle certezze e gusto della vita conseguito dalla sincera apertura e dall’ascolto attento della Parola di Dio. Essa soltanto è buona per camminare nella conversione assidua con le virtù della propria Fede matura e Speranza operate nella Carità, per riceverne insegnamento al vivere integerrimo, pulito e, nello stesso tempo, l’adempimento delle promesse (“Shemà Israel”: Dt 30, 15-20). Ora, una prima deduzione mi fa presente che, se si pretende sinceramente dagli altri il leale confronto e il merito reciproco delle convinzioni plausibili, è imprescindibile che ognuno non sia ambiguo con la propria onesta coscienza, ma la ascolti con l’ausilio della retta ragione. Ciò affinché, nel continuo evolversi del dialogo, ci siano possibili convergenze su ciò che non sarà più opinabile perchè ormai incontrovertibile, cosicché, si possano fare ulteriori reciproci passi per avere la visione più completa della persona e della realtà in cui essa è inserita. Questa è una correlazione vincolante anche se qualcuno, tra le sue diverse scusanti e pur non esulando dal timore del Signore (Sir 1, 16a), vive tuttavia il credo e/o la fede in maniera anonima, mai esplicitamente dichiarate o addirittura trascurate di proposito, magari a causa del pudore a non dover mostrare la propria incoerenza. Senz’altro però, anche queste ansie e disagi sono superabili, prima che col parlare della propria fede religiosa e/o del credo ideologico, con il disporre mente e cuore all’ascolto di quell’amor del vero che poi perfeziona la ragione e apre alla fede della persona. La coscienza adamantina, quindi, sia del non-credente, che del credente, esige perciò da ambedue la corresponsabilità perlomeno disciplinata dalle norme ermeneutiche convenzionali e idonee alle varie branche sapienziali e conoscitive. In questo altresì, è indispensabile quanto proviene dal procedere della spiritualità; dall’effettivo assetto della propria razionalità e dalla lucidità dell’individuo. Con questi strumenti allora è possibile compararsi a vicenda e correggere o demolire i rozzi pressappochismi fatti con analisi sprovvedute e interpretazioni infondate che mirano solo a conclusioni opportunistiche. Sappiamo che ciò è realizzabile anche con il costante allenamento intellettuale associato allo studio critico dei testi classici riferiti all’articolato mondo dello scibile umano: religione, filosofia, mitologia, sociologia e quant’altro. Inoltre, specie per noi occidentali, è indiscutibile il contributo del cristianesimo sia per la sua rilevanza culturale, sia per l’influenza dei linguaggi tipici della sua fede. A cominciare dall’esegesi biblica, alle dottrine di dogmatica e morale; dalla confidenza con i diversi rami della teologia, alla riflessione della tradizione apostolica e della patristica, quindi, è dall’approfondimento della dottrina sociale della Chiesa cattolica, enunciati dal magistero dei pontefici, dei concili, dei sinodi, eccetera. La persona, uomo e donna, è relazione e somma di spiritualità e corporeità. Sono due aspetti per i quali l’uomo non può che compiersi nell’intrinseca unità di sarx pneuma e, nel suo rapportarsi con l“altro”. Il dialogo è anzitutto verticale con chi, superando l’uomo all’infinito, alita su di lui e imprime il segno che è inconfondibile fra le altre creature (Ap 7, 3); è con chi pronuncia la parola creatrice (davvero col “Nos” maiestatis di Padre Figlio Spirito!) e chiama ad entrare nella vita: "Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” [Gn 1, 26]. La relazione umana poi, è con chi, nella dimensione orizzontale, gli è identico in una sola carne (Gn 2, 24) pur nell’irrepetibilità che distingue ogni persona. Nell’ultima accezione, il carattere tangibile di “relazione” umana è la famiglia, proprio perché, essendo la coppia vincolata dall’amore dato e ricevuto – non nel senso traslato del do ut des -, si fonda per questo nel matrimonio indissolubile – quanto è improprio, infatti, l’uso dell’ossimoro: famiglia tradizionale; c’è “la” famiglia e basta! È sempre e solo la Famiglia ad essere istituzione sociale e garanzia della stessa, poiché costitutiva del rapporto tra persone, nell’originalità di due differenti interlocutori: il maschio e la femmina (Gn 2, 23-24a). È la famiglia, marito e moglie, che procrea e genera la Collettività, la Nazione. È ancora la famiglia che dà esistenza, sovranità e continuità allo Stato; e non il contrario. Non è la sana laicità dello Stato sovrano – tantomeno il laicismo illuminista di matrice ateo-materialista! - a creare la famiglia, poiché essa esiste già per sé in natura. Il laicismo dello Stato laico, semmai, emula la famiglia riconoscendo altre forme di aggregazione più o meno irregolari, o peggio, la falsifica istituzionalizzando convivenze innaturali; il laicismo toglie integrità alla famiglia, le ruba dignità, mina l’identità delle persone che la compongono e sgretola la solidità della comunità civile, anzi, demotiva il fondamento per cui lo Stato sovrano stesso esiste. È perciò micidiale spaccare e non promuovere le due unità della persona, distinte ma inseparabili: la comunione nella relazione e, simultaneamente, la complementarietà del soffio vitale con la sostanza fisica. La storia ha dimostrato, e continua a farlo, che i due dinamismi devono svilupparsi e camminare insieme. Per l’uomo allora, è imperativo approfondire e mantenere saldo l’equilibrio della sua identità, nella misura in cui è aperto a quanto lo trascende e non solo a ciò che è chiuso nel suo immanente o palpabile solo con i suoi sensi fisici (Paolo VI – ”Populorum Progressio”, 42). Egli è fatto di materialità, tuttavia, di quella tangibilità proiettata avanti, oltre l’immediato comprensibile. Ciò nonostante, l’uomo ha anzitutto bisogno di toccare l’infinito, di eternare l’effimero, di stare nell’immortalità, in quelle dimensioni percepite ma tuttora ignote e ancora inafferrabili. Tanti sono i “segni” eclatanti, oltre alla “famiglia”, dai quali l’uomo può percepire il Mistero di cui è parte e che, contemporaneamente lo sovrasta: la purissima innocenza del bambino e della bambina, l’innamorarsi, il sentire, pur nel carpe diem, l’essenza dell’essere quando ci si ferma negli occhi belli della donna; o nel fascino virile del viso e del portamento dell’uomo (questo, me lo disse me morosa! Eh). È la vastità dell’universo e i suoi segreti, l’armonia della matematica con le sue immutabili leggi; è la paura che incute la tenebra, e la gioia che infonde la luce. È la maestà della tigre, la mansuetudine dell’elefante, la possanza mastodontica della balena, la dolcezza di un’ape, la robustezza della quercia, la delicatezza di un semplice fiorellino, eccetera. Segni inconfondibili lo sono – anche quando sono soffocati o rimossi - l’innata religiosità umana, il rispetto al sacro, il genuino timore verso un Dio ancora sconosciuto ma cercato nelle vie non sempre facili della verità (Rm 1, 19-20). Da qui pertanto la necessità che le molteplici dottrine metafisiche e le scienze esatte incedano con scambievole consonanza e ferma autorevolezza mantenendo le loro peculiarità. È vitale che sia una diade coordinata affinché, nella ricerca e comprensione, possa gradualmente dischiudersi l’arcano dell’essere e dell’esistere. Così le une in prospettiva escatologica garantiscono le giuste etiche e morali necessarie ora per i bisogni spirituali della persona al fine ultimo e specifico della soteriologia. Le altre in direzione esistenziale elaborano i sistemi ideologici ottimali e le prassi politiche adatte e conciliabili adesso con i bisogni materiali della medesima persona, per la sua immediata emancipazione e l’autentico progresso sociale. È dall’efficacia di questa metodologia che sorge perciò spontanea la lode e il grazie verso gli affermati maestri del sapere - conosciuti e no, non-credenti e si. Sono costoro i luminari che già per indole all’onestà spirituale e intellettuale, mettono scienza e mistica al servizio del loro incondizionato “si” alla verità. Essa bussa e presto li raggiunge; a loro si rivela immantinente con dolcezza e amore incontenibile. È Verità scoperta e liberante, che non s’allinea mai con il dubbio insidioso (Gn 3,1), con la cultura niceniana della trasvalutazione dei valori, ma che è critica oggettiva e condivisa da tutti per il ricupero e il rinnovamento dei candidi, cristallini, limpidi, lucenti principi. L’ossequio poi diviene meraviglia strabiliante, quando questo percorso si concretizza - quasi come un paradosso (Mt 11, 25) - nei poveri, nelle persone fragili consapevoli della loro piccolezza, proprio in quelle meno predisposte caratterialmente o non dotate spiritualmente e intellettualmente. “L'uomo supera infinitamente l'uomo” (B.Pascal - Pensieri, 434). L’uomo è dunque il “sì” indiscusso all’uomo. Diventa il suo “no” tassativo, quando guarda a sé come un transeunte assoluto che taglia il relazionarsi col suo fine primo e ultimo: Dio con l’Uomo. L’Uomo con Dio. Per tutto ciò è necessario prestare attenzione ad alcuni nessi essenziali sul valore del libero arbitrio che, personalmente penso disposto in questa sequenza: Grazia > Libertà > Volontà di Dio. Ciò significa: soltanto cercando, trovando e seguendo la volontà di Dio, da Lui rivelata in merito ai suoi attributi quali l’amore, la compassione, la pietà, la misericordia, la tenerezza, quindi alla sua gratuità di perdono, di riconciliazione, di pace, di santissima agape (Benedetto XVI – “Deus Caritas est” - Parte prima, Eros e agape differenza e unità, nn. 3-8) l’essere umano è già da ora, davvero libero nel cammino della sua piena felicità (già così nella fede adulta di sant’Agostino in ”De gratia et libero arbitrio”, e dei suoi discepoli; prima che nel pensiero dotto di Lutero in ”De servo arbitrio”, e dei suoi seguaci!). Alla riflessione si ripresenta inoltre anche la perenne e controversa questione: armonizzare libertà e diritto con le scelte divine e umane; al contempo, bilanciare il rapporto tra pubblico e privato. Mi è allora occasione opportuna puntualizzare da altro punto di vista, per trattare la sostanza dello stesso argomento più volte discusso anche in questo forum di giuristi. Oggi, come ribadito più volte dal magistero di Benedetto XVI, specie nei sui incontri catechistici delle Udienze Generali (vedi l’ultima di mercoledì 7 dicembre 2007), più che la mancanza del senso di “Dio”, c’è l’insignificanza del “senso di peccato” o, quantomeno, un suo abuso e quasi arbitrario giustificazionalismo. Spesso, infatti, leggendo le argomentazioni più equilibrate ed intelligenti di certi non-credenti, si sente appunto, indirettamente sottesa una domanda che costoro rivolgono ai credenti specialmente se cattolici: “Per quale motivo non ci lasciate “peccare” in pace? A voi credenti, che interessa?”. Mah… forse sarebbe da ridere se la questione, fosse solo una battuta sardonica o banale; ma è tutt’altro! È, infatti, un orpello serioso poiché tocca delle sostanze piuttosto importanti che coinvolgono l’interesse di tutti i cittadini. Mi sono chiesto allora: ma che domandina è mai questa? Sbirciando perciò nelle intenzioni dei contenuti, si nota pure l’accenno sui “diritti civili” dei non-credenti (i doveri?) che, al dire di queste voci, sono esautorati del loro valore per via di una presunta ”ingerenza” dei cattolici impegnati nelle istituzioni pubbliche dello Stato democratico. È superfluo ricordare che il nostro sovrano Stato laico è costruito, abitato e sostanziato di principi costituzionali derivanti da etiche e da morali universali, elaborate e promosse anche dai credenti di cultura e fede cristiana, tra cui appunto quelle dei laici-cattolici: giudici, magistrati, ministri, onorevoli, parlamentari di maggioranza e opposizione, professionisti, lavoratori, eccetera fino all’ultimo dei cittadini, oltre che da atei o non-credenti in alcuna religione. Più precisamente, la collettività sociale e democratica del nostro paese è comprensiva anche di laici-credenti, di laici-cristiani, di cui i laici-cattolici: gli eminentissimi vescovi-laici, i pregiatissimi sacerdoti-laici, gli illustrissimi religiosi-laici, e soprattutto, la maggioranza dei rispettabilissimi signori fedeli, laici-cattolici. Sono costoro che, nel rispetto della dottrina morale e sociale della Chiesa Cattolica, s’impegnano direttamente alla gestione sociale e politica del paese nei ruoli e con gli strumenti a loro consoni. Tornando allora al quesito in oggetto, è utile dare con altrettanta pronta ironia una risposta esauriente; non solo dovuta dai cittadini laici-cattolici, ma, pure dai laici di buona volontà che non si riconoscono in nessuna denominazione religiosa, indi, dai laici-credenti e dai laici-cristiani di confessioni varie. Nella nostra bell’Italia, finora, non è concesso neppure al non-credente un suo diritto di imporre arbitrariamente agli altri concittadini del nostro Stato le sue private regole da “mormone” laico. Nessun cittadino peraltro, gli impedisce di “peccare” in pace: per l’appunto, privatamente! Caso mai, pure il non-credente, in forza della libertà d’espressione e dei diritti costituzionali, può proporre la sua “morale”, anche se permissiva e edonista, all’attenzione di tutta la comunità laica in cui anch’egli è inserito, purché, la stessa non contravvenga alle norme contrarie al buon costume (Costituzione Italiana, art. 19ss). Ad ogni modo, andiamo per gradi. Di sicuro le suddette vocine hanno parodiato con stringata querela quanto desumono invece con altrettanta fröhliche Wissenschaft gli empi e gli stolti, dopo aver lungamente sragionato fra loro con la seguente lugubre cantilena: “Siamo nati per caso… la nostra vita è breve e triste; non c'è rimedio, quando l'uomo muore… saremo come se non fossimo stati… Su, godiamoci i beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito - e di droga! – e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della primavera, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscano; nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza. Lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta, questa è la nostra parte. Spadroneggiamo sul giusto… tendiamo(gli) insidie… mettiamolo alla prova con insulti… condanniamolo” - e anche - “Lo stolto pensa: "Non c'è Dio". Sono corrotti, fanno cose abominevoli: nessuno più agisce bene.”. [Sap 2, 6ss; Sal 14, 1] La prima impressione è che almeno questi non-credenti sono stati “onesti” con se stessi e con gli altri connazionali, a motivare esplicitamente le ragioni della loro arroganza a vivere nella propria immoralità, nella prepotenza e nella peggiore iniquità. C’è però da capire se, tra i diritti privati del laico non-credente, debba essere introdotto nel societario vivere civile anche questo loro diritto: di “peccare” pubblicamente in santa pace. Diritto, tra l’altro, che se fosse un bene, sarebbe superfluo chiederlo solo per una minoranza, poiché in automatico si dovrebbe estenderlo al vantaggio di tutta la popolazione dello Stato laico, e non per causa della protesta d’alcuni cittadini non-credenti. Vediamo, però, anche cosa vuole veramente reclamare quel gridolino da non-credente, poiché a quanto sembra, dà per scontato quello che non è per tutti i cittadini laici, credenti o non-credenti. Questa intimazione, imbastita a rivendicare una fantasiosa discriminazione subita alle limitazioni civili per certuni non-credenti, non è nemmeno avvertita da chi, pur essendo inappagabile dubbioso o convinto non-credente, è tuttavia ben disposto con la sua vereconda coscienza sociale e personale, con la propria buona volontà individuale e collettiva. Detto questo, viene spontanea un’altra considerazione: il fatto che c’è la licenziosa libertà di “peccare” privatamente, è un pretesto valido per prescrivere il diritto di legalizzare giuridicamente il “peccato” e il “peccare” nella res publica? È come dire: visto che oggi i rapporti contro-natura di lesbiche e omosessuali tendono ad essere considerati normalità da certa risicata opinione pubblica se avvengono tra coppie adulte consenzienti, o visto che la prostituzione femminile e maschile per le strade è già tollerata dai benpensanti o sottaciuta dagli apatici con la logica del laissez faire per quell’esigenza imperativa di domanda-offerta del piacere sessuale, o visto che per salvaguardare il perbenismo e il quieto vivere è ormai necessario assassinare con l’aborto l’innocente nascituro non desiderato dopo la distrazione del sabato sera della figlia sedicenne, o visto che il drogarsi è un bisogno per riempire il vuoto della vita, o visto che… eccetera; allora è doveroso e indispensabile, anzi, proprio perché rientra nel vero bene del progresso sociale, è conveniente istituzionalizzare, questo e quant’altro di peggio con leggi di maggioranze governative e parlamentari. Adeguate però, alle regole del relativismo materialista, a visioni ideologiche assolutiste o agli interessi partitici e di comodo (regimi nazifasciti, dittature neomarxiste, governi alla zapatero, eccetera) o ad altri fini utilitaristici. Per cui, i bambini non-nati, i malati specie menomati o terminali, gli anziani invalidi, i non-autosufficienti, i poveri, gli ultimi, gli indifesi sono solo considerati come una realtà d’impaccio da sacrificare alla forza, al potere, a mammona, all’economia lucrosa, al consumismo, all’interesse egoistico, al prestigio settario, al… eccetera. A tali quesiti sono necessarie alcune premesse: è assodato che i termini, peccato e “peccare”, usati solo nel linguaggio prettamente religioso e con tutte le varianti fissate dalla fede e cultura ebraica e cristiana, e molto più tardi musulmana, non sono concetti assimilati da chi, non ne vuole sapere o ha dimenticato il significato di “peccato”, quindi di ”peccare”. Chi poi è non-credente, non può neppure pretendere d’avere la misura religiosa-sociale della propria moralità o immoralità o amoralità, se non per via di una sua privata convinzione, tanto più discutibile quanto più esclude le nozioni di “dio” “fede” “religiosità naturale” “sacro” “ecclesia” eccetera, o di tutto questo ne fa un pastrocchio con “mito” “sociologia” “psicologia del profondo” eccetera. Inoltre, non è lontanamente presupposto dagli eruditi docenti di pedagogia religiosa e civica che il peccare tranquillamente è sinonimo di ”Bene”. Non è, infatti, norma comportamentale stabilita nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani né tantomeno inscritta nella Legge morale naturale. Come detto, tale astrazione al peccaminoso comportamento, è solo l’ideale di chi fa del peccare gli atti voluti e contrari al minimo d’educazione religiosa che semmai, è ancora poco educativa al corretto vivere sociale su quanto e su che cosa è realmente bene o male, buono o cattivo per l’uomo. Il punto focale però è un altro: nessuno, neanche il pensiero più oggettivo del non-credente in buona fede o veramente onesto, può arrivare a cogliere la pienezza di peccato e peccare se, Dio stesso, e solo Lui per sua libera volontà, non rivela a chi vuole, il senso vero di ”peccato” e di ”peccare”. Logica allora chiede e risponde: come può il non-credente sapere ciò che è pro o contro l’interesse o il danno sociale, a vantaggio del bene o del male morale dell’uomo se già a priori, lui non-credente, non vuole Dio nella sua vita, ne ha la massima (e immotivata!) avversione, non gli interessa cercarlo e ascoltarlo, lo rifiuta e non può pertanto conoscere assolutamente la Sua volontà. Difatti, il non-credente non possiede né l’idea religiosa di “peccato” e di “peccare”, né di riconoscere la Legge divina e le successive norme etiche e morali per il bene immediato e ultimo della persona e contro la pretesa di peccare volutamente. Il concetto di peccato e peccare, non lo sa nemmeno lo Stato sovrano se, non grazie alla fede dei laici-credenti di cui, ne fanno parte i laici-cattolici. Anzi, più precisamente ne viene perfettamente a conoscenza proprio da costoro, che, essendo loro stessi “Stato” per la parte di “diritto” e di “dovere” che gli spetta, organizzano il medesimo Stato laico affinché possa sussistere ed operare al bene civile di tutti i suoi membri (Sant’Agostino – “De Civitate Dei”, Libri XIV-XX). Il cristiano, infatti, sa bene che cosa vuole Iddio dall’uomo e il cattolico sa molto meglio ancora che, il “peccare” coscientemente, sia in privato sia in pubblico, è immoralità aborrita dall’Altissimo - di cui il “non uccidere” con i suicidi, con gli aborti, con gli omicidi, con le eutanasie, con le fecondazioni artificiali, con… eccetera; o il peccare contro la virtù della Castità: omosessualità, pedofilia, pederastia, pornografia, prostituzione, adulterio eccetera. In altre parole: la domandina del non-credente, che fa del suo “peccare” in pace lo standard di vita privato per sé e per altri suoi consimili, è insensata perché chiesta ai laici-cattolici proprio da chi non vuole saperne nulla di Dio né tantomeno aver a che fare con le sue etiche e morali “naturali”. L’altra risposta è che, se invece il ”peccare” con tranquillità è scelta consapevole, allora anche questa del non-credente, non è altro che “immoralità”. È “Male”! È quel male compiuto apposta per sostituire la moralità creduta dagli altri, con la propria normale lascivia e farla passare come il pregio dell’anticonformista libero da inibizioni, da indottrinamenti anacronistici. Difatti, la sua da non-credente è ingerenza mirata all’intento malizioso di misconoscere i precetti divini. Non solo: è soprattutto a corrompere le etiche e le morali usuali seguite dalla maggioranza degli altri concittadini guidati, intanto, da quel buon senso comune insito in madre natura e che, se coltivato con onestà e fede, porta alla comunione con Dio e ad un ben maggior senso d’equità sociale. Chissà allora, per questo tipo di non-credente, in conformità a quale diritto gli è legittima la sua ingerenza e l’ostracismo contro i diritti degli altri laici, di cui quelli dei laici-cristiani e dei laici-cattolici! Il “diritto” dei laici-cattolici invece è ben motivato, poiché sostenuto da un elementare principio logico, che dice: i cristiani, soprattutto i cattolici, non sono credenti perché si fidano della parola del non-credente – figurarsi; a posto saremo! I fedeli non si fidano neanche della parola del cittadino sul generis, né di quella parola di credenti o cristiani dichiaratisi cattolici ma men che meno praticanti e non in comunione tra loro né con la gerarchia ecclesiastica. Salvo che, in osservanza della dottrina cattolica, ci siano piuttosto quanti parlano con la coerenza della propria vita, alla maggior gloria del “nome” che è sopra di tutti gli altri nomi, Gesù (Fil 2, 10). Egli solo, con differente corresponsabilità dei tre uffici, “sacerdotale” “profetico” e “regale” (“Catechismo della Chiesa Cattolica” - I fedeli laici, nn° 897-913), li ha preposti quali annunciatori del suo Vangelo perchè depositari della fede cattolica e garanti della sua medesima dottrina. Il loro “fidarsi” è necessariamente dentro la comunione (nella sua massima profondità!) con il Collegio Apostolico di cui il romano Pontefice, i Vescovi, i Sacerdoti… e con l’ultimo dei battezzati. I cattolici, dunque, sono bensì credenti ma solo perchè si fidano esclusivamente della Parola di Gesù Cristo, unico Pastore e Mediatore tra Dio e i discepoli della sua Una e Santa indi, per tutti i cattolici, Madre Sposa e Maestra, Chiesa Cattolica. Credono che egli, Dio, mostra a tutti, credenti, dubbiosi e non-credenti in che cosa consiste e quanto è male il peccato. Quanto, è mortifero “convertirsi” al peccare intenzionalmente contro lo Spirito Santo, sia in privato sia pubblicamente. Lo Stato sovrano poi, deve garantire al cittadino credente, laico-cattolico e non, questo “diritto” di libertà, non solo di parola ma anche di legittima azione democratica. Pena è che, se lo Stato sovrano non salvaguarda i diritti inalienabili dei suoi cittadini, di cui quelli dei credenti, dei cristiani e dei laici-cattolici, è automatica la delegittimazione del governo e delle strutture statali che lo sostengono; oppure, se altre vie al bene o ai compromessi equilibrati al minor male non si vogliono trovare o sono oggettivamente impossibili, allora il migliore e inevitabile rimedio è che lo stesso Stato laico sia esautorato del suo potere sovrano. Sì dunque, solo della Parola della Trinità attinta costantemente dalla materna istruzione e cura del Magistero di Santa Madre Chiesa Cattolica romana e paolina – Papa e Vescovi, coadiutori, eccetera -, i credenti laici-cattolici si fidano e si lasciano condurre affinché si adempia anche oggi proprio per mezzo di loro la Sacra Scrittura: "è necessario obbedire a Dio, prima che agli uomini " [Atti 5, 29]. Inoltre, la base di tale inalienabile “diritto” civile del laico-cattolico e costituito sulla libertà d’essere lui medesimo “Cittadino” e insieme “Stato” sovrano, è fondata sul suo dovere-laico di restituire senz’altro allo Stato quello che è suo. Non solo… ma è primariamente di assumersi anche il suo “dovere” religioso e sociale di fare quanto il non-credente non può in assoluto compiere perché non vuole né sentire né operare di propria volontà: ” Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: Ipocriti, perché mi tentate?... Rendete… a Dio quello che è di Dio” [Mt 22, 18. 21b]. Rendere a Dio quello che da sempre gli appartiene, significa per tutti e specie per il credente e per il laico-cattolico, inventare, promuovere e rispettare Leggi sociali per e dello Stato laico sovrano al bene e al progresso dei singoli e della collettività di tutto il suo popolo. Ma al cattolico-laico gli è anche irrinunciabile il suo inalienabile diritto e dovere di cittadino a contrastare legittimamente e “democraticamente”, fino se occorre a perdere se stesso, anche quelle Leggi inique o proposte devianti che contraddicono non soltanto la Legge naturale ma ben anche e soprattutto la Legge divina. Ciò premesso, adesso basta tirare un altro po’ il filo per dipanare meglio quel grumo di forma mentis di chi da non-credente animato dal peggior laicismo neoilluminista e in forza della sua ingerenza nel sociale, chiede il consenso al licenzioso “diritto” personale di peccare spassionatamente. In pratica, pretendere dai credenti che non lo condividono, d’usare il “suo” diritto privato all’immoralità, non solo con le sue istituzioni private – il che, non farebbe problema a chicchessia – ma con le pubbliche strutture sociali create e mantenute con la spesa anche dei laici-cattolici oltre che del restante di concittadini. Per gli abitanti di Sodoma&Gomorra, stretti dal comune interesse alla concupiscenza della carne (Gc 1, 14-15), era un diritto legittimo fare del traviamento omosessuale contro-natura, dell’abuso dell’ospitalità, della corruzione e della violenza in genere, la qualità per vivere da peccatori felici e beati. Il loro “diritto” non era chiesto né preteso da uno o due di loro o da una minoranza né da una maggioranza, ma era acquisito da una collettività coesa (Gn 19, 4). Imperocché a rigor di logica, va detto che è inconfutabile anche la prerogativa di Jahvè di esercitare il suo sovrano “diritto”. In quello specifico caso lo fu di tutelare da una parte la giustizia della sua Legge e dall’altra, ”castigando il peccato dell’uomo… correggere” (Sal 39, 12a) e far cessare immoralità e corruzione vissute da quei cittadini. È così che maturano i tempi in cui, nel segno del calice drogato e ricolmo dell’ira divina, si compie ciò che da sempre è stabilito e profetizzato nelle Scritture: ”fino alla feccia ne dovranno sorbire, ne berranno tutti gli empi della terra” [Sal 75, 9]. Il Terribile, che è soltanto grazia e compassione, educò anche in quella circostanza: avvisò e richiamò più volte quei peccatori sodomiti dal cuore ostinato e indurito, attraverso il suo servo e mediatore Abramo; ma costoro, irremovibili, rifiutarono di convertirsi. L’Onnigiudice, nel quale non c’è ingiustizia (Sal 92, 16b), decise allora di distruggere quel luogo di perdizione e sterminò tutti i suoi abitanti. In opposizione alla cattiveria umana, il Signore che tutto vede e tutto sa (Benedetto XVI – Udienza Generale, 14 dic 2005, “Sal 138,1-12”), insegnò ancora pazientemente in altre occasioni: col diluvio e la torre di Babele; insistette a più riprese di correggere con le sorti dei vignaioli infingardi, del ricco epulone, del traditore Giuda, del guai a voi guide cieche, eccetera. Ammaestrò in modo superlativo e definitivo attraverso l’incarnazione del Verbo, con la pasqua del suo Servo (Fil 2, 5-8 ) il Cristo Gesù. Colui, che nella stessa Persona, è il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo. Alla fine Egli chiuderà con l’estirpare la mala gramigna (Mt 13, 30) finalmente da bruciare. Vale a dire, donando in sovrabbondanza la giusta retribuzione di pena perpetua – frutto anche questa della Grazia - ai peccatori malvagi, a coloro che, hanno fatto del “peccare” in “santa” pace il destino terrificante a cui loro stessi si sono auto predestinati col fine di consumare e gustare ancora e ancora incessantemente le proprie scelleratezze (è sempre il mio prediletto artista, Agostino d’Ippona in ”De praedestinatione Sanctorum” e l’amato doctor angelicus, l’Aquinate san Tommaso nella sua ”Summa theologiae - Christus, III, q. 26” e ”De malo q.d.”. È in Lutero, nel calvinismo e nella dottrina della “Doppia predestinazione", nella condanna del arminianianesimo col sinodo di Dordrecht 1618. È in G.W.Leibniz nei suoi trattati di teodicea; è in K.Barth, H.Kung e in altri eccelsi pensatori e teologi protestanti e cattolici). Si sa che oggi, nelle laiche società occidentali, è forza e fa comando il pluralismo degli indirizzi religiosi ed etici, ideologici e politici dei loro cittadini non più legittimati o delegittimati dalla forza di maggioranze o minoranze unilaterali. Giustamente si riconosce una parità di diritti e doveri di là della loro influenza religiosa, ideologica, politica, sociale eccetera, poiché, è vera conquista umanitaria riconoscere anzitutto la dignità e il valore inalienabile della persona prima di ciò che lei vuole o pretende d’essere ed organizzarsi nel vivere comune. Per questo oggi è ancora più valido il principio che, nessuno di quanti coabitano nella collettività-laica, possono “imporre” i propri principi e valori con le conseguenti etiche e morali, alla totalità del populus, se non quando il loro diritto privato é politicamente avvalorato da democratiche maggioranze di governo, atte alla consistenza e funzionalità dello Stato sovrano. Certamente ognuno, credente-laico o non credente-laico ha, però il diritto di “proporre” quanto gli è proprio e presumibile pure al bene comune. Per provvidenziale fortuna, nella nostra bell’Italia il permesso di peccare, anzi, per dirla in termini laici, il diritto di compiere pubblico libertinaggio non deve essere “imposto” da qualcuno ad alcuno; così come, i valori etici e morali assoluti per il cattolico, possono solo essere “proposti” a tutti i cittadini di là delle loro fedi e/o credi. Il nostro paese non è Sodoma&Gomorra dove la corruzione e l’edonismo, più che una normalità, erano un obbligo per esibire apertamente il malcostume e l’immoralità sfrenata. Lì, il “peccare” equivaleva a “struttura di peccato” (Giovanni Paolo II - ”Sollecitudo Rei Socialis”, Capitolo IV n° 36) fondante la loro comunità; come, in eguale mansione, il delinquere è norma di legge per le organizzazioni malavitose. In questo senso è pure indebito rifarsi alle classiche società greche e romane, proprio perché cadute sotto i colpi della loro corruzione politica e sociale, e quindi di un apice oramai incontrollato del proprio edonismo per il quale, già dell’imperator Caesar, si biasimava la sua immoralità: "marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti". Si deve dunque essere tutti consenzienti od omertosi davanti alla pretesa di legalizzare “peccato” e “peccare” secondo coscienza? Non sia mai! Il cattolico è anzitutto profeta dell’Altissimo per la potenza dello Spirito Santo donatogli da Gesù risorto, specialmente efficace nel luogo, nella società civile in cui il cristiano convive. Al che, il fedele con la propria conversione richiama ed esorta – in occasioni opportune e non – alla validità delle etiche e delle morali, al ritrovamento dei valori spirituali abbandonati, a quella riconciliazione sempre e soltanto offerta dall’amore incommensurabile del Padreterno, anche al bene spicciolo e materiale dei propri fratelli connazionali. Ciò, il laico-cattolico lo annuncia e lo fa specialmente nell’ambito delle proprie competenze civili e con l’uso di prassi politiche adatte (Concilio Vaticano II – ”Gaudium et Spes – Cap. IV, La vita della Comunità politica, nn° 73-76”) in virtù della sua fede religiosa e del proprio credo ideologico politico. In ciò agisce a differenza di chi non vuole ascoltare, né riconoscere al Creatore i suoi diritti: rendere senz’altro a Dio – oltre che a “Cesare” - quello che è suo. Di modo che il “permesso” non equivalente né a benestare né a compromesso ma a tolleranza dei cattolici, dei cristiani, dei credenti e delle persone di buona volontà, corrisponda all’equivalente evangelico di lasciare al peccatore la possibilità di “sbagliare” in pace. Il tanto è dato affinché il peccatore - che sceglie per se stesso e in autonoma libertà le vie larghe e da lui ritenute migliori per la sua vita privata - possa in seguito “correggersi” anche lui da quanto ha sperimentato di desolazione e di morte (Lc 15,11-32). Contrariamente, quello del laico cattolico, diventa il suo doveroso diritto/dovere di contestare con la forza democratica se, il “peccare” coscientemente indica il bisogno del peccatore recidivo di imporre agli altri la sua “morale” viziata con politiche capziose o leggi permissive. Specie se, sono rafforzate con le strutture di peccato persuasive alle varie immoralità abituate al vizio, ridotte alle crapule eccetera. In pratica, non solo per il laico-cattolico si tratta del rifiuto di normalizzare il “peccato” bensì di chiamarlo sempre con il suo vero nome e per quello che è: Male. Anzitutto poi, è di non concedere mai al “peccare” alcuna forma sociale di legalità costituzionale e giuridica... è impedire il sorgere di quelle strutture che non incoraggiano la priorità all’incontro, alla “inversione” verso Dio, sempre possibile per tutti: credenti e non-credenti. Sono queste allora le incongruenze sociali che i laici-cattolici individuano e non consentono al vivere civile del proprio paese e le concretizzano per il loro superamento, con le adeguate forme di protesta democratica fintanto che, in questo Stato sovrano, c’è anche il peso, in apparenza insignificante, di un solo qualificato laico-cattolico ad affermare e a difendere tutto ciò che è vero, buono e sano. A dirla meglio poi, per come la vedo io, la quantità di “peso” della contestazione, è relativa o irrilevante se lo scopo è di cercare un consenso che non sia finalizzato alla sua giusta funzione di salvaguardare anzitutto i valori cristiani e quelli che sono stimabili per indiretta sintonia con questi; anziché accattivarsi alte percentuali di plauso popolare. Non è così, infatti, quando c’è il merito d’iniziative attuate dalla cittadinanza tutta che, magari scende in piazza a milioni con pargoletti e giovani, con anziani e famiglie intere per stimolare e tutelare i valori portanti della vita comunitaria del nostro paese. Così come si è visto nella giornata del Family Day con il suo riuscito e imponente raduno di populus italiano festante per promuovere politiche a sostegno della famiglia. Il cristiano, specie cattolico ascolta, grazie ai suoi autorevoli e amati Pastori della Santa e Unica Chiesa Cattolica voluta e fondata da Gesù (Congregazione per la Dottrina della Fede – Documento, 29 giugno 2007, “la vera Chiesa di Cristo”), la Volontà del Padre senza imporla a nessuno dei suoi concittadini. Ci mancherebbe! Il discepolo di Cristo opera invece - come detto pocanzi - perché è necessario obbedire a Dio, affinché anche per mezzo del laico-cattolico siano incentivate Leggi parlamentari “buone” per tutti, prima che all’altro dovere di respingere leggi e proposte disoneste contro la persona e contro la famiglia; o contro la vita umana, dal concepimento al suo naturale declino. Tant’è stata anche la risposta eccellente di quasi la totalità degli italiani con il loro diritto costituzionale all’astensione di un voto che prevedeva l’abrogazione d’alcuni importanti articoli della già fragile L. 40/2003 sulla “Fecondazione artificiale e medicalmente assistita”. Quella è stata la caporetto degli oscurantisti radical-borghesi, vestiti da sub-cultori sennonché per nulla idonei alla vera emancipazione sociale e seria laicità dello Stato (laicità, tra l’altro, già in germe nel cristianesimo e sviluppata nel miglior pensiero illuminista), che hanno svalutato e abusato dello strumento referendario, usandolo contro il bene supremo della vita nascente. Per mezzo del tenace e salutare inculcamento scaturito dalla fede cristiana, meglio fissata nel dogma elaborato nel corso della secolare Tradizione cattolica, si deve sicuramente credere che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza del suo Creatore. E sa bene l’ispirato salmista qual è la misura della sua consistenza; dice, infatti: ”… che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” [Sal 8, 6-7]. ”Eppure”, appunto, non per questo l’uomo è Dio e non è per lui il possesso del potere assoluto benché, lui stesso è deificato – anche dopo la caduta e sempre per benevolenza e per grazia – e già reso compartecipe della stessa santità divina, della sua vita immortale. È costitutivo e pertanto ontologico per l’Uomo essere e rimanere in qualunque caso Creatura. Ciò fonda la base essenziale dell’antropologia umana e non solo biblica. È il principio di tutto il divenire storico umano, anche promosso dal cristianesimo cattolico (e a ben guardare, tale origine è pure fondamento implicito nell’umana religiosità naturale) dal quale non si può prescindere se non a scapito della Verità o al vantaggio del lucroso interesse, di artefatte riduzioni e storpiature sul valore effettivo dell’identità umana, della sua relativa continuità esistenziale e oltre! Completando perciò con altra riflessione, va dunque semplicemente affermato che all’Uomo, proprio partendo dalle nozioni finora esposte, non appartiene nemmeno il “diritto” di suicidarsi o di togliere la vita ai suoi simili a motivo, oltre che del comando divino di “non uccidere”, della sua impotenza di riprendere “quella” vita individuale e unica per sé, né tantomeno di poterla restituire agli altri con le proprie forze e circoscritto potere. Pertanto, nel regolare espletamento delle politiche sociali, nel rispetto della nostra Costituzione e delle norme legislative, alcuni politici e certi partiti radical sic non continuino con la loro prepotente ipocrisia ad imporre alla totalità civile il “diritto” al delitto e alla vergogna. Caso mai li tengano e li facciano come loro affare privato e non a spese della struttura pubblica: aborti, eutanasie, suicidi, convivenze omosessuali, pseudo famiglie, eccetera. Non scambino il bene con il male alimentando, o peggio, introducendo con la licenziosità di leggi scellerate un onere spirituale e materiale a tutta la collettività. La smettano con la loro smania di potenza impossibile; pensino piuttosto al ricupero e al rinnovamento dei valori base. Essi diano piuttosto, il giusto senso e significato del detto laicizzato e preso in prestito dalle Sacre Scritture e dal sentire cristiano: “Nessuno, tocchi Caino”. Incoraggino e allarghino il senso di quella moratoria universale chiesta dal nostro e da molti paesi. Questo motto e richiesta, infatti, vanno riferite pure al potenziale suicida; maggiormente intese al freno delle ipotesi aberranti – finora solo utopiche nella nostra società italiana – di legalizzare il “suicidio assistito”, la “dolce morte”, l’eutanasia, la fecondazione artificiale, la clonazione (dall’america le ultime notizie di quella umana!) o quant’altro in oggetto di grave e di male per l’umana specie. Finendo questa prima parte d’argomentazioni, affermo: noi cattolici siamo ben lungi dall’essere gli sponsor degli “autoflagellanti” – e penso che non lo sia nemmeno una consorella o un confratello di quest’apprezzato forum a deificare la sofferenza! La sofferenza temporanea non è un optional per qualche sfortunato! Essa c’è, senza doversela cercare o procurare di forza. Anzi, noi cristiani sappiamo per fede vissuta che proprio il Signore è venuto con la sua “scienza” per eliminare il male, rendere impotente la sofferenza, sgravare il suo carico pesantissimo, lenirla del tutto perché tutti abbiano la vita in abbondanza (Gv 10, 10b). Grazie ancora al dono della fede noi cattolici abbiamo serena coscienza che ogni persona, accondiscendente o nolente, credente o no, deve incontrarsi con la sua sofferenza, ossia, con la propria personalissima “Croce”. Con la quale e dalla quale tutti noi, credenti, dubbiosi e non-credenti siamo vagliati per poterci auto-verificare sulla vera libertà finalizzata alla nostra salvezza o alla perdizione nella dolorosa seconda morte (San Francesco – “Il Cantico delle Creature”); al rifiuto o all’incontro definitivo e in visione concreta, col divin Buon Pastore che, grazie al “si” della Donna, la Santissima Vergine Maria, è il Redentore, è diventato l’unico Salvatore e, in certo qual senso, “avvocato” di tutti. Lui, che è il Signore della sola sua Sposa Chiesa Cattolica; Lui il nostro mai troppo amato e adorato Gesù Cristo, il Crocefisso Risorto che, è benedetto nei secoli dei secoli... e ben oltre l’eternità. … continua [SM=x43646]




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13/01/2008 19:35
 
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Anche l’India sostiene la moratoria contro l’aborto
La moratoria mondiale sull’aborto, dopo quella sulla esecuzione capitale, interessa anche il mondo asiatico, dove entrambe le morti sono spesso attuate con violenza da vari Stati. In questi giorni AsiaNews darà resoconto su interventi e prese di posizione provenienti dall’Asia. Quest’oggi cominciamo da una dichiarazione del card. Oswald Gracias, arcivescovo di Mumbai Mumbai (AsiaNews) – L’idea della moratoria contro l’aborto, dopo quella sulla pena di morte approvata all’Onu, è nata da un giornalista italiano, Giuliano Ferrara, direttore del “Foglio”, un quotidiano d’opinione, e ha visto AsiaNews fra i primi sostenitori. Anche il card. Raffaele Martino, presidente di Giustizia e pace ha detto subito che dopo la pena di morte occorreva preoccuparsi “dei milioni e milioni di uccisioni di esseri certamente innocenti, i bambini non nati” (Cfr. Osservatore Romano, 20 dicembre 2007). Nel mondo ecclesiale italiano sono intervenuti a sostegno della moratoria il card. Camillo Ruini, vicario della diocesi di Roma, che in un’intervista a Canale 5, il 31 dicembre scorso, ha dichiarato: "Credo che dopo il risultato felice ottenuto riguardo alla pena di morte fosse molto logico richiamare il tema dell’aborto e chiedere una moratoria, quantomeno per stimolare, risvegliare le coscienze di tutti, per aiutare a rendersi conto che il bambino in seno alla madre è davvero un essere umano e che la sua soppressione è inevitabilmente la soppressione di un essere umano”. Il card. Ruini ha anche chiesto un ripensamento della legge italiana sull’interruzione della gravidanza, per “applicarla in pieno” negli aspetti “a difesa della vita” (ad esempio sostenendo i Centri di aiuto alla vita), ma anche aggiornandola “al progresso scientifico che ad esempio ha fatto fare grandi passi avanti riguardo alla sopravvivenza dei bambini prematuri. Diventa veramente inammissibile procedere all’aborto a una età del feto nella quale egli potrebbe vivere anche da solo". In Italia l’aborto è consentito fino al 90° giorno di gravidanza; dopo il 90° giorno, solo se la vita della donna è in pericolo, oppure se si notano anomalie o malformazioni del nascituro che mettono in pericolo la “salute psichica” della donna. Di fatto, questo ha aperto la strada a una vera e propria eugenetica, eliminando feti malformati in ogni caso, anche se ormai la scienza permette una vita autonoma del feto fin dalla 3ma settimana. Anche il card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, in un’intervista al Corriere della Sera (4 gennaio 2008) si è espresso a favore di una moratoria contro l’aborto, definendo l’iniziativa “lodevole perché essa costituisce un richiamo forte e chiaro all’intenzione degli Stati sulla protezione e la promozione della vita umana”. Intanto, la campagna per una moratoria a favore dei bimbi non nati e contro le pratiche eugenetiche degli Stati sta trovando sostegno anche nel mondo non cattolico e laico. Il direttore del Foglio si augura che tutto questo generi un movimento che organizzi una manifestazione di “5 milioni di pellegrini” a Roma nella prossima estate e spinga a inserire nella dichiarazione universale per i diritti dell’uomo anche “la libertà di nascere”. Ecco l'intervento del card. Gracias: Con tutto il cuore do il benvenuto e il mio sostegno a una moratoria internazionale sull’aborto. Ciò è profondamente necessario per sensibilizzare la comunità mondiale nel creare e costruire una cultura della vita. L’aborto è un male orrendo ed è divenuto una delle minacce principali alla dignità umana perché costituisce un attacco contro la vita stessa. Bisogna infatti notare che l’aborto è un crimine commesso contro coloro che sono i più deboli e indifesi, quelli che possiamo definire davvero “i più poveri dei poveri”. Anche la moratoria sulla pena di morte, votata all’Onu, è stata benvenuta. Io dico sempre che abbiamo bisogno di promuovere una cultura della vita. Con la pena di morte si rischia di uccidere persone innocenti, si toglie la possibilità del pentimento, di cambiare vita. Per questo siamo sempre stati contro la pena di morte. L’aborto è la morte della vera libertà; affermare che l’aborto è un diritto significa attribuire alla libertà umana un significato perverso e cattivo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro gli altri. La cultura dell’aborto, purtroppo è diffusa in tutto il mondo. Permettendolo in modo legale – nel senso che non vi è penalità per chi lo compie – la gente presume che esso è moralmente corretto. Ma questo non è vero: l’aborto è sempre la soppressione di una vita. Quanti milioni di vite sono eliminate, grazie a questa cultura di morte! Per questo io sostengo la moratoria: ogni persona deve cominciare con l’impegno a non uccidere – o collaborare a uccidere – intenzionalmente nessuna vita umana, per quanto essa possa essere spezzata, deforme, disabile, disperata.L’aborto è incompatibile con la dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio. Esso è un grave atto di violenza contro la donna e il suo bambino non nato. Uccidere un bambino nel grembo della madre è uccidere una persona. In India si pratica spesso l’aborto selettivo, contro le bambine. E questo avviene non solo in India, ma in molte parti del mondo. Da molti decenni la Chiesa indiana, lotta per la cultura della vita. Attraverso i nostri servizi sociali, educativi, sanitari, diffondiamo una profonda coscienza in difesa della vita, un profondo rispetto per la persona umana in tutti gli stadi della sua esistenza. Spero proprio che questa campagna per un cultura della vita si diffonda in India e in tutto il mondo. fonte - Ansa - [SM=x43665] [SM=x1457839] [SM=x43605]




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13/01/2008 19:37
 
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il Cardinale Angelo Bagnasco: «Benissimo la proposta Moratoria sull’aborto e la revisione della legge 194»
Dopo Ruini, Bagnasco. L’appoggio alla campagna per una moratoria sull’aborto e l’«auspicio» di una revisione della legge 194 sono da oggi non solo del vicario del Papa per Roma ma esplicitamente anche del presidente dei vescovi italiani. Il cardinale Bagnasco infatti, con una intervista al Corriere della Sera, ha fatto un passo avanti nella strategia della Cei sulla legge sulla interruzione di gravidanza: se dopo la vittoria nel referendum sulla procreazione assistita era diventato chiaro che la richiesta di revisione della 194 non era più un tabù per i vescovi, da oggi il netto sostegno all’iniziativa di Giuliano Ferrara dice che tutto è pronto proseguire su questa strada. Nella Cei sono convinti che ci siano le buone condizioni per giungere sia a una moratoria che a migliorare la legge 194, e sono comunque sicuri che valga la pena combattere questa battaglia almeno a livello culturale. Con il suo stile sobrio e impolitico, l’Arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco osserva dunque che «la proposta di moratoria è lodevole perché rappresenta un chiaro e forte richiamo all’attenzione degli Stati circa la tutela e la promozione della vita umana, come è accaduto per la moratoria sulla pena di morte»[/G. Il cardinale spera «vivamente che la richiesta trovi la giusta accoglienza nelle sedi istituzionali oltre che nell’opinione pubblica» e ritiene che se non si arrivasse alla moratoria, questa iniziativa resti comunque «occasione per mettere un vero impegno a tutti i livelli così da favorire l’applicazione di quelle parti della legge 194 che promuovono la vita del nascituro». La revisione delle norme sulla interruzione di gravidanza per Bagnasco «è auspicabile: è un dato di fatto, sotto gli occhi di tutti, - argomenta - il progresso scientifico e tecnologico in materia di vita umana. I legislatori - osserva - da sempre si confrontano doverosamente con queste scoperte per formulare leggi che sempre meglio rispettino, difendano e promuovano la vita umana, in tutte le sue forme e fasi». Nella sostanza Bagnasco è in armonia con Ruini, anche se quest’uultimo è stato più esplicito quando, nell’intervista al Tg5 del 31 dicembre, ha osservato che «diventa veramente inammissibile procedere all’aborto ad un’età del feto nella quale egli potrebbe vivere anche da solo». Il primo a lanciare l’idea di una moratoria dell’aborto comunque era stato il cardinale Renato Raffaele Martino, il giorno stesso in cui all’Onu è stata approvata la moratoria della pena di morte. E in sintonia con Bagnasco è l’Osservatore romano, che riferendo dell’intervista del presidente della Cei al Corriere, titola «Applicare le norme a favore della maternità e ai diritti del nascituro». Gran parte del mondo cattolico della sinistra, infatti, non condivide quanto affermato dal ministro Livia Turco sul fatto che la legge 194 è «applicatissima» e l’Osservatore Romano segnala che si potrebbe pensare a norme come aiuti economici e un riconoscimento al volontariato che da anni si occupa di prevenzione dell’aborto, come ha proposto Avvenire e ha cominciato a fare la Lombardia, e all’istituzione di un «fondo nazionale per garantire ad ogni donna in gravidanza il diritto di accogliere con dignità il figlio che porta in grembo», come per esempio ha ipotizzato l’associazione Papa Giovanni XXIII. Intanto continuano le reazioni del mondo politico italiano all’ipotesi di rivedere la 194: Lorenzo Cesa, segretario Udc ritiene «opportuno riaprire dibattito sulle modifiche alla 194» e Isabella Bertolini di Forza Italia ritiene «condivisibile» la posizione di Bagnasco.In campo è sceso anche Umberto Veronesi, ex ministro e scienziato di fama, ricordando che «la 194 seppure una legge civile, è da rivedere per combattere i mali dell’aborto che conduce a pratiche svantaggiose per i nascituri, per i più poveri e dei più deboli». Per Carlo Giovanardi dell’Udc il vero problema non è la legge 194, ma «la deriva verso forme di selezione eugenetica o addirittura di infanticidio quando si vogliono sopprimere neonati già interamente formati che i progressi della medicina possono far vivere». Sulla stessa linea Marco Rizzo, coordinatore nazionale del Pdci e il deputato verde Tommaso Pellegrino: la 194 - sostengono -, pur dicendo no allo stato confessionale è una legge che non funziona bene e bisogna aggiornarla tenendo conto delle nuove tecnologie mediche. fonte - Il Giornale - [SM=x43665] [SM=x1457839] [SM=x43605]




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13/01/2008 19:40
 
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Benedetto XVI riaccende i riflettori sull’aborto
di Andrea Tornielli Roma - Benedetto XVI approva la moratoria dell’Onu sulla pena di morte auspicando che «tale iniziativa stimoli il dibattito pubblico sul carattere sacro della vita umana». Poche parole, ma efficaci, che seppur inserite in un contesto più ampio vengono subito lette come una benedizione vaticana dell’iniziativa proposta le scorse settimane da Giuliano Ferrara e s’innestano subito nel dibattito in corso nel nostro Paese. Nel tradizionale discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa sede Papa Ratzinger ha parlato di difesa della vita, di dignità della persona, di salvaguardia della famiglia sotto attacco e di diritti umani, affermando che per avere giustizia e pace «non si può mai escludere Dio dall’orizzonte dell’uomo e della storia». «Giustamente la nostra società ha incastonato la grandezza e la dignità della persona umana in diverse dichiarazioni dei diritti, formulate a partire dalla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, adottata giusto sessant’anni fa», ha ricordato Benedetto XVI, facendo proprie le parole di Paolo VI che definì questo atto «uno dei più grandi titoli di gloria delle Nazioni Unite». La Chiesa, ha spiegato il Papa, «si impegna» perché in tutti i continenti «i diritti dell’uomo siano non solamente proclamati, ma applicati». La Santa sede, per parte sua, «non si stancherà di riaffermare tali principi e tali diritti fondati su ciò che è permanente ed essenziale alla persona umana». A partire da queste considerazioni, Benedetto XVI deplora «gli attacchi continui perpetrati in tutti i continenti contro la vita umana», richiamando che «le nuove frontiere della bioetica non impongono una scelta fra la scienza e la morale, ma che esigono piuttosto un uso morale della scienza». Poi l’accenno alla moratoria sulla pena di morte, in sintonia con l’appello che in questo senso rivolse Giovanni Paolo II nel 2000: «Mi rallegro - ha affermato Ratzinger - che lo scorso 18 dicembre» l’Onu «abbia adottato una risoluzione chiamando gli Stati a istituire una moratoria sull’applicazione della pena di morte ed io faccio voti che tale iniziativa stimoli il dibattito pubblico sul carattere sacro della vita umana». Dunque l’espressione usata dal pontefice è innanzitutto legata alla moratoria sulla pena capitale. Ma, ovviamente, anche la moratoria sull’aborto proposta da Ferrara può rientrare in quel «dibattito pubblico» sulla sacralità della vita. Sacralità che la Chiesa ha sempre difeso. fonte - Il Giornale - [SM=x43799] [SM=x43665] [SM=x1457839] [SM=x43605]




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14/01/2008 11:58
 
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Roma, 14 gen (Velino) - L’università ha paura del Papa? Davanti alla sfida posta da Benedetto XVI, sembra che lo stesso mondo accademico – luogo del confronto per eccellenza - non sia disposto ad ascoltare chi interroga la realtà con categorie diverse rispetto a quelle usate dalla scienza, e non voglia addentrarsi in un confronto sulla concezione di ragione e di conoscenza. Lo dimostra la protesta che si è sollevata all’annuncio che Benedetto XVI avrebbe reso parte - all’inaugurazione dell’anno accademico 2007/2008 della Sapienza di Roma, che si aprirà giovedì prossimo 17 gennaio. Le prime avvisaglie risalgono allo scorso novembre, quando il professore emerito Marcello Cini ha indirizzato al rettore Renato Guarini un appello – poi sottoscritto da altri 61 docenti dell’area scientifica - contro la presenza del Papa, auspicando “che l’incongruo evento possa ancora essere annullato”. Nella lettera si parla di “incredibile violazione della tradizionale autonomia delle università” e di “proposta improvvida e lesiva dell’immagine de La Sapienza nel mondo”. La critica principale è alla concezione di ragione sostenuta da Benedetto XVI. Si tratta – diceva a Ratisbona (testo riportato nella lettera) – “dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione (…). Non agire ‘con il logos’ è contrario alla natura di Dio”. Per i docenti “da questo incontro tra fede e ragione segue una concezione delle scienze come ambiti parziali di una conoscenza razionale più vasta e generale alla quale esse dovrebbero essere subordinate”, soprattutto laddove il Papa osserva che la domanda di senso che la moderna ragione propria delle scienze naturali porta in sé “deve essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del pensare - alla filosofia e alla teologia”. Ma i professori vanno oltre e accusando lo stesso Ratzinger per aver “ripreso” in una conferenza del 15 marzo 1990 “un’affermazione di Feyerabend: ‘All’epoca di Galileo la Chiesa rimase molto più fedele alla ragione dello stesso Galileo. Il processo contro Galileo fu ragionevole e giusto’. Sono parole che, in quanto scienziati fedeli alla ragione e in quanto docenti che dedicano la loro vita all’avanzamento e alla diffusione delle conoscenze, ci offendono e ci umiliano” concludono i professori. Peccato che proprio chi si appella alla fedeltà alla ragione, in nome di questa non abbia ritenuto di dover leggere integralmente il testo da cui essa è tratta. Come ha fatto per esempio Il Giornale, che oggi pubblica tutto il brano incriminato, in cui l’allora cardinale Ratzinger cita in effetti Feyerabend, ma per prenderne le distanze. Il porporato, infatti, concludeva la rassegna di citazioni: “Sarebbe assurdo costruire sulla base di queste affermazioni una frettolosa apologetica. La fede non cresce a partire dal risentimento e dal rifiuto della razionalità, ma dalla sua fondamentale affermazione e dalla sua inscrizione in una ragionevolezza più grande”. Le parole delle persone citate in quel brano “non sono dunque fatte proprie da Ratzinger, che ritiene ‘assurdo’ appropriarsene per sostenere che la Chiesa con Galileo avrebbe avuto ragione e ribadisce che la fede non cresce ‘dal rifiuto della razionalità’”. Di fronte a chi ha fatto del rapporto fede-ragione e della ragionevolezza della fede cristiana uno dei tratti distintivi del suo Pontificato, senza dimenticare i trascorsi accademici di Benedetto XVI, forse un eccesso di scrupolo sarebbe stato più opportuno – senza accontentarsi di Wikipedia, come ironizza Il Giornale – e avrebbe evitato un inutile fraintendimento, la figuraccia della “laica” scienza e tutto lo strascico di polemiche che hanno accompagnato la vicenda, non ultima la “insurrezione” degli studenti dei collettivi, che da oggi iniziano la “settimana anticlericale” e stanno organizzando iniziative di protesta da inscenare giovedì all’arrivo del Papa. Alla fine dunque il Papa-professore, il Papa dell’amicizia tra fede e ragione, il Papa che invita ad allargare la ragione e a vivere una fede ragionevole, varcherà le porte dell’università “La Sapienza” e - alla presenza del sindaco Walter Veltroni e il ministro Fabio Mussi - pronuncerà un discorso nell’Aula Magna alle 11. Ma non la “lectio magistralis”, quella è affidata al professor Mario Caravale, una soluzione dopo la protesta dei docenti. Ma non c’è dubbio che quella domanda sulla fede come metodo di conoscenza risuonerà nell’Aula Magna della Sapienza il prossimo 17 gennaio e che Benedetto XVI ancora una volta saprà condurre i suoi interlocutori per i sentieri a lui cari del Logos. fonte - Il Velino - [SM=x43799] [SM=x43665] [SM=x1457839] [SM=x43605]




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