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Addio al Prof. Antonio Guarino

Ultimo Aggiornamento: 09/10/2014 21:44
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02/10/2014 22:46
 
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Le ultime interviste per i suoi cento anni.
Il Mattino.

I cento anni di Guarino: «Nel “mio” Senato abolimmo le leggi su aborto e manicomi»

di Pietro Gargano

Nello studio di via Aniello Falcone, spalancato sul mare, il professore Antonio Guarino guarda i vuoti nella sua libreria. Ha donato quattromila volumi all’Università, l’ha fatto con slancio ma ogni tanto lo assale la nostalgia. Nato a Cerreto Sannita, ha compiuto un secolo di vita il 16 maggio. Quattro anni, dal 1976 al 1979, li ha spesi da senatore, eletto da indipendente nelle liste del Pci.

Nel giorno dell’addio al vecchio Senato è giusto chiedergli un parere e hai la sorpresa di raccogliere più consenso che rimpianto. «Sono contento che il Senato sia finito, perché il cammino delle leggi in Italia era un po’ troppo lungo. In questo parere sono sostenuto da illustri giuristi, convinti che la Camera possa bastare. Temo però che abbiano ridotto il Senato a un punto tale da non servire più a niente o almeno a ben poco».


Non mi dica che a Palazzo Madama si è sentito inutile.

«E no. Giorgio Amendola mi chiese di candidarmi e di concentrarmi su due obiettivi, le leggi sull’interruzione della gravidanza e sui manicomi. Le facemmo ed era indispensabile, a quel tempo tante ragazzine morivano nelle mani di fattucchiere per aborti improvvisati. Quanto alla legge Basaglia è ingiusto identificarla con l’abolizione dei manicomi: fu abolita la cattiveria in quei luoghi di dolore. Non mi sono mai affezionato alla vita politica, ma c‘è e dev’essere rispettata».


Torniamo al Parlamento, professore.


«Ora o la Camera si comporta con serietà o, per paradosso, sarà meglio abolire pur’essa. Se lei che mi fa visita si toglie i pantaloni, le sembra conciliabile con la civiltà? E’ quanto sta accadendo lì. E mi permetto di dire che pure il governo fa cose poco comprensibili, come il continuo ricorso al decreto legge che è previsto solo nei casi di necessità e urgenza. Invece Tizio e Caio ne approfittano. Non è vero che la democrazia può fare qualunque cosa, in ogni caso deve seguire determinate regole».

All’inizio si dichiarò perplesso su Matteo Renzi, poi gli ha aperto una linea di credito. E oggi?

«Sono tornato alla perplessità».


Come mai lei, che si è sempre detto liberale, ha votato a sinistra.

«Non sempre, quasi sempre, e l’ho fatto perché lo ritenevo più conveniente agli interessi dello Stato».


Che ne pensa dello stato di Napoli?


«Premessa: sono orgoglioso di essere napoletano e mi vanto di venire dallo stesso ceppo di Marco Antistio Labeone, il più grande giurista dell’antichità. A lui era dedicata la mia rivista ‘Labeo’, durata fino al 2004. Detto questo, non posso non pensare al maresciallo Armando Diaz, alla statua meravigliosa sul lungomare. Sta lì a coprirsi la faccia delle cacche dei piccioni, costretto perfino a guardare le partite di tennis giocate su un campo fondato su pali infissi nell’acqua, come in un film di Hitchcock».

Pare di capire che lei non sia iscritto al circolo degli ammiratori del sindaco De Magistris.

«Io vengo dai magistrati e De Magistris è la negazione del magistrato, nel senso che non tenta di farsi un’idea della cose. Beninteso, la città può riprendersi, ma ci vuole l’impegno di cittadini intelligenti e in buona fede, ce ne sono tanti».

Nella vita ha dovuto scegliere. Poteva fare molte cose, perfino il giocatore di tennis, l’uomo del diritto e del rovescio.

«Da ragazzo non giocavo poi male, soprattutto nel periodo in cui seguii mio padre magistrato a Milano. Al circolo Forza e Coraggio mi allenavo per due ore, prima di andare a scuola. La mia carriera finì quando, dopo aver battuto un avversario bravo, tentai di scavalcare con un salto la rete per stringergli la mano e ruzzolai. Ma aspiravo alla promozione in seconda categoria, non di più».

Non mi dica che non ha rimpianti per il giornalismo. Lo ha fatto e bene, a partire dalla radio, senza tuttavia mai trasformarlo in una professione.


«Nel 1936 vinsi un concorso all’Eiar, arrivai primo davanti a Vittorio Veltroni, il padre di Walter. 1.700 lire al mese. Invece scelsi di andare a studiare Berlino, pur facendo corrispondenze. Ad esempio raccontai l’incontro fra Hitler, Mussolini e i primi ministri di Parigi e di Londra».

A fermarla fu la guerra.

«Ero sottotenente. Volevo andare in Libia, finii in Russia ma mi ammalai e fui rimandato a casa. Dei miei compagni nessuno tornò. La guerra non ha senso. E non lo dico pensando solo ai tedeschi, ma pure agli italiani che cominciano la guerra con un alleato e la finiscono con un altro. Confesso di non capire».

Il suo rapporto con la radio riprese.

«Era il 1950, avevo già la cattedra di istituzioni di diritto romano. Mi telefonò Veltroni, doveva aprire la redazione della Campania e della Calabria. Mi propose di avviarla per qualche mese e accettai. Scelsi lo pseudonimo di Antonio Federici e come tale vinsi la prima edizione del Premio Napoli. Con me Luigi Compagnone passò da impiegato a giornalista. Durò due anni».

Ha fatto pure l’avvocato, a quanto si dice guadagnava bene.

«Quei soldi non li ho mai più visti. Nel dopoguerra fui chiamato a occuparmi del caso di Giuseppe Navarra, il contrabbandiere detto ‘re di Poggioreale’, dichiarato fallito per motivi fiscali. Curatore della causa, non riuscii a scoprire dove aveva nascosto il danaro né chi fossero i giocolieri che lo aiutavano».

Torniamo ai giornali. Corriere della Sera, Mattino, Repubblica.

«Al Mattino smisi di collaborare prima ai tempi della direzione di Orazio Mazzoni e poi in quelli di Sergio Zavoli, che pure conoscevo da fanciullo».

Ha raccolto di recente alcuni articoli col titolo “Ultime pagine di diritto romano”. A chiudere versi di una poesia di Salvatore Di Giacomo, “Palomma ‘e notte”. Perché?

«Nel mio carattere c’è l’ostinazione dello studio. So che non ci riesco, è troppo difficile. Però faccio come la palummella di Di Giacomo: giro e rigiro attorno alla luce».






Nolite conformari huic saeculo sed reformamini in novitate sensus vestri.
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