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"l' università itagliana"

Ultimo Aggiornamento: 06/07/2015 16:22
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03/10/2013 13:40
 
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Un articolo di Luca Enriques sul tema che prende spunto da discussione simile in Usa.



In America si discute sulla possibile riduzione di un anno dei corsi di giurisprudenza. Perché per preparare i futuri avvocati sembra più efficace un periodo di tirocinio. E da noi? Cinque anni solo per la laurea e tanto studio mnemonico. Barriere all’entrata e apertura a laureati in altre materie.


MENO STUDIO, PIÙ PRATICA

Un corso di giurisprudenza negli Stati Uniti dura tre anni. Vi si può accedere dopo aver acquisito una laurea, diremmo noi, di primo livello. Conclusi i tre anni, è possibile diventare avvocati, sostenendo un esame a pochi mesi dalla laurea.
Recentemente, complice anche un calo delle iscrizioni, si è cominciato a discutere se tre anni non siano troppi: il campo di coloro che sostengono che il terzo anno dovrebbe diventare facoltativo, consentendo agli studenti di sostituirlo con un tirocinio, si è arricchito poche settimane fa della presa di posizione a suo favore del presidente Obama, già professore di diritto costituzionale all’università di Chicago.
La tesi, che da noi suona estrema, è che due anni di lezioni ed esami su materie giuridiche siano sufficienti e anche più efficaci, se seguiti da un anno di pratica, a preparare un avvocato. I corsi fondamentali si possono impartire in quel biennio, durante il quale vi sarebbe anche il tempo per approfondimenti in materie specialistiche. Troppo poco? È più che legittimo avere opinioni diverse al riguardo, ma non meriterebbe un rifiuto preconcetto, dalle nostre parti, l’idea, del resto da sempre dominante negli Stati Uniti, che per essere un buon avvocato non serva (più) la padronanza mnemonica di fiumi di leggi vigenti e di orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, quanto piuttosto la capacità di usare il ragionamento giuridico e l’insieme di strumentazioni retoriche che vi si associa; la capacità di reperire le fonti (leggi, sentenze, articoli di dottrina, circolari interpretative, eccetera) piuttosto che la loro memorizzazione; la conoscenza dei concetti fondamentali del diritto pubblico e privato, che consentono di muoversi con agio in ciascun settore, nonché la familiarità con le (mai numerose) idee di fondo che sorreggono le singole discipline; e, infine, l’acquisizione di una sorta di indice mentale delle materie che compongono ogni singola disciplina piuttosto che la ritenzione dei relativi contenuti.
Si muoverà meglio nella pratica del diritto amministrativo chi abbia compreso a fondo cosa sono un atto amministrativo, un procedimento amministrativo, un interesse legittimo e l’eccesso di potere, o chi abbia dedicato allo studio di questi concetti fondamentali la stessa, per necessità più superficiale, attenzione che a memorizzare la disciplina degli appalti pubblici, degli enti pubblici territoriali, delle opere pubbliche, e così via?

DURATA DELLA LAUREA, UNA BARRIERA ALL’ENTRATA

In Italia, dove la durata degli studi giuridici è di ben cinque anni (cui vanno aggiunti diciotto mesi di pratica, e anche un anno di attesa per l’esito dell’esame), prevale ancora l’idea che il laureato in giurisprudenza debba conoscere a fondo, nel senso nozionistico del termine, l’ordinamento positivo, oltre che alcune materie più “culturali”, come la filosofia del diritto e il diritto romano. Per questo, in effetti, anche cinque anni possono non bastare. Ma questo sforzo di acquisizione di nozioni è un impiego utile del tempo per le migliaia di studenti che si iscrivono a giurisprudenza ogni anno? E siamo sicuri che il capitale umano che costruiscono in cinque anni di questo tipo di studio sia quello non solo di cui avranno bisogno nella loro carriera professionale, ma soprattutto che meglio potrà servire la domanda di servizi legali e le esigenze della società nel suo complesso?
Il dibattito americano potrebbe far riflettere, pur senza farsi illusioni sull’agibilità politica di una simile soluzione, circa l’opportunità perlomeno di un ritorno ai tradizionali quattro anni di giurisprudenza (era questa la durata del corso di laurea fino al 2000).
Si potrebbe obiettare che cinque anni sono meglio di quattro, se in questo modo si disincentiva la scelta di giurisprudenza e si riduce dunque il bacino dei futuri avvocati. Si potrebbero avere effetti positivi sul tasso di litigiosità “patologica” (ossia di liti pretestuose, spesso di minimo valore, che servono gli interessi più degli avvocati che dei loro clienti e, ingolfando i tribunali, rendono più difficile soddisfare la domanda fisiologica del servizio “giustizia”), se è vero che su questo incide il numero degli avvocati. (1)
Il razionamento dell’offerta dei servizi legali, tuttavia, è uno strumento rozzo per rimediare alle patologie della giustizia civile determinate da una cattiva offerta di servizi legali: non farebbe venir meno i meccanismi che consentono agli avvocati, per quanto in minor numero, di appesantire il servizio giustizia con liti ingiustificate, posto che immutata resterebbe l’asimmetria informativa che consente all’avvocato di dare consigli infedeli al cliente. Inoltre, una minore concorrenza tra gli avvocati porterebbe a prezzi più alti per i loro servizi anche a danno di chi avesse buone ragioni per agire o resistere in giudizio.
Ammesso che più elevate barriere all’entrata siano benefiche in questo campo, invece che una maggiore durata degli studi (che porta a un’autoselezione per censo) non sarebbe più equo (e forse anche più efficace) consentire anche alle università pubbliche di prefissare il numero di nuovi studenti da immatricolare ogni anno parametrandolo alla propria capacità di offerta formativa (e selezionando così i candidati più meritevoli)?
E insieme al ritorno ai quattro anni di studio, si potrebbe prendere ad esempio il modello americano, per immaginare un percorso alternativo per l’acquisizione di competenze giuridiche e l’accesso alle professioni legali: consentire a chi abbia già un’altra laurea triennale, in qualunque materia, di accedere a un corso biennale di diritto, senza debiti formativi e con laurea finale dello stesso valore di quella quinquennale. Dopo il biennio, per accedere alla professione forense servirebbero i diciotto mesi di pratica previsti anche per i laureati quadriennali.
Certo, questo percorso potrebbe rivelarsi proibitivo per il “tardivo” aspirante avvocato se l’esame di accesso alla professione premia il nozionismo e l’enciclopedismo. Come sembra fare la recente riforma dell’ordinamento forense, laddove ha escluso che durante gli esami scritti sia possibile consultare testi normativi commentati.

UN CAMBIO DI MENTALITÀ

Il vantaggio maggiore dell’apertura delle professioni legali a laureati in altre discipline non starebbe tanto nell’eventuale incremento dell’offerta di servizi legali, quanto piuttosto nell’accesso a questo mercato di attori con un capitale umano meno monoliticamente incentrato sul diritto e dunque meno inclini a condividere l’idea del primato del diritto stesso. Oggi, infatti, secondo l’ideologia prevalente all’interno delle facoltà di giurisprudenza e delle professioni legali, il diritto è un fine, non un mezzo per agevolare le interazioni individuali e sociali; è la società a doversi adattare alle esigenze del diritto, non questo alle necessità di quella salve le limitazioni frutto di scelte politiche esplicite (e non della fantasia interpretativa del giurista, avvocato, giudice o funzionario pubblico che sia). Il diritto non è anche il riflesso di fenomeni e influenze sociali e culturali “altri”, bensì un sistema chiuso, nel quale i valori non possono entrare se non travestendoli da argomenti giuridici logicamente cogenti (e dunque con minore accountability nei confronti della società stessa).
L’immissione in questo contesto culturale di persone che per almeno tre anni abbiano dedicato i propri sforzi di studio a tutt’altro, che si tratti di letteratura classica o di scienza dei materiali, di matematica o di storia moderna, potrebbe contribuire nel tempo a introdurre i germi del dubbio nelle granitiche certezze del giurista circa la propria centralità sociale e l’autosufficienza culturale della propria scienza.
In un paese in cui gli operatori economici sono quotidianamente vessati da restrizioni legali, attese di provvedimenti amministrativi e ricorsi giurisdizionali, una simile spinta al cambiamento della cultura giuridica dominante non potrebbe che giovare.




ps Enriques mette dei punti giusti in particolare sulla lunghezza quinquennale della laurea che favorisce oggettivamente i più abbienti dato che sono gli studenti più poveri quelli che, per varie ragioni, trovano più difficoltà a rimanere in corso e completare gli studi. Poi però dando per scontato che non si può risolvere il problema (la struttura del sistema universitario) la butta pure lui sul numero chiuso a dimostrazione che su certi argomenti aver studiato ad Harvard o alla Tuscia non cambia molto.
Totalmente condivisibile la parte finale sul cambio di mentalità.
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