Ecco perché del “Riformista” c’è bisogno
di Stefano Cappellini
Siamo vivi. Siamo giovani. E abbiamo idee, talento e voglia per fare un Riformista all’altezza della sua tradizione. Consentitemi di partire da questa rivendicazione collettiva, nel giorno in cui assumo la direzione del Riformista per il tempo che sarà necessario a traghettarlo verso la definizione di una nuova compagine editoriale. Ho letto troppi necrologi di questo giornale e sentito intonare de profundis, qualcuno da improbabili ugole, per non avere urgenza di ricordarlo.
Voglio subito ringraziare il fondatore e direttore uscente Antonio Polito, senza il quale non saremmo qui a chiederci dove eravamo rimasti, e quanti si sono fatti vivi in questi giorni con noi per testimoniare affetto, partecipazione e condivisione: il nostro primo obiettivo è non deludere nessuno di loro. Non vi tedierò oltre con i nostri guai finanziari, dai quali pure dipende in parte il nostro destino. Possiamo avere difficoltà a campare. Ma non siamo fatti per tirare a campare.
Molto è cambiato da quando il Riformista è andato per la prima volta in edicola - era l’ottobre 2002 - e la gran parte di questi cambiamenti (involuzioni e regressioni, perlopiù) è stata fotografata da Polito nel suo editoriale di congedo. Non c’è nulla di interessante da aggiungere alla sua analisi sul perché Berlusconi sia diventato il principale ostacolo rispetto al tentativo di trascinare il paese fuori dall’attuale immobilismo: colui che si presentava come l’innovatore per eccellenza - non senza credenziali - è oggi il vero grande custode dello status quo. In sedici anni non ha riformato nulla di ciò che prometteva: il fisco, la pubblica amministrazione, le istituzioni, la giustizia. Nulla. A chi vuol spingersi a sostenere che la riforma Brunetta o la riforma Gelmini sono svolte epocali, consiglieremmo di sbilanciarsi sulla questione il primo aprile, anziché il primo gennaio.
A ltro invece si può dire su chi, per mandato, avrebbe da tempo dovuto offrire un’alternativa allo stato di cose esistente. Perché gli sfasci del berlusconismo non possono eclissare quelli dell’opposizione. E, del resto, vanno di pari passo da lungo tempo. Perché, a differenza di Polito, non ho mai creduto alla funzione maieutica del Cavaliere sulla sinistra. Anzi, credo esattamente al contrario. Berlusconi non è un virus che poteva trasformarsi in vaccino. È un virus che ha scatenato un’epidemia. Gli è riuscito di plasmarsi giorno dopo giorno un avversario sempre più contagiato dai propri vizi, come testimoniano - solo per stare agli ultimi tempi - le fiammate di plebiscitarismo veltroniano, di cesarismo vendoliano, di populismo dipietrista. Non suoni come un’attenuante, o come un modo di scaricare sul presidente del Consiglio persino le colpe dei suoi avversari: è casomai il segno di una doppia sconfitta e di una doppia responsabilità di chi in questi anni avrebbe dovuto e potuto fronteggiarlo. Il ventennio berlusconiano ha sempre favorito il ristagno, quando non la proliferazione, dei peggiori tic della sinistra e ne ha accelerato una penosa mutazione antropologica, che il Riformista non ha mai smesso di contrastare e continuerà a contrastare in futuro.
La questione giudiziaria - continuamente foraggiata dall’agenda del Cavaliere - è il terreno sul quale questa mutazione ha raggiunto il punto di non ritorno. Oggi un tribuno destrorso come Antonio Di Pietro appare a una parte rilevante dell’elettorato d’opposizione una soluzione di voto attraente.
L’acclamato Luigi De Magistris può sostenere senza nemmeno pagare il pegno del ridicolo che i suoi idoli di gioventù erano Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante. Marco Travaglio è di gran lunga l’opinionista più credibile agli occhi delle nuove generazioni anti-governative (e può impancarsi quotidianamente a maestro di giornalismo, salvo intervistare da posizione supina l’amico Di Pietro in difficoltà dopo l’ennesima transumanza dall’Italia dei valori al centrodestra). Gioacchino Genchi - un esperto di dossieraggio estremo che non avrebbe sfigurato sulla copertina di un vecchio numero dell’Espresso scalfariano - può diventare una star della pubblicistica progressista. Decine di migliaia di ragazzi e ragazze credono che garantismo sia sinonimo di innocentismo o, peggio, di insabbiamento. Se tutto questo è realtà - e lo è purtroppo - evidentemente il danno ormai è fatto. Perché quando un terzo dell’elettorato di centrosinistra approda a questi lidi, è difficile raccontarsi di poter costruire su queste premesse una coalizione di governo degna di questo nome.
Di Pietro e i suoi sodali si sentono accusare spesso di essere «la polizza vita» di Berlusconi. Ma è vero pure il reciproco. Berlusconi è la polizza dei Di Pietro. La loro è una politica a tariffa you and me: Silvio e Tonino, Grillo e Gasparri, Ghedini e Barbato, e via accoppiando. Negli anni questa compagnia ha progressivamente imposto la lotta con la clava a tutto il resto della compagnia. E, naturalmente, la colpa è in primo luogo di chi, nella politica come nel giornalismo, se l’è fatta imporre, senza mai trovare la formula giusta per non farsi stritolare da questa tenaglia e cercando quasi sempre di sfuggire con espedienti di giornata.
In questo senso la vicenda Mirafiori è esemplare. Il dramma di un partito con le dimensioni e le ambizioni del Partito democratico non è la presenza di posizioni diverse al proprio interno. Questo è fisiologico. Il dramma è scegliere di non scegliere. E sparire. Stretto tra il giubilo di un governo accondiscendente con la Fiat e gli strepiti anti-Marchionne, il Partito democratico ha creduto di poter mascherare le proprie divisioni interne posizionandosi su una arzigogolata mediana (bene l’investimento, male la parte sui diritti), dove gli aggettivi «accettabile» e «inaccettabile» ricorrono con pari frequenza e spesso sulle medesime bocche. Risultato: metà dell’opinione pubblica non ha capito bene quale sia la linea del Pd, l’altra metà ha capito che una linea non c’è. A contendersi la scena sono restano così solo i professionisti della più rozza propaganda: ministri che parlano della Fiom come delle Brigate rosse, Vendola che a Marchionne dà di schiavista, Di Pietro che gli dà di fascista. Se il Partito democratico ritiene che l’accordo lede «i diritti della democrazia» - come hanno sostenuto, non a torto, numerosi e autorevoli suoi esponenti - avrebbe dovuto dire no, senza per questo mischiarsi alle brutali campagne dei “clavisti”. Questa è la terra di mezzo possibile, non il «ma anche», il balbettio, lo zig zag. Perché quando si deplora la lotta con la clava, non è per suggerire compromessi al ribasso e indecisionismo.
La politica è e sarà sempre conflitto. Ma, per aspro che sia, conflitto d’idee. Questo giornale non ha mai avuto paura delle idee. Di ospitarle, esplorarle, contaminarle, smontarle e ricostruirle. Vogliamo rimanere sempre una tribuna aperta, mai schiacciati né su una fazione né su un partito, tantomeno sui luoghi comuni. Per questo non ci fanno paura neanche le notizie - che sempre più, a destra e a manca, si addomesticano a seconda dei propri interessi di consorteria - avendo peraltro una squadra di giornalisti che sa come trovarle e come usarle. Continuate a seguirci. Del Riformista ci sarà bisogno.