Un leader per la sinistra: adottiamo Tony Blair

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trixam
00venerdì 10 settembre 2010 17:08
“Io congedato dalla politica? Che sia per un ruolo internazionale o per un ruolo qui nel mio Paese, ho sempre detto, e lo ripeto, che se me lo chiedono sono pronto a tornare in pubblico servizio”. In Grosvenor Square, quartiere di Mayfair, al primo piano della elegante palazzina dove ha stabilito il suo quartiere generale, davanti alle foto che lo ritraggono con Mandela e con Obama, ma anche con Arnold Schwarzenegger, un Tony Blair sorridente e combattivo si toglie la cravatta e si accomoda sul divano. Sono giorni intensi: i pacifisti gli danno la caccia e lo costringono ad annullare due presentazioni delle poderose memorie (“Un viaggio”, edito in Italia da Rizzoli). Ma le classifiche lo premiano col primo posto nel Regno Unito (centomila copie in quattro giorni) e col terzo negli Stati Uniti dove oggi volerà per conversarne in pubblico con l’amico Bill Clinton. All’ora di pranzo, Tony Blair accoglie il Corriere della Sera nei suoi uffici.

Lei ha fondato il New Labour, è stato un leader innovativo e ha lasciato un segno nella storia britannica. Però oggi in molti sembrano averle voltato le spalle: come se lo spiega?

“In politica quando decidi tu dividi. Così, in tempi difficili con problemi tanto grandi da affrontare e sui quali vi è il dovere di prendere, alla fine, una posizione chiara, è naturale che un leader diventi oggetto di polemiche e di discussioni. Se guardiamo la storia di questi ultimi anni posso dire e sottolineare che ho vinto per tre volte di seguito le elezioni, dunque che ho goduto di un consenso forte fra la gente. Non credo, sinceramente, che le cose siano cambiate. Il mio rapporto è con i cittadini che guardano con favore a una corretta politica di progresso, di mediazione col centro e di modernizzazione. Non con le frange della sinistra estrema o della destra che mi contestano. E neppure con i mass media che vanno dietro a queste piccole proteste. No, il Regno Unito non mi ha voltato le spalle”.

La pace nell’Irlanda del Nord, la devolution scozzese e gallese, la riforma del welfare, l’indipendenza della Banca d’Inghilterra, gli investimenti a favore della scuola: il suo è un racconto di successi politici. Ma resta un punto chiave: la guerra in Irak. Fu la scelta giusta per un premier laburista?

“Forse è troppo presto per dare un giudizio definitivo sulla guerra in Irak in quanto la situazione non è si ancora stabilizzata. Alcune considerazioni, però, si possono fare. Ad esempio, se non ci fossimo sbarazzati in due mesi di Saddam Hussein quali sarebbero state le conseguenze della non azione? Non mi pare che gli iracheni oggi rimpiangono Saddam. Adesso possono votare sugli assetti politici che ritengono migliori per il loro futuro. Non credo che avere dato questa opportunità di democrazia a un popolo sia negativo. E se così non fosse stato, probabilmente, non saremmo qui a conversare ma ci troveremmo in una situazione di conflitto tragico perché Saddam, se non aveva le armi di distruzioni di massa, aveva comunque la volontà e la potenzialità di produrle e di usarle”.

E allora nessun rimorso?

“Un conto sono le valutazioni generali sulle ragioni che ci hanno portato ad avviare l’azione. E un conto sono le valutazioni sugli errori commessi dopo la caduta di Saddam. E’ su questo che occorre ragionare. Bisogna identificare ciò che è andato per il verso sbagliato. E di sicuro, nell’ambito delle negatività, non vi è il rimpianto degli iracheni per Saddam. Vi è semmai la necessità di cercare e smascherare le forze della destabilizzazione interna, i gruppi legati da un lato ad Al Qaeda e dall’altro le milizie appoggiate dal regime iraniano”.

Signor Blair, nel libro di memorie lei cita il caso di un premier Chamberlain, considerato fra i peggiori della storia inglese: sottovalutò i progetti di guerra di Hitler. Ha avuto il timore, ai tempi della decisione sull’Irak, di essere paragonato a Chamberlain?

“Francamente ho temuto di compiere un errore di giudizio. La questione che identificai come decisiva fu quella relativa al possibile utilizzo delle armi di distruzione di massa. Il disegno dei terroristi è quello di causare distruzioni di massa per cui è necessario isolare e rendere inoffensivi quei regimi che accelerano la corsa agli armamenti più pericolosi. Gheddafi cambiò strada. Saddam no. Da qui la mia determinazione: i regimi che usano queste armi devono cambiare. Saddam le usò contro i curdi dunque era giusto cacciarlo. La questione di fondo, molto difficile, fu, e rimane ancora, una sola ed è quella di valutare i rischi dell’azione e della non azione. Capisco benissimo il punto di vista contrario. E’ molto semplice: operiamo con le sanzioni e con l’isolamento internazionale, impediamo la fuga di tecnologie avanzate. E’ corretto. Ma poi arriva il momento, se il pericolo cresce e arriva al punto di non ritorno, che devi decidere. Non si tratta di dividersi in buoni e cattivi. Si tratta, lo ripeto, di fare una scelta terribile”.

Vi è il pericolo di una guerra con l’Iran?

“La questione deve essere risolta pacificamente e diplomaticamente. Detto ciò, personalmente ritengo che Teheran stia compiendo un calcolo sbagliato nel ritenere che l’amministrazione americana se ne stia con le mani in mano mentre il regime accresce le sue potenzialità distruttive. Un Iran massicciamente nuclearizzato è un fattore di destabilizzazione nell’intera regione”.

Dopo tredici anni di governo i laburisti sono usciti sconfitti dalle elezioni: quali le ragioni?

“Non avevamo un programma da New Labour ma da Old Labour, da vecchio Labour. Il centro sinistra può vincere se smette di difendere lo status quo e tiene saldo il filo con il futuro, se impara a cogliere le tendenze di un mondo che cambia velocemente, di un mondo che vuole anche legalità e ordine. Coltivare il proprio recinto ideologico senza aprirsi significa perdere”.

Non crede che il centro sinistra britannico sia politicamente responsabile per non avere controllato le scorribande della finanza creativa?

“L’economia moderna ha una enorme componente di innovazione finanziaria. Occorre inseguirla, capirla, regolarla e supervisionarla. Ma l’innovazione, in sé, non è una brutta cosa è un’ottima cosa. Se mi si chiede se vi è stata indulgenza con gli eccessi dico di sì. Se mi si chiede se è necessario regolamentare dico di sì. Ma se mi si chiede di imbrigliare i mercati o la City dico di no. La City deve rimanere il cuore finanziario del mondo”.

I laburisti sono alla ricerca di un nuovo leader: lei appoggia David Miliband?

“E’ un amico ma non farò dichiarazioni a suo favore”.

Per quale motivo il centrosinistra arretra in Europa?

“Perché di fronte alle incertezze del presente difende l’immobilismo. Il dovere della sinistra è quello di sostenere i mutamenti, non rifiutarli e resistere”.

Che cosa pensa dello slogan conservatore, quello della “Big Society”, uno Stato più leggero e una società più protagonista?

“Ci sono elementi di questo concetto che appartengono a noi laburisti, come ad esempio la volontà di rendere le comunità locali più attive nei processi decisionali. La mia idea è che se alla gente tu presenti la scelta fra uno Stato burocratico invasivo e uno Stato agile minimo, la gente opta per lo Stato minimo. Ma c’è una terza via: quella di uno Stato attento alla giustizia sociale, regolatore e riformatore. Ed è quella per cui mi batto”.

David Cameron è il Tony Blair dei conservatori?

L’ex leader laburista ride, si alza dal divano e mormora: “Lasciamolo governare poi vedremo”.

giusperito
00venerdì 10 settembre 2010 23:14
simona bonfante
Il corso politico di Margaret Thatcher ha segnato il paese in maniera più profonda ed irreversibile di quanto il partito conservatore di allora fu in grado di comprendere. L’impietoso opportunismo con cui venne liquidata la Lady di Ferro e dissipata la sua eredità si rivolse contro lo stesso establishment tory auto-inflittosi per i tre lustri successivi l’espiazione della marginalità.

Fu Tony Blair a fiutare l’affare: il capitale riformatore accumulato dal paese durante l’era thatcheriana era pronto ad essere impiegato in un temerario, radicale investimento politico che avrebbe coinvolto la Gran Bretagna in una nuova fase di modernizzazione. Così fu. Fu un cambiamento sostanziale nella cultura politica della sinistra britannica – con l’implacabile archiviazione della retorica socialista – nel rapporto tra la politica e il mondo produttivo, tra la politica e l’opinione pubblica.

Concluso il ciclo blairiano, l’eredità dell’ex premier, ripudiata dal partito laburista, viene riscattata da David Cameron, il quale, come Blair prima di lui, comprende l’elemento essenziale della fortuna politica del suo predecessore: l’irreversibilità ed incisività delle trasformazioni determinate nel vissuto del paese dal ‘racconto’ del neolaburismo al potere.

Nelle sue dibattutissime memorie – A Journey – che dal primo settembre monopolizzano gli affari dei bookshop d’Oltremanica, Blair riserva al neo premier conservatore un tributo rivelatore:
“If governments don’t tackle deficits – scrive il 57enne ex premier neolaburista – the bill is footed by taxpayers, who fear big deficits now mean big taxes in the future, the prospect of which reduces confidence, investment and purchasing power. This then increases the risk of a prolonged slump”.

Blair, in sostanza, sposa la politica economica del governo lib-con, fa sue le ragioni liberali a sostegno del taglio alla spesa pubblica, confuta le tesi keynesiane dominanti nel suo partito, le stesse che, convintamente sostenute dal suo Cancelliere, Gordon Brown, hanno impedito di concludere il ciclo riformatore avviato, sin dal primo mandato, con la progressiva apertura al privato nei servizi pubblici. È su questo nodo di cultura politica che – sostiene l’ex leader laburista nel suo mediatizzatissimo best seller – si è consumato lo scontro con l’eterno antagonista.

Ed è questo il cleavage lungo il quale Cameron ha ancorato la piattaforma della coalizione al governo. Le foundation school e le fondazioni ospedaliere progettate dallo staff liberal-tory non sono infatti altro che la maturazione dell’ispirazione blairiana, lo sviluppo politicamente conseguente del processo avviato, parzialmente realizzato nei due primi mandati, ma definitivamente affossato nell’ultimo governo Labour. È Brown, con il suo ritorno allo ‘stato pesante’, ad avere in effetti fornito ai liberali dei due partiti rivali l’assist cruciale al recupero del blairismo ed alla conseguente riscrittura della piattaforma liberal-conservatrice, come già avevano fatto i tory anti-thatcheriani rispetto alla terza via neolaburista.

Come la Thatcher riconobbe in Blair il suo ‘erede’, così oggi Blair riconosce nel leader del partito conservatore il continuatore dell’esperienza riformatrice che, pur con molte ombre, ha consegnato alla Gran Bretagna un decennio di effervescenza culturale e prosperità economica. Una continuità nella diversità, quella tra i riformismi blariano e cameroniano. Diverso infatti è il contesto economico, diverse le prospettive di sviluppo, diverse le priorità determinate dall’agenda geo-economica internazionale.

I laburisti post-blairiani, con l’eccezione (timida) di David Miliband, stanno commettendo oggi lo stesso errore compiuto allora dai conservatori post thatcheriani: leggere nella sconfitta elettorale il rifiuto dell’esperienza riformatrice.

È vero il contrario. Quando Blair lasciò Downing Street non fu per l’Iraq: fu per l’ormai incolmabile cesura tra lui e il Cancelliere (e la maggioranza del suo partito) sull’identità New Labour, ovvero la direttrice liberale che Blair avrebbe voluto condurre all’estrema conseguenza: liberare il welfare dalla presenza pubblica e le amministrazioni territoriali dalla dipendenza dallo stato centrale.

È su questa direttrice che David Cameron, appresi gli errori di Blair – non ultima la deriva sulle libertà civili – ha restituito ai Tory la bandiera della modernizzazione ed ai liberali della coalizione le chiavi di Downing Street. È così che rinasce la ‘nuova destra’ europea. Ed è su questo orizzonte che la ‘nuova destra’ italiana dovrà fondare le proprie coordinate, se vorrà davvero offrire un contributo alla civilizzazione della politica nazionale.
trixam
00venerdì 10 settembre 2010 23:36
Questo articolo è condivisibile, ma non tutto.
Pensare che Blair sia stato un liberista di sinistra, o che di conseguenza cameron sia uno di destra che fa anche cose di sinistra, è frutto di un eccessivo schiaccimento sulla scena italiana.
la ricchezza della democrazia inglese è che riesce a produrre un riformismo di destra ed uno di sinistra. Riformismi che non sono uno una semplice evoluzione dell'altro, ma uno stimolato dall'altro.
Blair non può essere considerato un uomo di destra, anzi! é stato un uomo profondamente di sinistra.
Quando dice che la sinistra perde perché difende lo status quo, dice la cosa più di sinistra che si sia mai sentita.
Certo Blair non sarebbe mai potuto esistere senza la Tatcher, né cameron senza blair.
Ma è proprio questo il bello.

giusperito
00sabato 11 settembre 2010 00:56
Si effettivamente c'è una leggere forzatura.. ma ciò che più fa riflettere(motivo per cui l'ho inserito) è il valore che in Inghilterra viene dato al riformismo.. in fin dei conti Cameron è un riformista..in pratica c'è una sensibilità politica che in Italia manca.. noi difendiamo il diritto alla pausa pranzo.. in italia appena si cambia una virgola succede il finimondo. Ora mettere in filotto i 3 può anche essere una forzatura, ma diciamo che il minimo comune denominatore è l'attitudine al cambiamento, al testare le politiche.. mi manca una competenza storica e politica profonda dell'inghilterra, ma il tratto di unione mi sembra rilevante.. forse sarà la stanchezza per un Paese che ha difficoltà a paragonarsi con la Spagna e che deve guardarsi dall'avanzata di paesi coem al Turchia
trixam
00sabato 11 settembre 2010 01:09
Il segreto dell'inghilterra è che ha un sistema di selezione di classse dirigente efficace.
C'è poco da fare, in questo a livello europeo sono imbattibili. Hanno una grande tradizione, quattro secoli di una scuola dura. Nemmeno gli americani possono mettersi a confronto.
Gli inglesi hanno avuto l'impero, i giovani inglesi si arruolavano, andavano a servire in india e austrialia, nell'esercito, nella marina, nella compagnia delle indie, nelle amministrazioni.
Oggi questo si ha ovviamente in misura minore, ma il tratto è quello.
La storia inglese è piena di primi ministri eccezionali, walpole, i pitt, palmerstone, gladstone, peel, fino a churchill.
Tra gli anni 50 e 70 hanno avuto una crisi micidiale, ma poi se ne sono usciti.
L'elezione della tatcher fu una svolta epocale, ridiede al paese l'orgoglio che aveva perso.
Blair ha continuato su quella strada, ma con ambizioni ancora maggiori.
Personalmente ritengo che in futuro andranno ancora meglio, grazie alle riforme dell'istruzione fatte da blair.
Il riformismo è il riflesso di questa impostazione. Esso funziona solo in democrazie avanzate. Noi siamo ancora al tardo catto comunismo.
JuanManuelFangio
00sabato 11 settembre 2010 01:22
A me sono alcune prospettive future a spaventare. La Thatcher ha lasciato fallire l'industria automobilistica britannica perchè, a differenza dell'Italia con la Fiat, ha capito che un settore inefficiente non poteva essere a spese dello stato. Però, alla fine, della potenza industriale Inglese cosa è rimasto? Ora l'Inghilterra è un'immensa impresa di terziario, ma alla lunga reggerà?
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