Alla quinta ora di spettacolo, Anna Karenina, alias l’attrice Mascia Musy, cammina a passi lenti verso il treno fatale, verso il gigantesco uomo-locomotiva che, spalancando l’impermeabile, svela, cuciti all’interno, i due fanali contro i quali l’infelice eroina va a schiacciarsi come una falena mortalmente attratta dal lume, e lì si annulla, lì si contorce nell’ultimo spasimo che, per un istante, sembra proiettarla verso l’alto, in un’illusoria ricerca di cielo.
È un momento fra i più intensi e più felicemente significativi dell’Anna Karenina che il lituano Eimuntas Nekrosius ha realizzato in Italia, prodotta dall’Ert Emilia-Romagna e dal Biondo di Palermo. Uno spettacolo dal respiro lungo nel quale il gran romanzo di Tolstoj viene frammentato da Tauras Cizas in 29 quadri e collocato dallo scenografo Marius Nekrosius su uno sfondo di alte rocce scure decorate da una schiera di nidi e perforate da due pertugi che sembrano l’imboccatura di due caverne. Dinanzi a questa parete aspra e sul palcoscenico nudo, Nekrosius sviluppa il suo spettacolo che, come altre volte, si tende sulla corda doppia della tragedia e della farsa, del realismo e del grottesco, della memoria personale e del rito collettivo. È un procedere che mette in ombra la parola e privilegia il gesto, cerca la pantomima e la gag, tanto da citare le farse del muto e lambire la soglia dalla danza. Ed è significativa l’impressione di certe entrate, quando credi che i personaggi stiano per abbordare la scena con un «grand jété», tale è l’allure.
È in questo clima di fisicità che l’amore di Anna e del conte Vronskij attraversa tutte le fasi dell’esaltazione e della dannazione, si alimenta di erotismo, s’incupisce di gelosia, affronta i gradi della separazione e del riavvicinamento, mentre, intorno, si srotolano altre vite, nascono altri amori, s’intrecciano nuovi destini. Ed è denso di simboli il modo in cui Nekrosius evoca quel mondo. Il regista fa rotolare in scena i grandi orologi bianchi che alludono al passare del tempo, ma anche alle stazioni ferroviarie e ai treni; usa gli occhiali in senso metaforico; fa entrare a più riprese un maratoneta, che è una condensazione poetica del Destino. E poi sbozza il ritratto di Anna: un pacco che si può prendere, mettere sotto il braccio e portare dove si vuole. Salvo poi accorgersi che il pacco ha un’anima.
Potremmo dire che in questo spettacolo le intenzioni promettano più di quanto poi non mantengano. Non sapremmo dire esattamente che cosa non funzioni, ma di sicuro c’è qualcosa, nel ritmo che forse cerca ancora la propria tensione, nella costruzione certamente notevole, qualcosa che non sa avvincere. Lo spettatore ammira la grandiosità del disegno, ma non ne viene rapito. Eppure Nekrosius prova ripetutamente a sedurre col suo vigore immaginativo così intriso di vecchia Russia, così saturo di pittura e di musica. E ci provano anche i suoi attori, a cominciare da Mascia Musy, ammirevole per l’energia fisica e per le ombreggiature emotive, continuando con il
Vronskij di Paolo Mazzarelli e con il Karenin di Paolo Musio. Segnaliamo ancora Corinne Castelli, Paolo Pierobon, Renata Palminiello e Alfonso Postiglione nella parte del Destino. A loro e a tutti gli altri i fervidi applausi del pubblico del Biondo rimasto stoicamente in sala fino alla fine.