Nord Africa

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giusperito
00martedì 1 febbraio 2011 11:20
Boldrin
I fatti son ben noti, nemmeno provo a riassumerli anche perché sono in continua evoluzione.

Alcune riflessioni mi vengono, però, spontanee. Le metto qui nella speranza che persone più informate di me possano contribuire fatti ed analisi che le approfondiscano, modifichino, migliorino o contraddicano.

1) La stampa occidentale, specialmente quella di orientamento diciamo così "liberal-conservatore", vede in queste rivolte la nascita della democrazia islamica. Leggiamo di "rivoluzione dei gelsomini" e si sprecano gli articoli che predicono partiti, elezioni, parlamenti e democrazie "occidentali" in Tunisia, Egitto e così via. Mi permetto di dubitare o, per lo meno, di invitare alla calma. Io, al momento, vedo delle rivolte parzialmente coordinate ma fondamentalmente spontanee. Sono rivolte di popolo povero e disperato contro regimi corrotti, violenti, oppressivi e financo affamatori (Algeria). Le rivolte sembrano partire spontaneamente e la loro comune radice sembra essere l'incontenibile rabbia di massa contro il regime. Non è ovvio che questo tipo di rivolte debbano finire con l'instaurazione di regimi democratici.

2) In ogni paese è il comportamento dell'esercito e delle forze di polizia che decide il risultato finale. Ali Baba è stato deposto perché il suo esercito l'ha mandato a casa. Il regime algerino no, perché controlla l'esercito molto più saldamente, anzi è l'esercito. Con Mubarak non si capisce bene come sia la situazione ed il fatto che il capo di stato maggiore egiziano si trovasse, sembra proprio per caso, a Washington, finirà per essere il fattore decisivo. Ora torna a casa e vediamo cosa succede ... La questione da porsi, quindi, è: chi controlla, ideologicamente, l'esercito e, in particolare, le elites militari? Non è che siamo sempre in Portogallo in aprile ...

3) Lo stile delle rivolte, i (tentati) suicidi (auto-immolazioni), i simboli che appaiono nei filmati, il ruolo di Al Jazeera, gli appelli dei leaders religiosi (come quello dell'Ayatollah Ahmad Khatami oggi durante la preghiera del Venerdì a Teheran) ... il fatto che in Egitto sono i fratellini musulmani che sembrano coordinare il tutto ... soprattutto, il fatto che queste sono rivolte di popolo povero, incazzato, ignorante, affamato, oppresso e che quel popolo lì, di solito, va nelle parrocchie della Vandea se vive in Francia e va nelle moschee se vive in Nord Africa, ecco tutto questo mi fa pensare (temere? Non so ...) che alla fine avremmo qualche regime fondamentalista in più e qualche dittatore comprato dal mondo occidentale in meno.

4) Il che conduce all'ultima riflessione, la più rilevante. Quelli che stanno crollando, o che corrono il rischio di crollare, sono per il momento regimi "pro USA" o, addirittura, "pro Europa", come quello tunisino. Vedremo se le deboli proteste segnalate in Siria condurranno a qualcosa, ma ho come l'impressione che non succederà. Tutto tace in Libia mentre le strade si riempiono di gente in Yemen del Sud ... Ed allora mi viene da ripetere la domanda che da decenni pongo ai famosi "cinico-realisti" che gestiscono sia la politica estera USA sia quella europea. Costoro hanno sempre teorizzato la necessità ed utilità di tenere in piedi questi sons of bitches perché sono our sons of bitches e non se la prendono con Israele, almeno non attivamente.

Molto bene: se per caso fra sei mesi al Cairo è al potere un governo controllato dai fratellini di Muhammad, continuerete a pensare che sia una buona idea tenere in piedi questi bastardi solo perché sono i nostri bastardi?

Così facendo avete regalato Cuba a Castro, il Venezuela a Chavez, l'America Centrale alle bande di narcotrafficanti, la Bolivia a Evo, l'Iran agli ayatollah, il Pakistan vedremo presto a chi, l'Iraq alla guerra civile continua ... e, speriamo di no, il Nord Africa a degli altri ayatollah.

Non sarebbe ora di scendere dallo scranno, fare mea culpa e ritirarsi in convento a meditare per qualche decennio?

VincenzoP@
00martedì 1 febbraio 2011 13:32
Giusperito, leggo le tue analisi sempre con molta attenzione ed ho profanda stima per la tua intelligenza... detto questo la tua analisi in questo caso mi sembra troppo fantapolitica:
non vedo infatti in questo caso la manina degli USA dietro vicende egiziane.
La posizione ufficiale degli Stati uniti in merito è quella di una "ordinata transizione di poteri" che veda come capo il Nobel per la Pace acclamato dalla folla EL BARADEI;
ciò mi sembra ragionevole ed auspicabile anche dal nostro punto di vista, e non lo assimilo al colpo di stato di un militare sovvenzionato dalla CIA che poi vada a fare il dittatore fantoccio!
Paperino!
00martedì 1 febbraio 2011 14:34
Re:
VincenzoP@, 01/02/2011 13.32:

Giusperito, leggo le tue analisi sempre con molta attenzione ed ho profanda stima per la tua intelligenza... detto questo la tua analisi in questo caso mi sembra troppo fantapolitica:
non vedo infatti in questo caso la manina degli USA dietro vicende egiziane.
La posizione ufficiale degli Stati uniti in merito è quella di una "ordinata transizione di poteri" che veda come capo il Nobel per la Pace acclamato dalla folla EL BARADEI;
ciò mi sembra ragionevole ed auspicabile anche dal nostro punto di vista, e non lo assimilo al colpo di stato di un militare sovvenzionato dalla CIA che poi vada a fare il dittatore fantoccio!



Non credo che tu l'abbia letto con molta attenzione.
Gius non sta dicendo che gli Usa stanno fomentando la rivolta per mettere un loro uomo a capo dell'Egitto, ma l'esatto opposto: che la rivolta potrebbe finire col mettere a capo dell'Egitto uomini CONTRO gli USA e contro l'europa.
E questo perché alla guida di questi Paesi ci sono tiranni oppressori, pezzi di m. e gran farabutti, che hanno l'unico pregio di esser ben visti dall'Occidente.

Il risultato: rivolte, disordini, caos....e dubbi su chi ci ritroveremo al confine tra poco...


--letizia22--
00martedì 1 febbraio 2011 14:40
gli usa sono divisi perche' da un lato sostengono la rivolta egiziana,dall'altro lato sanno che la situazione egiziana preoccupa non poco israele.
angel in the sky
00martedì 1 febbraio 2011 15:26
Considerando che:

- El Baradei è sostenuto dagli islamici
- le rivolte avvengono in paesi dove c'è una finta democrazia, con un autocrate a capo (Egitto, Tunisia,ecc)
- ricordiamo che successe in Iran quando gli Usa abbandonarono lo Scià

penso che sarebbe meglio l'ennesimo autocrate che gli islamici al potere.

Infatti gli islamici sapete come risolvono la disoccupazione e la fame? Con la guerra.

E in prima fila come nemici ci sono Israele e l'Europa.

Quindi, Obama svegliati!! [SM=x43673] Ricorda l'errore che commise Carter abbandonando lo Scià! [SM=x43806]

@Giusperito : i casi di Castro, Chavez, ecc sono differenti da Egitto, Tunisia, Libano



VincenzoP@
00martedì 1 febbraio 2011 16:02
Faccio ammenda se ho letto male... ma vi giro una domanda: voi realmente preferite Mubarak ad ELBARADEI? E preferite lo intendo non nell'ottica occidentale del termine, ovvero se ci è più gradito per il nostro tornaconto personale e commerciale, io intendo se voi foste egiziani, chi vorreste al potere?
angel in the sky
00martedì 1 febbraio 2011 16:12
Re:
VincenzoP@, 01/02/2011 16.02:

Faccio ammenda se ho letto male... ma vi giro una domanda: voi realmente preferite Mubarak ad ELBARADEI? E preferite lo intendo non nell'ottica occidentale del termine, ovvero se ci è più gradito per il nostro tornaconto personale e commerciale, io intendo se voi foste egiziani, chi vorreste al potere?




entrambi mi farebbero trovare senza lavoro e in povertà.

Forse in una fase economica di crescita - dico forse- troverei lavoro con Mubarak.

El Baradei e gli islamici mi porterebbero, dopo la fame, ad una guerra.

Preferisco Mubarak o uno come lui


Paperino!
00martedì 1 febbraio 2011 16:56
Personalmente penso che gli egiziani dovrebbero condurre questa rivolta senza farsi guidare dal fondamentalista di turno, ed anzi mettendo da parte persino l'islamismo per relegarlo a fattore privato, e non motore di risoluzione di problemi nazionali e internazionali. In sintesi, abbattere Mubarak senza consegnarsi a El Baradei, ma eleggere un leader che metta al primo posto l'economia del paese e le classi deboli.
Ma mi rendo conto che sto parlando per utopie.

VincenzoP@
00martedì 1 febbraio 2011 17:28
Premetto di non conoscere a fondo (mi sono limitato ad una biografia di wikipedia) la figura politica di Elbaradei, ma non mi sembra un Hamahdinejad. Del resto ha vinto anche il nobel per la pace ed ha un curriculum di rispetto in seno all'ONU, non vi pare di esagerare facendone un fondamentalista?
Paperino!
00martedì 1 febbraio 2011 17:48
Re:
VincenzoP@, 01/02/2011 17.28:

Premetto di non conoscere a fondo (mi sono limitato ad una biografia di wikipedia) la figura politica di Elbaradei, ma non mi sembra un Hamahdinejad. Del resto ha vinto anche il nobel per la pace ed ha un curriculum di rispetto in seno all'ONU, non vi pare di esagerare facendone un fondamentalista?




Mi son basato sui commenti letti qui, non sono informato sulla figura di El Baradei. Mi auguro sia meglio di quanto si dica..
Il Nobel alla pace purtroppo dimostra molto poco, l'hanno dato a un leader che girava col fucile come Arafat, l'hanno dato ad un Obama appena insediato e prima che si ricoprisse di chissà quale merito...
E' un premiuccio che ogni tanto rifilano a qualcuno, se lo davano a me o a te ci facevano più bella figura...
trixam
00martedì 1 febbraio 2011 21:02
Purtoppo i giornali in Italia buttano sempre la politica estera in chiave manichea e piegandola alle esigenze di parte.
Così la sinistra vede la rivoluzione democratica fatta grazie a facebook ecc e critica il governo che non la sostiene, la destra teme che la rivolta sia guidata dagli islamisti e rimprovera il governo di non sostenere una posizione pro-mubarak.
Nel mezzo non si capisce bene da che parte sta Obama e si naviga a vista. Un quadro desolante.
Mai che un giornalista italiano che deve scrivere un pezzo su un paese che spesso, lo so per averlo visto di persona, non saprebbe trovare sulla cartina si documenti, magari sfogliando una storia di quel paese.
La storia politica recente dell'egitto è interessante.
Dal 1882 il paese è stato un protettorato britannico. Gli inglesi come al solito vi portarono scuole, ospedali, strade e buona amministrazione. Elementi che fecero dell'egitto un paese moderno e all'avanguardia nella regione. Gli egiziani guardarono con fastidio le rivolte del Sudan ispirate dall'islamismo del Mahdi, l'uomo che si autoproclamava successore di Maometto contro il quale il primo ministro Gladstone mandò il leggendario generale Gordon che cadde a Kharthoum. Gli egiziani combatterono con gli inglesi contro gli islamisti fino al loro annientamento nel 1898 ad opera di Lord Kitchener nel famosa battaglia di Omdurman.
Il cairo era un grande centro commerciale e culturale con la sua università dove andavano a formarsi i giovani di tutti i paesi del medioriente.
Il sistema durò fino alla fine della seconda guerra mondiale che ebbe alcuni dei suoi momenti più devastanti in Egitto e dalla quale il paese uscì annientato. Il vento anticoloniale post guerra si diffuse e contagiò le elite che gli stessi inglesi avevano formato, andandosi a fondere, come avvenne ovunque in africa ed asia, con il nazionalismo. Questi sentimenti si impadronirono soprattutto dell'esercito che nel 1953 depose la Monarchia e prese il potere guidato dalla figura carismatica del colonnello Nasser.
Nasser divenne un mito per il medioriente, il rifondatore di una del revanscismo panarabo che trovò il suo collante nel nuovo grande nemico: Israele. Il suo momento di gloria lo ebbe con la crisi di suez del 1956 quando perse la guerra, ma vinse la pace umiliando la Francia e soprattutto la gran bretagna che aveva come primo ministro quel sir Anthony Eden che aveva fatto infuriare mussolini e che perse la faccia e fu costretto a dimettersi.
La sua fine venne nel 1967 quando si autoingannò sulla propria forza e sfidò Israele che gli inflisse una sconfitta memorabile da cui il colonnello non si riprese mai più.
Nasser era laico, aveva tendenze socialiste, era alleato dell'unione sovietica, con lui si cristallizzò il regime in cui la ricchezza spettava a pochi e il popolo veniva mobilitato con il nazionalismo.
Nasser però combattè sempre le tendenze islamiste che a partire dagli anni cinquanta cominciarono a fare proseliti.
Al cairo cominciò la sua opera quel Sayyid Qutb che in occidente è quasi sconosciuto, ma le cui opere in medioriente sono studiatissime, soprattutto dagli estremisti e fondamentalisti. Qutb fu sostanzialmente il fondatore della teocrazia islamica più dura e pura, quella che afferma che l'Islam diventa vera religione solo se si impossessa del potere politico e impone la Sharia.
Nasser, tanto per fargli capire chi comandava, lo fece impiccare, ma le sue idee rimasero nel sottofondo. Khomeini ad esempio studiò a lungo la lezione di Qutb e la applicò alla lettera.
Dopo Nasser venne Sadat, il più grande leader arabo di questo secolo.
Nonostante fosse un generale, Sadat aveva la mentalità del politico, era intelligente e flessibile. Si preoccupava sinceramente delle condizioni del popolo ed era ancora più duro di Nasser contro gli estremisti. Capì che doveva chiudere la pagina del confronto con israele e lo fece da politico, prima dichiarò guerra allo stato ebraico nel 1973 dichiarando vittoria dopo un giorno di combattimenti, cosa che il suo popolo crede ancora, nonostante il fatto che alla fine della guerra l'esercito israeliano fosse ad un tiro di scioppo dal cairo in seguito alla grande controffensiva di Sharon, ed avesse accerchiato l'intera terza armata egiziana che non fu distrutta solo grazie all'intervento di kissinger.
Forte della vittoria immaginaria, sadat sedé al tavolo del negoziato e firmò lo storico trattato di pace col quale per la prima volta un paese arabo riconosceva israele. Quella firma gli costò la vita.

Dopo di lui Mubarak, che era un generale dell'aviazione, e fu scelto solo perchè gli alti ufficiali dell'esercito erano troppo divisi e lo vedevano come il più debole e manovrabile.
Mubarak provò ad opporsi ai militari nei primi anni, ma poi accolse tutte le loro richieste fino ad oggi. L'egitto è qualcosa di simile alla spagna di filippo II, una gigantesca caserma.
L'esercito non è solo una istituzione, ma anche una gigantesca SPA che controlla il 45% dell'economia egiziana con le clientele annesse a cui vanno aggiunti gli aiuti militari americani che arrivano a due miliardi di dollari. L'esercito è il vero arbitro della partita, ma non ha ancora scelto e si mantiene aperte tutte le opzioni: non ha ancora rovesciato Mubarak, cosa che poi lo porterebbe ad essere prigioniero della piazza; ma non spara sulla folla per non inimicarsi il popolo.
Per gli USA la situazione è un rebus. In un primo momento avevano puntato sui generali dicendo che la volontà del popolo andava rispettata, un modo gentile per dire a Mubarak di sloggiare.
Poi dopo la frenata dei militari, hanno fatto marcia indietro verso la transizione ordinata, che significa guadagnare tempo fino alle elezioni presidenziale di settembre che dovrebbero essere libere.
L'incubo è quello di un nuovo 1979. Israele e i falchi hanno paura che si ripeta la storia, perché tutte le rivoluzioni cominciano con i Kerenky e finiscono con i Lenin, per cui non c'è da fidari di el Baradei. Tuttavia non si può sottovalutare che in Egitto un khomeini non c'è, né la grande guida spirituale egiziana Al azhar ha preso posizione.
Io non credo che siano le condizioni per nuovo Iran, ma non possiamo permetterci di correre il rischio. L'idea di un egitto instabile è inaccettabile, perchè significherebbe semplicemente una cosa: guerra.
Per questo credo che la soluzione migliore sia un governo di unità nazionale guidato dai militari, ma aperto anche a figure dell'attuale opposizione, che vari un programma di riforme.
giusperito
00martedì 1 febbraio 2011 23:15
Il problema vero è che l'instabilità si sta diffondendo in tutta la regione e purtroppo al momento il pericolo di un'affermazione fondamentalista è forte. Diversamente dall'Iran si vedono poche donne in strada a protestare e la crisi economica potrebbe avvicinare le masse ai benefattori islamici. Non dobbiamo sottovalutare la strategia dei movimenti fondamentalisti che sedimentano il loro consenso nelle scuole e nelle associazioni caritatevoli.
Speriamo nella democrazia, ma sarebbe il caso di inglobare nell'orbita europea la Turchia prima che sia troppo tardi. Non sarò io la Cassandra di turno, ma non sono così convinto che i fratelli musulmani resteranno a guardare e, soprattutto, è la grande occasione dell'Iran per diventare il centro propulsore dell'Arabia di Qubt
angel in the sky
00martedì 1 febbraio 2011 23:34
Re:
giusperito, 01/02/2011 23.15:

Il problema vero è che l'instabilità si sta diffondendo in tutta la regione e purtroppo al momento il pericolo di un'affermazione fondamentalista è forte. Diversamente dall'Iran si vedono poche donne in strada a protestare e la crisi economica potrebbe avvicinare le masse ai benefattori islamici. Non dobbiamo sottovalutare la strategia dei movimenti fondamentalisti che sedimentano il loro consenso nelle scuole e nelle associazioni caritatevoli.
Speriamo nella democrazia, ma sarebbe il caso di inglobare nell'orbita europea la Turchia prima che sia troppo tardi. Non sarò io la Cassandra di turno, ma non sono così convinto che i fratelli musulmani resteranno a guardare e, soprattutto, è la grande occasione dell'Iran per diventare il centro propulsore dell'Arabia di Qubt




concordo con te, ma dissento sulla Turchia.

Ormai stanno tassando a più non posso l'alcool pur di diventare sempre più islamici. Erdogan non è democratico.


trixam
00martedì 1 febbraio 2011 23:46
Re:
giusperito, 01/02/2011 23.15:

Il problema vero è che l'instabilità si sta diffondendo in tutta la regione e purtroppo al momento il pericolo di un'affermazione fondamentalista è forte. Diversamente dall'Iran si vedono poche donne in strada a protestare e la crisi economica potrebbe avvicinare le masse ai benefattori islamici. Non dobbiamo sottovalutare la strategia dei movimenti fondamentalisti che sedimentano il loro consenso nelle scuole e nelle associazioni caritatevoli.
Speriamo nella democrazia, ma sarebbe il caso di inglobare nell'orbita europea la Turchia prima che sia troppo tardi. Non sarò io la Cassandra di turno, ma non sono così convinto che i fratelli musulmani resteranno a guardare e, soprattutto, è la grande occasione dell'Iran per diventare il centro propulsore dell'Arabia di Qubt




Gius io non ho mai sottovalutato questi pericoli.
Tuttavia va tenuto presente che l'egitto è il centro dell'islam sunnita, mentre gli iraniani sono sciiti che come tutte le minoranze sono più radicali. Gli iraniani poi, non dobbiamo mai dimenticarcelo, non sono arabi e gli arabi non ci tengono a farsi guidare dai persiani.
I fratelli musulmani sono un grosso problema, che sostanzialmente rende impossibile una transizione normale. Io credo che siano meno forti di quanto abbiamo pensato negli anni scorsi, Mubarak li ha caricati parecchio per avere l'appoggio dell'occidente.
Comunque il problema è che non possiamo correre il rischio.
Se crolla l'egitto, la giordania rischia, Israele perderebbe gli unici due interlocutori veri nel mondo arabo.
Saremmo a quella ipotesi che nei piani dello stato maggiore israeliano viene definita effetto Gamma, il ritorno alla situazione politica del 1948. Con il Libano che è nel caos più totale, Israele non potrebbe stare a guardare, dovendo redisegnare tutto il suo impianto difensivo. Sarebbe la guerra. Per questo uno scenario di un governo militare con esponenti civili, mi sembra la soluzione più ragionevole nel breve periodo.
Paperino!
00mercoledì 2 febbraio 2011 00:43
Tra l'altro la guerra stavolta ce l'avremmo proprio sotto casa, altro che Kuwait...
VincenzoP@
00mercoledì 2 febbraio 2011 08:22
Complimenti per l'analisi, impossibile dissentire: davvero NON possiamo correre il rischio.
Massimo Volume
00mercoledì 2 febbraio 2011 08:49
L'analisi è di Boldrin...


ps. l'analisi dovrebbe differenziarsi se parliamo di Egitto, Tunisia, Algeria etc


Lucio Caracciolo


L'Egitto è un'occasione che perderemo. L'occasione è storica: spezzare nel più strategico paese arabo il circolo vizioso di miseria, frustrazione, regimi di polizia e terrorismo - spesso alimentato dai regimi stessi per ottenere soldi e status dall'Occidente – che destabilizza Nordafrica e Vicino Oriente fino al Golfo e oltre.

Il successo della rivoluzione avvierebbe la transizione a un Egitto “normale”, con un potere politico legittimato dal popolo.

Dopo la scintilla tunisina, il segno che la nostra frontiera sud-orientale può cambiare. In meglio. Avvicinandosi ai nostri standard di libertà e democrazia. Cogliendo le opportunità di sviluppo perse per l'avidità delle élite postcoloniali, impegnate a coltivare le proprie rendite, indifferenti a una società giovane, esigente.

L'Italia più di qualsiasi altra nazione europea dovrebbe appassionarsi al sommovimento in corso lungo la Quarta Sponda. Chi più di noi dovrebbe interessarsi alla ricostruzione del circuito mediterraneo, destinato a intercettare la quasi totalità dei flussi commerciali fra Asia ed Europa, di cui saremmo naturalmente il centro?

A chi più che a noi conviene la graduale composizione della frattura tra le sponde Nord e Sud del “nostro mare”? O davvero pensiamo sia possibile erigere una barriera impenetrabile in mezzo al Mediterraneo?

Qualcuno pensa ancora che lo sviluppo del Sud del mondo sia una minaccia e non una formidabile risorsa per il nostro stesso sviluppo – anzi, la condizione perché non si arresti?

Eppure Roma tace. Il nostro governo ha trovato modo di non esprimersi fino a sabato. Meglio così, forse, visto che quando ha parlato - via Frattini - nessuno se n'è accorto. Mentre tutto il mondo si preoccupa del dopo-Mubarak, noi ci dilaniamo sulla “nipote”.
Stiamo perdendo l'occasione di incidere in una svolta storica - stavolta l'aggettivo è pertinente - che riguarda molto da vicino la vita nostra, soprattutto dei nostri figli e nipoti.

Se anche i militari riuscissero ad affogare nel sangue le aspettative della piazza, la rivoluzione egiziana ha ormai sancito che il paradigma delle dinastie parassitarie, incentivato dai governi occidentali, non garantisce più nessuno.

Certamente non i popoli che opprime. Ma nemmeno noi europei. Quei regimi significano solo caos, repressione e miseria. L'ambiente ideale per i jihadisti. I quali, non dimentichiamolo mai, sono incistati nelle nostre metropoli. Se sbagliamo politica in Egitto, in Tunisia o in altri paesi del nostro Sud, il prezzo lo paghiamo in casa.

Un sobrio accertamento dello stato delle cose dovrebbe indurre il nostro governo a mobilitare ogni risorsa a sostegno dei cambiamenti in atto sulla sponda africana del Mediterraneo.

Se ciò non accade, non è solo colpa di Berlusconi o Frattini, ma della rimozione che l'Italia ha compiuto di se stessa. Della sua geografia e della sua storia.

Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità è duro ammetterlo. Ma è un fatto: non sappiamo dove siamo né da dove veniamo.

Così abbiamo dimenticato che per secoli l'Egitto è stato fecondato dalla nostra diaspora. Come l'intero bacino del Sud Mediterraneo, dove un secolo fa viveva quasi un milione di connazionali. Operai, artigiani, ma anche banchieri, architetti e burocrati pubblici. Nell'Egitto khedivale l'italiano era lingua franca, usata nell'amministrazione pubblica.

Un tipografo di origine livornese, Pietro Michele Meratti, vi fondò nel 1828 il primo servizio di corrieri privati, la Posta Europea, poi assurto a monopolio pubblico. Le diciture delle prime serie di francobolli egiziani erano in italiano. Decine di migliaia di italiani, tra cui molti ebrei, abitavano il Cairo e Alessandria, dove i segni del “liberty alessandrino” sono ancora visibili.

La nostra egittologia ha una lunga tradizione. Come in genere le nostre missioni archeologiche orientali, fra le principali fonti d'intelligence quando i servizi segreti erano ancora qualcosa di serio.

Di questo e delle nostre tradizioni levantine in genere cercheremmo vanamente una trattazione nei manuali scolastici. È storia rimossa. Eppure ancora oggi molto del residuo capitale di simpatia di cui godiamo nella regione si fonda su tali memorie.

Basterebbe poco per ravvivarle. Nell'immediato, anche un gesto simbolico. A Torino abbiamo il più importante museo di antichità egizie dopo quello del Cairo, oggetto di sospetti vandalismi nelle prime fasi dei disordini. Sarebbe forse utile uno sforzo sostenuto dai poteri pubblici e da fondazioni private per dare concreto seguito alla profezia di Jean-François Champollion, il decifratore della Stele di Rosetta: “La strada per Menfi e Tebe passa da Torino”.

Finanziare e sostenere la messa in sicurezza del Museo del Cairo e dei suoi reperti significa non solo salvare un giacimento culturale di valore universale, ma un atto di rispetto per la pietra angolare dell'identità egiziana. Quell'identità che i nostri levantini contribuirono a resuscitare e che le piazze egiziane oggi vogliono riscattare.

Eppure nell'immaginario collettivo (ossia televisivo) sembra che l'Egitto sia un qualsiasi pezzo d'Africa, un arcipelago di miserie e arretratezze. Più le piramidi e Sharm el-Sheikh. Ma da dove spuntano i giovani anglofoni che maneggiano twitter e Facebook - già ribattezzato Sawrabook, “libro della rivoluzione” - e rischiano la vita per la libertà?

Per anni abbiamo vissuto di verità ricevute. Un eterno fermo immagine. Intanto, la società civile egiziana cresceva, si strutturava. Ci sono certo i Fratelli musulmani, un arcipelago dalle mille ambiguità, che Mubarak ci ha rivenduto con successo come banda di terroristi.

Ma ci sono anche laici, cristiani, nazionalisti, socialisti, gente che semplicemente non ne può più della “repubblica ereditaria”. Quanto meno daremo ascolto e supporto alle loro istanze, tanto più il rischio di una deriva islamista diverrà concreto. È quanto sperano Suleiman e gli altri anziani ufficiali drogati da decenni di potere incontrastato.

Per riproporre e rivenderci il muro contro muro.

Obama e alcuni leader europei forse cominciano a capirlo. Fra cautele ed esitazioni invitano a voltare pagina. Non noi italiani. Continuiamo ad aggrapparci a un Egitto che non c'è più. L'Egitto che prova a nascere non lo dimenticherà.

La sua sconfitta sarà la nostra. La sua vittoria, solo sua.
Massimo Volume
00mercoledì 2 febbraio 2011 08:51


Fabrizio Maronta


La rivolta d'Egitto, piombata sull'establishment statunitense come un fulmine a ciel sereno, alimenta un dibattito sintetizzabile nel dilemma idealismo/realismo, vecchio quanto l'America stessa.

Che in questo frangente esista un forte attrito tra il primo e il secondo è attestato dalle piroette verbali del presidente Obama e del segretario di Stato Clinton, passati nel volgere di pochi giorni dal convinto appoggio al barcollante regime di Mubarak al cauto auspicio di un'ordinata transizione democratica.

Tuttavia, è lecito chiedersi fino a che punto i due corni del dilemma siano inconciliabili. Tra i fautori della realpolitik, scottati dal precedente iracheno, prevalgono due argomentazioni.

La prima ha a che fare con l'applicabilità del principio democratico a società che mancano di una tradizione di tolleranza e rispetto delle minoranze. “Noi [l'America] vogliamo che l'Egitto sia come noi, ma noi non siamo l'Egitto”, scrive Roger Cohen sul Washington Post.

L'altra argomentazione si rifa alla rivoluzione iraniana del 1979, preconizzando un temuto effetto domino che porti all'avvento di regimi islamisti ostili agli Stati Uniti (e a Israele) in Nordafrica e Medio Oriente.

Non è affatto detto che libere elezioni replicherebbero l'“effetto Hamas” in una regione vasta ed eterogenea che va dal Marocco all'Arabia Saudita. Ma l'idea che il messaggio della galassia islamista (rappresentata in Egitto dai Fratelli musulmani) sia popolare presso le “masse islamiche” è forte negli ambienti intellettuali americani.

Nel campo idealista prevale invece la convinzione che l'America non possa abdicare al suo ruolo di faro dei popoli, quanto meno se vuole sfuggire alle feroci accuse di incoerenza, trasformismo e bieco utilitarismo che verosimilmente le pioverebbero addosso in caso di abbandono del popolo egiziano al suo destino.

Specialmente dopo la crociata irachena e il perdurante sforzo in Afghanistan, sostenuto all'insegna della democrazia come antidoto al radicalismo.

Curiosamente, è proprio il campo idealista - di norma refrattario ai grigi compromessi della politica internazionale - a suggerire una possibile composizione dei due opposti.

Marc Thiessen, dell'American Enterprise Institute, sostiene che in Egitto l'America non si giochi solo la propria coscienza, ma anche (soprattutto) la propria reputazione presso il mondo arabo.

In quest'ottica, sostenere Mubarak sarebbe una scommessa persa in partenza: se egli soccombesse, gli egiziani rinfaccerebbero (a ragione) all'America di aver tentato di sabotare il loro risveglio nazionale; laddove, viceversa, sopravvivesse, Washington si sarebbe resa complice della repressione.

Cavalcare il cambiamento, dunque, non sarebbe un'opzione, ma una necessità.

Il senso di ineluttabilità storica che pervade questa posizione, al pari della sindrome da accerchiamento che traspare dall'altra, sono due facce della stessa medaglia: lo spaesamento di un paese colto alla sprovvista dall'apertura dell'ennesimo fronte di crisi.

Mai come ora alla Casa Bianca questa sensazione appare evidente. L'amministrazione non fa mistero del suo incubo peggiore: una propagazione dell'onda rivoluzionaria ai paesi esportatori di petrolio, che rischierebbe di uccidere in culla la fragilissima ripresa economica.

L'Egitto non esporta idrocarburi, ma controlla il Canale di Suez, da cui passa circa il 3% del traffico petrolifero mondiale.

Tuttavia, è soprattutto alla Libia e, ancor più, all'Arabia Saudita che Washington guarda con apprensione: se i disordini egiziani hanno spinto in alto di 7 dollari al barile le quotazioni del petrolio (che ora viaggia ad oltre 90 dollari al barile), cosa accadrebbe in caso di rovesciamento della casa Saud?

È uno scenario cui i governi occidentali, quello statunitense in primis, preferirebbero non pensare. Ma negare la realtà, com'è noto, non risolve i problemi.
maximilian1983
00mercoledì 2 febbraio 2011 13:56
Personalmente non credo che si debba essere contenti di quello che accadde. Credo che la democrazia, in certi paesi, si risolva sempre in una questione di metodo e non di sostanza. E' partendo dal metodo (chi vince governa) che si possono avere risultati disastrosi per la storia anche delle nostre vite (lo dico con un eccesso di egoismo, lo so, ma sono pragmatico...). Perchè l'Egitto e la Tunisia ed anche l'Algeria (la cui recentissima vicenda storica, che sembra rimossa dai media occidentali, ha avuto costi di sangue anche per noi italiani!) non sono l'Afghanistan e nemmeno la Siria (dove "non stranamente" niente succede contro Hassad, perchè lì il controllo islamico della vita quotidiana è fortissimo! ma anche di questo in Occidente non si fa menzione...). Non mi illudo che la democrazia in questi paesi possa diventare qualcosa in più di una questione di metodo. Il rischio (sempre nell'ottica pragmatico-egositica): appena in Egitto va al potere un governo ostile ad Israele, questo passa subito al contrattacco con guerra preventiva. Allora non sarà più nè questione di metodo nè di sostanza. Sarà la paura vera. E la guerra generalizzata in medioriente, saldandosi alla crisi economica devastante che già attraversiamo, potrebbe segnare l'inizio della fine di un'epoca. Sono molto pessimista.
maximilian1983
00mercoledì 2 febbraio 2011 14:20
Da "La bussola quotidiana"

Parsi: manca sull'Egitto una chiara politica Usa


di Marco Respinti


Vittorio Emanuele Parsi insegna Relazioni internazionali nonché Storia delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e nell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali istituita presso quell’ateneo dirige il master in Economia e Politiche Internazionali.


A proposito dei regimi nordafricani, travolti in poche settimane dalla rivolta della “piazza”, non ha dubbi. «Si tratta di governi in crisi profonda, anzitutto di legittimità e di rappresentanza. Sono cioè regimi che hanno completamente smarrito la capacità inclusiva e quindi ora non sanno come rispondere alle realtà dei Paesi che governano. È anzitutto questo l’elemento che ha indebolito progressivamente la Tunisia e l’Egitto».


Ora però l’Egitto è ai ferri corti…
È stata la vittoria della “piazza” in Tunisia che ha innescato la rivolta lì. Grazie all’esempio tunisino, gli egiziani si sono resi per la prima volta conto che è possibile farcela e quindi sono scesi in piazza pure loro.


Prevede un effetto contagio che possa allargare la rivolta ad altri Paesi della regione?
Dubito. Nell’area che va dall’Africa Settentrionale costiera al Medioriente, i Paesi oggi più stabili sono da un lato il Marocco e dall’altro la Giordania. Questo perché i governi di quei Paesi sono stati capaci di anticipare, in certa misura, gli eventi più dirompenti iniziando ad affrontarne i nodi. In quei luoghi vi è per esempio maggiore pluralismo e sono pure state varate alcune riforme sociali e politiche necessarie prima che fosse troppo tardi. Tuto questo ha fatto sì che in quei luoghi le tensioni si stemperassero.
Vi sono poi altri casi, per esempio quello della Siria e dell’Iran: Paesi assai diversi ma accomunati da una certa, diciamo, disinvoltura nell’utilizzo della repressione delle opposizioni e delle proteste che ha soffocato sul nascere ogni possibilità di cambiamento…


Qualcuno paventa il pericolo islamista, temendo che la “piazza” egiziana che chiede oggi democrazia e libertà possa facilmente essere strumentalizzata e poi occupata dalle frange più estremiste…
Certo, il rischio c’è, piuttosto concreto. È davvero inutile dire del contrario. Sul terreno il mondo islamista è quello meglio e più organizzato. Se desidera e se ne ha le condizioni pratiche può cercare di prendere il sopravvento. E le altre opposizioni non sono davvero in grado di opporre altrettanta organizzazione.


E allora non sarebbe più opportuno sostenere Mubarak?
Mubarak non si può sostenere perché non ce la fa più a stare in piedi… È inevitabile che la sua leadership crolli. Ciò non significa peraltro che assieme a lui scompaia pure il suo regime, ma questo è un altro discorso.


Vede la possibilità che un regime egiziano di tipo “laico” senza Mubarak possa chiudersi in una sorta di neonazionalismo, magari pensato proprio per sottrarre terreno alla minaccia islamista?
No, non lo credo. Può darsi che i militari possano irrigidirsi per qualche tempo, ma questo servirebbe solo a “tirare a campare”… Dopo di ché, è inevitabile cerchino un qualche accordo con le opposizioni.


L’Egitto è un Paese cruciale per gli equilibri di quella sponda del Mediterraneo ed è un alleato storico degli Stati Uniti. Come giudica la politica estera americana in merito alla situazione egiziana?
Quale politica estera americana? Gli Stati Uniti dell’Amministrazione guidata da Barack Obama sono sempre due passi indietro rispetto al corso degli eventi. Oggi manca una vera politica estera statunitense: in generale e quindi a maggior ragione per uno scenario caldo come quello di cui stiamo discutendo. Al massimo Washington è riuscita a combinare pasticci…

--letizia22--
00giovedì 3 febbraio 2011 00:09
la giornata di oggi dimostra che con un dittatore non si deve mai scendere a patti,ne' fidarsi.
--letizia22--
00venerdì 4 febbraio 2011 13:03
"tutti vedono la violenza del fiume in piena,ma nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono." dedicata al popolo egiziano.
Niña de Luna
00venerdì 4 febbraio 2011 13:21
Re:
maximilian1983, 02/02/2011 13.56:

Personalmente non credo che si debba essere contenti di quello che accadde. Credo che la democrazia, in certi paesi, si risolva sempre in una questione di metodo e non di sostanza. E' partendo dal metodo (chi vince governa) che si possono avere risultati disastrosi per la storia anche delle nostre vite (lo dico con un eccesso di egoismo, lo so, ma sono pragmatico...). Perchè l'Egitto e la Tunisia ed anche l'Algeria (la cui recentissima vicenda storica, che sembra rimossa dai media occidentali, ha avuto costi di sangue anche per noi italiani!) non sono l'Afghanistan e nemmeno la Siria (dove "non stranamente" niente succede contro Hassad, perchè lì il controllo islamico della vita quotidiana è fortissimo! ma anche di questo in Occidente non si fa menzione...). Non mi illudo che la democrazia in questi paesi possa diventare qualcosa in più di una questione di metodo. Il rischio (sempre nell'ottica pragmatico-egositica): appena in Egitto va al potere un governo ostile ad Israele, questo passa subito al contrattacco con guerra preventiva. Allora non sarà più nè questione di metodo nè di sostanza. Sarà la paura vera. E la guerra generalizzata in medioriente, saldandosi alla crisi economica devastante che già attraversiamo, potrebbe segnare l'inizio della fine di un'epoca. Sono molto pessimista.




Quoto.

Ho visto in tv l'intervista a una giornalista egiziana,definiva questa rivolta come l'occasione per l'Egitto di ottenere finalmente una democrazia,una costituzione degna del modello Occidentale.
Io temo che davvero non sia così,non vedo dei leader in questo momento capaci di trascinare la folla,di darsi un programma politico...temo anch'io che salga al potere un'altro dittatore fondamentalista. In tutto ciò l'Onu non capisco che posizione abbia assunto al riguardo [SM=x43606]
--letizia22--
00sabato 5 febbraio 2011 10:09
DA INTERNAZIONALE:

Molti europei guardano alle rivolte nel mondo arabo con scetticismo e sospetto, come se certi popoli non fossero all'altezza di ripetere il loro cammino verso la democrazia. Ma negli ultimi anni il mondo è cambiato più di quanto immaginiamo.
Robert Misik

Come molti altri, in questi giorni passo ore intere davanti al Live Stream di Al Jazeera, con la sensazione di essere in tempo reale nei luoghi in cui si sta scrivendo la storia. Con la rivolta egiziana stiamo vivendo – dopo la rivoluzione democratica in Tunisia – il secondo atto di questa sorprendente “primavera araba”. O del “1989 degli arabi”.

Quello che accade è avvincente ed entusiasmante: nessuno di noi si sarebbe aspettato rivoluzioni civili in importanti paesi arabi. Avevamo descritto le loro popolazioni come apatiche e rassegnate, o facilmente manipolabili da dittatori ed estremisti islamici. E invece no. Le giovani generazioni metropolitane non sono molto diverse da quelle occidentali. Hanno gli stessi desideri. E grazie a internet vivono davvero nello stesso mondo globale.

Forse internet e i social media hanno avuto sulla consapevolezza collettiva un effetto molto più forte di quanto abbiamo pensato finora. Anche i cosiddetti esperti in realtà non sanno un bel niente: negli ultimi due anni troppe cose si sono messe in movimento, mentre il sapere specialistico ha bisogno spesso di esperienze storiche di lungo corso, proprio quelle che gli ultimi sviluppi hanno inesorabilmente sorpassato, senza che gli “esperti” se ne rendessero conto.

Quello che mi stupisce, anzi, quello che mi riempie di indignazione è l'opinione che si sente ripetere in diversi ambienti: “ma per l'amor del cielo, quanto è pericolosa l'instabilità? Da questi arabi non verrà niente di buono. Alla fine vedrai che si ritroveranno con una dittatura islamica. Ma allora erano molto meglio i dittatori laici.”

Considerazioni del genere sono spazzatura morale. Come se nel 1989 si fosse detto a Vaclav Havel, Jens Reich [attivista dei diritti civili nella Ddr] e alle migliaia di cittadini che non ne potevano più dei loro regimi, che avrebbero fatto meglio a tenersi Honecker, Husak e gli altri, perché non si poteva sapere quello che sarebbe uscito da una rivolta – chi lo sa, forse persino una Germania riunificata e smaniosa di guerre.

Un atteggiamento del genere non origina solo dalla corruzione morale, ma anche da un profondo disinteresse per la realtà. Basta guardare con un po' d'attenzione questo movimento civile arabo per constatare che i tanto temuti estremisti islamici stanno giocando un ruolo decisamente secondario. La gente vuole democrazia e libertà, non i mullah. Alcuni addirittura fanno notare che l'influenza dei gruppi islamici – come i Fratelli Musulmani in Egitto – sembra essersi ridotta.
Un passo verso l’ignoto

Siamo di fronte a un'occasione storica. Appena iniziano a respirare la libertà, gli uomini si trasformano. Questo significa anche che nessuno sa come andrà a finire. Adesso vediamo un ceto medio urbano che caccia i dittatori. È possibile che poi le elezioni democratiche diano risultati deludenti. Non abbiamo idea di come voteranno i contadini del delta del Nilo. Ma questo, ripeto, nessuno lo può sapere, ed è proprio questa la grande opportunità.

Certo, spesso le occasioni si perdono. Ma la possibilità di un fallimento è un buon motivo per ancorarsi alla stabilità – come vogliono farci credere i dittatori, che non hanno altri argomenti? No, certo che no.

Quello che manca ai cinici è la capacità di immaginazione politica, il senso del possibile. Ma il loro atteggiamento ha anche una radice razzista. L'idea di fondo è che gli arabi non possono vivere in democrazia: preferiscono andare dietro ai dittatori. Queste sono idiozie.

Quando i cittadini prendono in mano la loro storia e vogliono darsi nuove regole compiono un passo verso l'ignoto. E l'incertezza comporta sempre dei rischi. La storia ha sempre funzionato così, altrimenti non ci sarebbe stato alcun progresso, e la democrazia non sarebbe mai nata.

Il pretesto che la democrazia è pericolosa è vecchio quanto l'impulso dell'uomo verso la libertà. Ed è sempre stato sollevato da quelli che si sono aggrappati alla stabilità. Se lo avessero ascoltato anche i nostri antenati, adesso vivremmo ancora come servi della gleba, inchinati al clero, sottoposti all'arbitrio dei nobili. (traduzione di Nicola Vincenzoni)
--letizia22--
00lunedì 14 febbraio 2011 12:27
Egitto
Chi ha paura dei Fratelli musulmani
10 febbraio 2011 16.13
I governi occidentali temono che dopo Mubarak andranno al potere gli islamisti. Ma hanno un’immagine distorta della realtà egiziana, scrive il filosofo Tariq Ramadan sul New Statesman.

Quando sono cominciate le manifestazioni di massa in Tunisia, chi avrebbe immaginato che il regime di Zine el Abidine Ben Ali sarebbe crollato così rapidamente?

E chi avrebbe potuto prevedere che subito dopo anche l’Egitto sarebbe stato scosso da una protesta popolare senza precedenti? È crollato un muro e niente sarà più come prima. È molto probabile che, considerata l’importanza simbolica dell’Egitto, altri pae­si seguiranno il suo esempio. Ma quale ruolo giocheranno gli islamisti dopo la caduta di queste dittature?

Per decenni l’occidente ha usato la presenza degli islamisti come scusa per appoggiare le peggiori dittature del mondo arabo. A loro volta, questi regimi hanno demonizzato gli oppositori islamisti, in particolar modo i Fratelli musulmani egiziani, che storicamente sono il primo movimento di massa ben organizzato in grado di esercitare anche un’influenza politica.

Da più di sessant’anni la Fratellanza è fuorilegge ma viene tollerata. Ha dimostrato una capacità straordinaria di mobilitare la popolazione ogni volta che ha potuto partecipare a un’elezione relativamente democratica per scegliere i vertici dei sindacati e delle associazioni professionali, gli amministratori locali o i parlamentari. Perciò, viene spontaneo chiedersi se i Fratelli musulmani siano una forza in ascesa in Egitto e cosa possiamo aspettarci da questa organizzazione.

In occidente ci siamo abituati alle analisi superficiali del fenomeno dell’islam politico in generale e sul movimento dei Fratelli musulmani in particolare. L’islamismo, però, è un mosaico di tendenze e gruppi diversi tra loro, le cui numerose sfaccettature sono emerse nel corso del tempo e in risposta a determinati cambiamenti storici.

Un po’ di storia
I Fratelli musulmani sono nati negli anni trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento, che rivendicava la legittimità della resistenza armata all’espansionismo sionista in Palestina. I testi scritti tra il 1930 e il 1945 da Hassan al Banna mostrano che il fondatore della Fratellanza si opponeva al colonialismo e criticava i governi fascisti in Germania e in Italia. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava legittimo in Palestina come forma di resistenza ai gruppi terroristi sionisti Stern e Irgun. Era inoltre convinto che il modello più vicino ai princìpi islamici fosse quello parlamentare britannico.

L’obiettivo di Al Banna era fondare uno “stato islamico” attraverso un processo graduale di riforme, puntando sulla scuola e i programmi sociali. Ma fu ucciso nel 1949 da alcuni emissari del governo egiziano, su ordine della Gran Bretagna. Dopo l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser nel 1952, la Fratellanza subì una violenta repressione, che fece emergere alcune tendenze. Dopo l’esperienza del carcere e delle torture, alcuni affiliati (che in un secondo tempo abbandonarono il movimento) si spinsero verso posizioni radicali e si convinsero che lo stato doveva essere rovesciato a tutti i costi, anche con la violenza. Altri rimasero fedeli all’idea di un riformismo graduale.

Molti militanti furono costretti ad andare in esilio: alcuni finirono in Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia fondata sull’interpretazione letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, paesi a maggioranza musulmana dove coesistevano comunità diverse. Altri ancora si stabilirono in occidente, dove entrarono in contatto con la tradizione europea di libertà democratiche.

Oggi nel movimento dei Fratelli musulmani convivono tutti questi diversi punti di vista, anche se la leadership, ormai molto anziana, non riflette le aspirazioni dei giovani, che sono più aperti al resto del mondo, hanno voglia di riformare l’organizzazione e sono affascinati dall’esempio della Turchia. Dietro un’immagine unitaria e fortemente gerarchica si agitano influenze contraddittorie. E nessuno sa ancora quale prevarrà.

I Fratelli musulmani non sono alla testa della rivolta contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, che è animata invece da giovani donne e uomini stanchi della dittatura. I Fratelli musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione, così come non la rappresentano gli islamisti. Senza dubbio, sperano di partecipare alla transizione democratica dopo l’uscita di scena di Mubarak, anche se nessuno può ancora dire quale fazione interna riuscirà ad avere la meglio sulle altre e, di conseguenza, quali saranno le priorità del movimento. Il pensiero dei Fratelli musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie.

Un’utile scusa
Difficilmente gli Stati Uniti e l’Europa, e meno che mai Israele, sosterranno il sogno di democrazia e libertà degli egiziani. Considerazioni di tipo strategico e geopolitico stanno già spingendo Washington a sorvegliare attentamente il movimento riformatore, in stretta collaborazione con l’esercito egiziano, che ha assunto un ruolo fondamentale come mediatore.

Scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli musulmani ha voluto lanciare un segnale: non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare non solo l’occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è cautela.

Secondo i princìpi democratici, tutte le forze che si oppongono alla violenza e sostengono lo stato di diritto (prima e dopo le elezioni) devono poter partecipare a pieno titolo alla vita politica di un paese. Per questo è necessario che la Fratellanza diventi un partner del processo di cambiamento, e lo diventerà, se in Egitto si stabilirà un minimo di democrazia (anche se le vere intenzioni delle potenze straniere sono ancora un’incognita).

La repressione e la tortura del regime di Mubarak non sono riuscite ad annientare la Fratellanza. Invece il dibattito democratico e lo scambio di idee sono riusciti ad ammorbidire le tesi islamiste più radicali e problematiche. Solo confrontando le varie opinioni, e non attraverso la tortura e la dittatura, sarà possibile trovare soluzioni che rispettino la volontà del popolo. Per questo bisognerebbe osservare con attenzione l’esempio della Turchia.

L’occidente continua a nascondersi dietro la “minaccia islamista” per giustificare la sua passività o il sostegno alle dittature. Mentre aumentavano le proteste contro Mubarak, il governo israeliano ha più volte chiesto a Washington di appoggiare il regime del Cairo. L’Europa, invece, ha assunto un atteggiamento attendista. Entrambi i comportamenti sono significativi: in ultima analisi, le belle parole in difesa dei princìpi democratici passano in secondo piano di fronte alla necessità di difendere gli interessi politici ed economici.

Ora tutto è possibile
Invece di sostenere chi rappresenta realmente la volontà popolare, gli Stati Uniti preferiscono i dittatori che gli garantiscono l’accesso al petrolio e permettono a Israele di continuare il suo lento processo di colonizzazione. Citare le dichiarazioni di pericolosi islamisti per giustificare l’indifferenza alle rivendicazioni popolari è miope e illogico. Sia l’amministrazione Bush sia quella Obama hanno perso credibilità in Medio Oriente. Lo stesso vale per l’Europa. Se statunitensi ed europei non rivedranno presto le loro priorità politiche, altre potenze asiatiche e latinoamericane potrebbero presto entrare in gioco stringendo nuove alleanze strategiche.

L’impatto regionale dell’uscita di scena di Mubarak sarà enorme, ma è impossibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze. Dopo la ribellione dei tunisini e degli egiziani il messaggio politico è chiaro: con una protesta di massa non violenta tutto è possibile, e nessun governo autoritario può considerarsi al riparo. Molti presidenti e sovrani sentono la pressione di questa svolta epocale. I disordini hanno raggiunto l’Algeria, lo Yemen e la Mauritania. E bisognerebbe tenere d’occhio anche Giordania, Siria e Arabia Saudita, i cui governi hanno annunciato riforme per prevenire le manifestazioni popolari. In realtà sono decisioni dettate solo dalla paura.

I leader di questi paesi sanno di correre lo stesso rischio di Mubarak. Questa instabilità è preoc­cupante e allo stesso tempo estremamente promettente. Il mondo arabo si sta svegliando. Le prospettive di cambiamento sono guardate con speranza dai veri democratici e con preoccupazione da chi è pronto a sacrificare i princìpi democratici ai propri calcoli economici e geostrategici.

La liberazione dell’Egitto sembra essere solo l’inizio. A chi toccherà dopo? Se i prossimi saranno la Giordania e lo Yemen, seguirà anche l’Arabia Saudita – il cuore del mondo musulmano – e il governo di Ri­yadh si ritroverà senz’altra scelta che progredire verso un sistema politico più aperto. In tutto il mondo, tra i musulmani c’è una massa critica che sostiene questi cambiamenti ed è convinta della necessità di una rivoluzione al centro. In fin dei conti, solo le democrazie in grado di accogliere al loro interno tutte le forze non violente saranno in grado di costruire la pace in Medio Oriente, una pace che rispetti la dignità dei palestinesi.

Tariq Ramadan è professore di studi islamici all’università di Oxford. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli 2009).

Traduzione di Giusy Muzzopappa.

Internazionale,
Giubo
00lunedì 14 febbraio 2011 19:50
non è il Muro di Berlino dell'Africa
nando85
00lunedì 14 febbraio 2011 20:52

Addirittura adesso parlano di sommosse anche in IRAN!
Giubo
00lunedì 14 febbraio 2011 21:10
il vento della rivolta poteva virare a ovest...
trixam
00martedì 15 febbraio 2011 16:38
Re:
--letizia22--, 14/02/2011 12.27:

Egitto
Chi ha paura dei Fratelli musulmani
10 febbraio 2011 16.13
I governi occidentali temono che dopo Mubarak andranno al potere gli islamisti. Ma hanno un’immagine distorta della realtà egiziana, scrive il filosofo Tariq Ramadan sul New Statesman.

Quando sono cominciate le manifestazioni di massa in Tunisia, chi avrebbe immaginato che il regime di Zine el Abidine Ben Ali sarebbe crollato così rapidamente?

E chi avrebbe potuto prevedere che subito dopo anche l’Egitto sarebbe stato scosso da una protesta popolare senza precedenti? È crollato un muro e niente sarà più come prima. È molto probabile che, considerata l’importanza simbolica dell’Egitto, altri pae­si seguiranno il suo esempio. Ma quale ruolo giocheranno gli islamisti dopo la caduta di queste dittature?

Per decenni l’occidente ha usato la presenza degli islamisti come scusa per appoggiare le peggiori dittature del mondo arabo. A loro volta, questi regimi hanno demonizzato gli oppositori islamisti, in particolar modo i Fratelli musulmani egiziani, che storicamente sono il primo movimento di massa ben organizzato in grado di esercitare anche un’influenza politica.

Da più di sessant’anni la Fratellanza è fuorilegge ma viene tollerata. Ha dimostrato una capacità straordinaria di mobilitare la popolazione ogni volta che ha potuto partecipare a un’elezione relativamente democratica per scegliere i vertici dei sindacati e delle associazioni professionali, gli amministratori locali o i parlamentari. Perciò, viene spontaneo chiedersi se i Fratelli musulmani siano una forza in ascesa in Egitto e cosa possiamo aspettarci da questa organizzazione.

In occidente ci siamo abituati alle analisi superficiali del fenomeno dell’islam politico in generale e sul movimento dei Fratelli musulmani in particolare. L’islamismo, però, è un mosaico di tendenze e gruppi diversi tra loro, le cui numerose sfaccettature sono emerse nel corso del tempo e in risposta a determinati cambiamenti storici.

Un po’ di storia
I Fratelli musulmani sono nati negli anni trenta come movimento legalista, anticoloniale e non violento, che rivendicava la legittimità della resistenza armata all’espansionismo sionista in Palestina. I testi scritti tra il 1930 e il 1945 da Hassan al Banna mostrano che il fondatore della Fratellanza si opponeva al colonialismo e criticava i governi fascisti in Germania e in Italia. Rifiutava l’uso della violenza in Egitto, ma lo considerava legittimo in Palestina come forma di resistenza ai gruppi terroristi sionisti Stern e Irgun. Era inoltre convinto che il modello più vicino ai princìpi islamici fosse quello parlamentare britannico.

L’obiettivo di Al Banna era fondare uno “stato islamico” attraverso un processo graduale di riforme, puntando sulla scuola e i programmi sociali. Ma fu ucciso nel 1949 da alcuni emissari del governo egiziano, su ordine della Gran Bretagna. Dopo l’arrivo al potere di Gamal Abdel Nasser nel 1952, la Fratellanza subì una violenta repressione, che fece emergere alcune tendenze. Dopo l’esperienza del carcere e delle torture, alcuni affiliati (che in un secondo tempo abbandonarono il movimento) si spinsero verso posizioni radicali e si convinsero che lo stato doveva essere rovesciato a tutti i costi, anche con la violenza. Altri rimasero fedeli all’idea di un riformismo graduale.

Molti militanti furono costretti ad andare in esilio: alcuni finirono in Arabia Saudita, dove furono influenzati da un’ideologia fondata sull’interpretazione letterale dei testi sacri, altri in Turchia e Indonesia, paesi a maggioranza musulmana dove coesistevano comunità diverse. Altri ancora si stabilirono in occidente, dove entrarono in contatto con la tradizione europea di libertà democratiche.

Oggi nel movimento dei Fratelli musulmani convivono tutti questi diversi punti di vista, anche se la leadership, ormai molto anziana, non riflette le aspirazioni dei giovani, che sono più aperti al resto del mondo, hanno voglia di riformare l’organizzazione e sono affascinati dall’esempio della Turchia. Dietro un’immagine unitaria e fortemente gerarchica si agitano influenze contraddittorie. E nessuno sa ancora quale prevarrà.

I Fratelli musulmani non sono alla testa della rivolta contro il presidente egiziano Hosni Mubarak, che è animata invece da giovani donne e uomini stanchi della dittatura. I Fratelli musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione, così come non la rappresentano gli islamisti. Senza dubbio, sperano di partecipare alla transizione democratica dopo l’uscita di scena di Mubarak, anche se nessuno può ancora dire quale fazione interna riuscirà ad avere la meglio sulle altre e, di conseguenza, quali saranno le priorità del movimento. Il pensiero dei Fratelli musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie.

Un’utile scusa
Difficilmente gli Stati Uniti e l’Europa, e meno che mai Israele, sosterranno il sogno di democrazia e libertà degli egiziani. Considerazioni di tipo strategico e geopolitico stanno già spingendo Washington a sorvegliare attentamente il movimento riformatore, in stretta collaborazione con l’esercito egiziano, che ha assunto un ruolo fondamentale come mediatore.

Scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli musulmani ha voluto lanciare un segnale: non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare non solo l’occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è cautela.

Secondo i princìpi democratici, tutte le forze che si oppongono alla violenza e sostengono lo stato di diritto (prima e dopo le elezioni) devono poter partecipare a pieno titolo alla vita politica di un paese. Per questo è necessario che la Fratellanza diventi un partner del processo di cambiamento, e lo diventerà, se in Egitto si stabilirà un minimo di democrazia (anche se le vere intenzioni delle potenze straniere sono ancora un’incognita).

La repressione e la tortura del regime di Mubarak non sono riuscite ad annientare la Fratellanza. Invece il dibattito democratico e lo scambio di idee sono riusciti ad ammorbidire le tesi islamiste più radicali e problematiche. Solo confrontando le varie opinioni, e non attraverso la tortura e la dittatura, sarà possibile trovare soluzioni che rispettino la volontà del popolo. Per questo bisognerebbe osservare con attenzione l’esempio della Turchia.

L’occidente continua a nascondersi dietro la “minaccia islamista” per giustificare la sua passività o il sostegno alle dittature. Mentre aumentavano le proteste contro Mubarak, il governo israeliano ha più volte chiesto a Washington di appoggiare il regime del Cairo. L’Europa, invece, ha assunto un atteggiamento attendista. Entrambi i comportamenti sono significativi: in ultima analisi, le belle parole in difesa dei princìpi democratici passano in secondo piano di fronte alla necessità di difendere gli interessi politici ed economici.

Ora tutto è possibile
Invece di sostenere chi rappresenta realmente la volontà popolare, gli Stati Uniti preferiscono i dittatori che gli garantiscono l’accesso al petrolio e permettono a Israele di continuare il suo lento processo di colonizzazione. Citare le dichiarazioni di pericolosi islamisti per giustificare l’indifferenza alle rivendicazioni popolari è miope e illogico. Sia l’amministrazione Bush sia quella Obama hanno perso credibilità in Medio Oriente. Lo stesso vale per l’Europa. Se statunitensi ed europei non rivedranno presto le loro priorità politiche, altre potenze asiatiche e latinoamericane potrebbero presto entrare in gioco stringendo nuove alleanze strategiche.

L’impatto regionale dell’uscita di scena di Mubarak sarà enorme, ma è impossibile prevedere con certezza quali saranno le conseguenze. Dopo la ribellione dei tunisini e degli egiziani il messaggio politico è chiaro: con una protesta di massa non violenta tutto è possibile, e nessun governo autoritario può considerarsi al riparo. Molti presidenti e sovrani sentono la pressione di questa svolta epocale. I disordini hanno raggiunto l’Algeria, lo Yemen e la Mauritania. E bisognerebbe tenere d’occhio anche Giordania, Siria e Arabia Saudita, i cui governi hanno annunciato riforme per prevenire le manifestazioni popolari. In realtà sono decisioni dettate solo dalla paura.

I leader di questi paesi sanno di correre lo stesso rischio di Mubarak. Questa instabilità è preoc­cupante e allo stesso tempo estremamente promettente. Il mondo arabo si sta svegliando. Le prospettive di cambiamento sono guardate con speranza dai veri democratici e con preoccupazione da chi è pronto a sacrificare i princìpi democratici ai propri calcoli economici e geostrategici.

La liberazione dell’Egitto sembra essere solo l’inizio. A chi toccherà dopo? Se i prossimi saranno la Giordania e lo Yemen, seguirà anche l’Arabia Saudita – il cuore del mondo musulmano – e il governo di Ri­yadh si ritroverà senz’altra scelta che progredire verso un sistema politico più aperto. In tutto il mondo, tra i musulmani c’è una massa critica che sostiene questi cambiamenti ed è convinta della necessità di una rivoluzione al centro. In fin dei conti, solo le democrazie in grado di accogliere al loro interno tutte le forze non violente saranno in grado di costruire la pace in Medio Oriente, una pace che rispetti la dignità dei palestinesi.

Tariq Ramadan è professore di studi islamici all’università di Oxford. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è La riforma radicale. Islam, etica e liberazione (Rizzoli 2009).

Traduzione di Giusy Muzzopappa.

Internazionale,




Certe cose proprio non si possono sentire. Ricordo solo per inciso che Tariq Ramadan è il figlio di Said, che fu leader dei fratelli musulmani oltre che un aperto simpatizzante del nazismo, uno degli uomini che organizzarono l'attentato a sadat.
Si perchè nella piccola cronistoria si è dimenticato di dire che la fratellanza ha ucciso il presidente che ha firmato il trattato di pace con israele. Aggiungo solo per inciso che è un sostenitore della sharia. Quindi quello che dice va filtrato per bene.

I fratelli musulmani forse sono meno pericolosi di quanto ce li hanno descritti, ma fino a quando?
Qui non ci si rende conto che l'incubo di una guerra convenzionale in medioriente è tornato di drammatica attulità.
Questo è il pericolo da cui sfuggire, ma di certo non con i consigli di ramadan.
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