Morto Erich Priebke

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George.Stobbart
00venerdì 11 ottobre 2013 15:59
Morto a Roma Erich Priebke, l'ex capitano Ss aveva 100 anni


L'ex ufficiale delle Ss Erich Priebke è morto oggi a Roma all'età di 100 anni. Ne dà notizia il suo legale Paolo Giachini, affermando che il vecchio gerarca, condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, ha lasciato come «ultimo lascito» una intervista scritta e un video, «testamento umano e politico».

«Erich Priebke muore oggi all'età di 100 anni», scrive Giachini, «La dignità con cui ha sopportato la sua persecuzione ne fa un esempio di coraggio, coerenza e lealtà».

L'ex capitano delle Ss è deceduto proprio nel giorno in cui in Vaticano il Papa ha ricordato il 70° della deportazione degli ebrei di Roma (16 ottobre 1943). Oggi Francesco ha ricevuto nella Santa Sede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e una delegazione della Comunità ebraica di Roma.


CHI ERA ERICH PRIEBKE Nato ad Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Militare tedesco, capitano delle SS durante la seconda guerra mondiale in Italia, condannato all'ergastolo per aver partecipato alla pianificazione e alla realizzazione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine in cui 335 civili e militari furono fucilati. Aderì al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi quando aveva 20 anni. Dopo l'armistizio e fino al mese di maggio 1944 opera a Roma sotto il comando di Herbert Kappler. Nel corso della seconda guerra mondiale soggiornò in Italia, dove insieme ad altri militari tedeschi partecipò al coordinamento delle tattiche e delle strategie che il Terzo Reich avrebbe dovuto adottare nella penisola. Dopo la fine della guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995. Nel 1998, fu condannato all'ergastolo, ma vista l'età avanzata fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di uscire di casa per fare la spesa, andare a messa e in farmacia.

LE REAZIONI «Di fronte alla morte di Priebke non si piange e non si ride perché in nessuno dei due casi le vittime potrebbero tornare indietro, in vita. Resta l'amarezza per una figura che non si è mai pentita di ciò che ha compiuto e si è sporcata le mani di sangue come tutte le truppe naziste. Ora le sue vittime sono ad attenderlo lassù in cielo, nella speranza che ci sia giustizia divina». È il commento a caldo rilasciato all'Adnkronos da Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, dopo la morte di Erich Priebke.

Così invece il vicepresidente dell'Anpi Roma Elena Improta: «Mi auguro che questa morte non alimenti rigurgiti neonazisti. Davanti alla morte siamo tutti uguali ma di fronte a quella di un uomo che ha seminato morte occorre fermarsi a riflettere. Auspico che si apra una riflessione per tutti - sottolinea - sulla vera storia del nostro Paese».

Dura la reazione di Efraim Zuroff, del Centro Wiesenthal: «Non ho mai trattato un caso di un nazista che fosse dispiaciuto o mostrasse rimorso per i suoi crimini e Erich Priebke era certamente di quel genere».


www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/CRONACA/priebke_gerarca_morto_roma/notizie/3381...


Mi viene da dire "Poteva morire a 20 anni"....non sarà politicamente corretto ma almeno si sarebbero salvate centinaia di persone...
Paperino!
00sabato 12 ottobre 2013 15:57
Re:
George.Stobbart, 11/10/2013 15:59:

Morto a Roma Erich Priebke, l'ex capitano Ss aveva 100 anni


L'ex ufficiale delle Ss Erich Priebke è morto oggi a Roma all'età di 100 anni. Ne dà notizia il suo legale Paolo Giachini, affermando che il vecchio gerarca, condannato all'ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, ha lasciato come «ultimo lascito» una intervista scritta e un video, «testamento umano e politico».

«Erich Priebke muore oggi all'età di 100 anni», scrive Giachini, «La dignità con cui ha sopportato la sua persecuzione ne fa un esempio di coraggio, coerenza e lealtà».

L'ex capitano delle Ss è deceduto proprio nel giorno in cui in Vaticano il Papa ha ricordato il 70° della deportazione degli ebrei di Roma (16 ottobre 1943). Oggi Francesco ha ricevuto nella Santa Sede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e una delegazione della Comunità ebraica di Roma.


CHI ERA ERICH PRIEBKE Nato ad Hennigsdorf il 29 luglio 1913. Militare tedesco, capitano delle SS durante la seconda guerra mondiale in Italia, condannato all'ergastolo per aver partecipato alla pianificazione e alla realizzazione dell'eccidio delle Fosse Ardeatine in cui 335 civili e militari furono fucilati. Aderì al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi quando aveva 20 anni. Dopo l'armistizio e fino al mese di maggio 1944 opera a Roma sotto il comando di Herbert Kappler. Nel corso della seconda guerra mondiale soggiornò in Italia, dove insieme ad altri militari tedeschi partecipò al coordinamento delle tattiche e delle strategie che il Terzo Reich avrebbe dovuto adottare nella penisola. Dopo la fine della guerra fuggì da un campo di prigionia vicino a Rimini e si rifugiò in Argentina. Fu estradato in Italia nel 1995. Nel 1998, fu condannato all'ergastolo, ma vista l'età avanzata fu mandato ai domiciliari. Nel 2009 ha ottenuto il permesso di uscire di casa per fare la spesa, andare a messa e in farmacia.

LE REAZIONI «Di fronte alla morte di Priebke non si piange e non si ride perché in nessuno dei due casi le vittime potrebbero tornare indietro, in vita. Resta l'amarezza per una figura che non si è mai pentita di ciò che ha compiuto e si è sporcata le mani di sangue come tutte le truppe naziste. Ora le sue vittime sono ad attenderlo lassù in cielo, nella speranza che ci sia giustizia divina». È il commento a caldo rilasciato all'Adnkronos da Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica di Roma, dopo la morte di Erich Priebke.

Così invece il vicepresidente dell'Anpi Roma Elena Improta: «Mi auguro che questa morte non alimenti rigurgiti neonazisti. Davanti alla morte siamo tutti uguali ma di fronte a quella di un uomo che ha seminato morte occorre fermarsi a riflettere. Auspico che si apra una riflessione per tutti - sottolinea - sulla vera storia del nostro Paese».

Dura la reazione di Efraim Zuroff, del Centro Wiesenthal: «Non ho mai trattato un caso di un nazista che fosse dispiaciuto o mostrasse rimorso per i suoi crimini e Erich Priebke era certamente di quel genere».


www.ilmessaggero.it/PRIMOPIANO/CRONACA/priebke_gerarca_morto_roma/notizie/3381...


Mi viene da dire "Poteva morire a 20 anni"....non sarà politicamente corretto ma almeno si sarebbero salvate centinaia di persone...




Dici? [SM=g2725362]

Quel che fa paura, di quegli anni, è il fatto che basti un "ordine costituito" a far sì che migliaia di persone possano rendersi capaci delle barbarie più impensate.
Il male è dentro di noi, e pronto a venir fuori non appena le condizioni lo consentano.
Priebke era solo una delle infinite pedine, non credo che una sua eventuale scomparsa prematura dalla scacchiera avrebbe cambiato di molto lo scenario complessivo.
Ci sarebbe andato uno dei suoi sottoufficiali in quel ruolo.
George.Stobbart
00sabato 12 ottobre 2013 18:56
Re: Re:
Paperino!, 12/10/2013 15:57:




Dici? [SM=g2725362]

Quel che fa paura, di quegli anni, è il fatto che basti un "ordine costituito" a far sì che migliaia di persone possano rendersi capaci delle barbarie più impensate.
Il male è dentro di noi, e pronto a venir fuori non appena le condizioni lo consentano.
Priebke era solo una delle infinite pedine, non credo che una sua eventuale scomparsa prematura dalla scacchiera avrebbe cambiato di molto lo scenario complessivo.
Ci sarebbe andato uno dei suoi sottoufficiali in quel ruolo.




Potrei dirti "meglio uno di meno che uno di più" [SM=x43812]

Comunque il tuo ragionamento può valere per qualcuno, non per tutti, per esempio Priebke non si pentì mai, anzi orgogliosamente non rinnegò niente del suo passato e per ultimo definì la Shoà una "manipolazione delle coscienze". Dopo oltre mezzo secolo c' erano ancora le condizioni per portare fuori il male che è dentro di noi? Per Priebke non era così, lui è rimasto fedele al nazismo fino alla morte, le condizioni portatrici del male le aveva ben radicate dentro a prescindere dal momento storico.
(pollastro)
00sabato 12 ottobre 2013 22:15
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Priebke si è sempre difeso da un lato negando l'Olocausto (di cui per lui non c'erano prove certe e quelle che c'erano ritendendole artefatte e falsificate), dall'altro affermando di avere solo eseguito in ordine (ma un militare non deve eseguire un ordine palesemente abnorme e illegittimo, tanto più che lui non era un soldato semplice, incapace di valutare, ma uno dei responsabili del massacro al massimo livello di comando locale a Roma in quel momento), infine affermando che, se non avesse ucciso lui, sarebbe stato ammazzato fra i primi per ordine dei suoi superiori. La sua mancanza di pentimento e di autocritica, senza mostrare angoscia di fronte al male procurato, indica la tragica concezione nazista della guerra e della politica: la coppia oppositiva fondamentale era "amico/nemico", come teorizzata da Carl Schmitt. O si vince e si vince tutto, o si perde e si perde tutto. Aveva scritto (a quanto leggo) sulla porta di casa "Vae Victis", cioè "Guai ai vinti", come si riteneva e come è stato: incapace di evolvere, di ripiegarsi sul male, di riconoscerlo, di attraversare il dolore inferto per purificarsene, caricandosene il peso, testardo nella sua fissità ideologica.
Posto di seguito una bella riflessione altrui, non troppo recente, sul libro di Hannah Arendt La banalità del male (in Italia tradotto e pubblicato da Feltrinelli). La filosofa vi raccolse le sue corrispondenze da Gerusalemme sul processo Eichmann: questi, oscuro - ma determinante per la politica di annientamento - funzionario del Reich, si comportò (questa la sua tesi difensiva) da burocrate, convinto che - mera pedina di un ingranaggio, come descriveva di essere stato - questo suo stare agli ordini lo assolvesse da ogni responsabilità penale e prima ancora etica

Osservatore Romano, 14 ottobre 2006
A cento anni dalla nascita di Hannah Arendt una riflessione su uno dei temi centrali del suo pensiero
La sconvolgente scoperta della "banalità del male"
di GAETANO VALLINI
"Finora la convinzione che tutto sia possibile sembra aver provato soltanto che tutto può essere distrutto. Ma nel loro sforzo di tradurla in pratica, i regimi totalitari hanno scoperto, senza saperlo, che ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. Quando l'impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire".
A cento anni dalla nascita, avvenuta il 14 ottobre 1906, vogliamo ricordare la filosofa Hannah Arendt soffermandoci su uno degli aspetti fondamentali del suo pensiero, la riflessione
sul concetto di "male", che ha influito sull'analisi di uno dei capitoli più terribili della storia deln secolo scorso: la shoah.
Di origini ebraiche, nata a Königsberg, nei pressi di Hannover, la Arendt si forma filosoficamente tra Berlino, Marburgo, Friburgo e Heidelberg, avendo come maestri, tra gli altri, Jaspers e Heidegger. Con quest'ultimo discute una tesi sul concetto di amore in sant'Agostino. Arrestata nel 1933, fugge a Praga, poi a Ginevra, a Parigi e successivamente, nel 1941, a New York. Alla fine della guerra riallaccia i rapporti con Jaspers, ma non con Heidegger, anche per il persistente silenzio di questi sulla sua adesione al nazismo.
Quando scrive il citato brano sul "male assoluto" ne Le origini del totalitarismo (1951), la Arendt non ha ancora vissuto l'esperienza del processo ad Adolf Eichmann, il responsabile
della sezione IV-B-4 (competente sugli affari concernenti gli ebrei) dell'ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Rsha), catturato nel maggio 1960 da agenti israeliani in Argentina, dove si
era rifugiato. Dunque non ha ancora pubblicato il celebre libro La banalità del male (1963) che riporta le cronache sul dibattimento redatte da Gerusalemme per il "New Yorker".
Eppure ha già avviato la riflessione che la porterà più tardi a una definizione che supera e completa quanto affermato nel '51 e appare in qualche modo una sintesi del suo pensiero al riguardo. "È... mia opinione - scrive in una lettera a Gershom Scholem - che il male non possa mai essere radicale, ma solo estremo; e che non possegga né una profondità, né una dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. È una sfida al pensiero, come ho scritto, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alle radici delle cose, e nel momento che s'interessa al male viene frustrato, perché non c'è nulla. Questa è la banalità. Solo il Bene ha
profondità, e può essere radicale".
L’'analisi della Arendt parte dall'osservazione di Eichmann, l'anonimo funzionario nazista che ha organizzato con fredda pignoleria e con terrificante efficienza il trasporto di milioni di
uomini nei campi di sterminio, ma che si difende davanti alla corte e al mondo sottolineando di non aver mai torto un capello ad un ebreo, essendosi limitato ad eseguire ordini. C'è qualcosa di agghiacciante in questa affermazione di innocenza fatta senza ombra di pentimento: in fondo, dirà l'imputato, si era occupato "soltanto di trasporti". Ma è proprio in questa assenza di consapevolezza della gravità della colpa, nella disarmante dimostrazione di mediocrità intellettuale ad essa sottesa, che la Arendt trova la chiave di lettura che stravolge il concetto stesso di male così come concepito fino ad allora.
Per la filosofa, la banale malvagità di Eichmann, che ne ha fatto uno dei peggiori carnefici della storia, è il frutto semplice e mostruoso della sua "mancanza di immaginazione". Una carenza che si traduce anche in assenza di quella dimensione peculiarmente umana, l'empatia, che fa sì che ci si possa immedesimare nell'altro al punto di essere partecipe delle sue emozioni, siano esse di gioia o di dolore.
La studiosa sostiene che le azioni compiute dall'imputato "erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso". "Non era stupido - sottolinea riferendosi ad Eichmann -, era semplicemente senza idee... Quella lontananza dalla realtà e
quella mancanza di idee possono essere molto più pericolose di tutti gli istinti malvagi che forse sono innati nell'uomo. Questa fu la lezione di Gerusalemme". Per la Arendt, è "questo agire in assenza di pensiero il fatto tragico dei nostri tempi". È il pericolo estremo della irriflessività. "Il guaio del caso Eichmann - sottolinea - era che uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente
normali".
Ciò rispecchia sostanzialmente quanto scrive nel 1985 Primo Levi di Rudolf Höss, presentandone il libro autobiografico Comandante ad Auschwitz: "È uno dei libri più istruttivi che mai siano stati pubblicati, perché descrive con precisione un itinerario umano che è, a suo modo, esemplare: in un clima diverso da quello che gli è toccato di crescere, secondo ogni previsione Rudolf Höss sarebbe diventato un grigio funzionario qualunque, ligio alla disciplina e
all'ordine: tutt'al più un carrierista dalle ambizioni moderate. Invece, passo dopo passo, si è trasformato in uno dei maggiori criminali della storia umana... Mostra con quale facilità il bene
possa cedere al male, esserne assediato e infine sommerso, e sopravvivere in piccole isole grottesche: un'ordinata vita famigliare, l'amore per la natura, un moralismo vittoriano".
Riconoscere la banalità del male nel singolo esecutore di ordini criminali porta anche a far cadere l'alibi della responsabilità collettiva. Una responsabilità, questa, che finisce per non
individuare colpevoli, assolutizzando oltre che il male anche i malvagi, sottraendoli di fatto al giudizio. La Arendt, invece, non riduce i singoli responsabili dei crimini nazisti a pedine
manovrate da un destino già scritto. Nonostante tutto ritiene che essi, come uomini, avessero capacità di giudizio. Soltanto decisero di non giudicare, abdicando alla loro capacità di distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Dunque, il male non sceglie, si fa scegliere. E si fa scegliere anche da persone "normali". La banalità del male rilevata in Eichmann è di fatto il terribile riconoscimento della "normalità" del male. Una normalità che fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società trovano modo di manifestarsi attraverso il cittadino comune, che non riflette sul
contenuto delle norme, ma le applica incondizionatamente.
È questa la sconvolgente verità: il male è umano anche nelle sue forme più aberranti ed estreme, quelle che ai più sembrano impensabili e quindi inspiegabili. Riconoscere questo in
un carnefice significa in ultima analisi riconoscere di avere qualcosa in comune con lui in quanto uomini. E ciò per alcuni è inaccettabile. Martin Buber - che tra l'altro non esitò a definire un "errore di portata storica" l'esecuzione di Eichmann, perché poteva "liberare dal senso di colpa molti giovani tedeschi" -
affermò di non provare nessuna pietà per il condannato, perché aveva pietà solo per quelli "di cui nel mio cuore capisco le azioni", ripetendo che "solo formalmente" aveva qualcosa in
comune, come uomo, con coloro che avevano partecipato alle gesta del Terzo Reich.
Il libro La banalità del male scatenò un putiferio in ambienti ebraici, che vedevano nelle tesi della Arendt quasi un'assoluzione di Eichmann e per contro una neppure tanto velata accusa agli ebrei stessi per le reticenze circa il tragico fenomeno del collaborazionismo (ingenua condiscendenza, almeno in alcune circostanze) al massacro del loro popolo da parte
dei nazisti. Ma la Arendt non intendeva assolvere Eichmann. Voleva semplicemente sottolineare il fatto, tremendo, che non bisogna necessariamente essere malvagi per compiere il male. Eichmann, nella sua atroce normalità, costituisce l'espressione più inquietante del
nazismo. Egli incarna il tipo sociale più caratteristico del totalitarismo: l'individuo atomizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia vitale in
un'organizzazione che ne annulla il giudizio morale.
Allo stesso tempo la Arendt intendeva porre all'attenzione una realtà non meno inquietante, certamente impopolare e scomoda: un'intera società, frutto di una evoluta civiltà, può sottostare ad un totale cambiamento dei riferimenti morali senza che i suoi membri siano
in grado di emettere alcun giudizio su quanto sta accadendo. È ciò che Alain Besançon chiama "sregolamento della coscienza naturale e comune", processo che porta a snaturare il rapporto con il reale e quindi alla "falsificazione del bene".
L'analisi di Hannah Arendt sulle interrelazioni tra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato e la capacità di giudizio resta uno dei capitoli più significativi
della riflessione filosofica della seconda metà del secolo scorso. Una riflessione in seguito ripresa da altri pensatori e studiosi che hanno indagato ulteriormente sulle motivazioni comuni e quotidiane del male banale.
(pollastro)
00mercoledì 16 ottobre 2013 12:32
Priebke e noi
Ancora dal professore Prisco, che mi prega di postare

Priebke, il vinto mai pentito, non può diventare in morte il vincitore, cioè imporci la sua logica. Non ne ha la dignità. Lui è stato in vita oltre l'umano, il massimo del disumano. Ecco perché la nostra umanità deve ancora vincere. Contro di lui e anche per lui, per dimostrare quanto la nostra etica sia superiore alla sua, che si risolveva tutta nell'antitesi schmittiana radicalmente oppositiva "amico - nemico": o vinci e vinci tutto, senza fare prigionieri, o perdi e perdi tutto. L'"imbelle" democrazia (tale sembrava ai nazisti) lo ha invece processato e fatto vivere, non messo a morte, non coi suoi rimorsi (che a quanto pare non aveva), ma penso coi suoi fantasmi: avrà pure incontrato gli occhi angosciati e terrorizzati di chi stava mettendo a morte, alle Fosse Ardeatine. Ricordarli sempre è stata la sua pena in vita. Che ora chi vuole (non io, questo non mi si può chiedere) gli tributi onori e che sia cremato e le ceneri disperse, per contrappasso, simile a chi i suoi hanno ucciso allo stesso modo
fridafrida
00mercoledì 16 ottobre 2013 23:06
Re: Priebke e noi
(pollastro), 16/10/2013 12:32:

Ancora dal professore Prisco, che mi prega di postare

Priebke, il vinto mai pentito, non può diventare in morte il vincitore, cioè imporci la sua logica. Non ne ha la dignità. Lui è stato in vita oltre l'umano, il massimo del disumano. Ecco perché la nostra umanità deve ancora vincere. Contro di lui e anche per lui, per dimostrare quanto la nostra etica sia superiore alla sua, che si risolveva tutta nell'antitesi schmittiana radicalmente oppositiva "amico - nemico": o vinci e vinci tutto, senza fare prigionieri, o perdi e perdi tutto. L'"imbelle" democrazia (tale sembrava ai nazisti) lo ha invece processato e fatto vivere, non messo a morte, non coi suoi rimorsi (che a quanto pare non aveva), ma penso coi suoi fantasmi: avrà pure incontrato gli occhi angosciati e terrorizzati di chi stava mettendo a morte, alle Fosse Ardeatine. Ricordarli sempre è stata la sua pena in vita. Che ora chi vuole (non io, questo non mi si può chiedere) gli tributi onori e che sia cremato e le ceneri disperse, per contrappasso, simile a chi i suoi hanno ucciso allo stesso modo




Concordo sull’inopportunità di far vincere la logica degli opposti. Concordo, in quest’ottica, che sarebbe stato più dignitoso uno sprezzante silenzio alla polemica che è montata in questi giorni sulla sua morte. Ma neppure è pensabile un “placet” di superiorità etica di fronte alle parate filonaziste, nella specie: ”Che ora chi vuole (non io, questo non mi si può chiedere) gli tributi onori”. Allora, solo silenzio, anche imposto se del caso.
[SM=g2725292]
(pollastro)
00giovedì 17 ottobre 2013 11:06
Dal professore Prisco, che mi prega di postare

Il clamore degli stolti è quello che si deve attraversare (nel silenzio dignitoso dei savii, concordo) per mettere alla prova la nostra capacità di sopportazione. In molte circostanze, purtroppo [SM=g2725290] [SM=g2725292]
mikele88uni
00giovedì 17 ottobre 2013 12:47
George.Stobbart
00giovedì 17 ottobre 2013 13:52
Sono d' accordo, se ne continua a parlare troppo. Che il cadavere se lo prendano i familiari, mi sembra giusto, e tutto si risolva senza ulteriori ed "eclatanti" notizie. Basta così.
trixam
00lunedì 21 ottobre 2013 19:39
Il governo in Italia non è in grado di fare decentemente nemmeno il becchino.
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