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Impegni reali, non false promesse. (M.Monti)

Ultimo Aggiornamento: 06/02/2011 15:40
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06/02/2011 15:40
 
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VERSO IL CONSIGLIO DEI MINISTRI DI MARTEDÌ
Impegni reali non false promesse


Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, con una lettera al Corriere (31 gennaio), ha proposto un «grande piano bipartisan per la crescita». Martedì 8 febbraio il Consiglio dei ministri dovrebbe adottare il piano.

Questa volta, non possiamo lamentarci della lentezza della politica italiana! In 8 giorni avremo assistito a un capo del governo che — come folgorato sulla via di Damasco — si converte a una politica economica ben diversa da quella seguita finora; a opposizioni che, ricevuto l’inatteso invito a collaborare, lo rifiutano immediatamente; a un governo che, senza esperire altri tentativi, si precipita a decidere. Decisionismo esemplare? No, piuttosto la somma di una mossa spregiudicata e di una contromossa non meditata.

La mossa di Berlusconi è spregiudicata: senza spiegare perché la nuova linea sia stata abbracciata ora e non nel 1994, nel 2001 o nel 2008, cioè all’inizio dei suoi 3 mandati, sembra tesa soprattutto a mostrare un presidente del Consiglio di nuovo concentrato sui problemi reali del Paese e ad addossare alle opposizioni la responsabilità della crescita insufficiente e della dilagante disoccupazione giovanile.

La contromossa delle opposizioni, in particolare del segretario del PD, Pier Luigi Bersani, e cioè il secco rifiuto, è perfettamente comprensibile sul piano psicologico e della dignità. Ma non andare al «vedo», non approfondire i termini di un’eventuale collaborazione nel superiore interesse del Paese — subordinandola a condizioni programmatiche precise, a forti sistemi di controllo e, prima di tutto, a un esplicito riconoscimento da parte di Berlusconi delle carenze della politica economica finora seguita dal suo governo—rischia di facilitare quello scarico di responsabilità.

Ma qual era la proposta del presidente del Consiglio? «Portare la crescita oltre il tre-quattro per cento in cinque anni» dando «la più grande frustata al cavallo dell’economia che la stor i a italiana ricordi», «un’economia finalmente libera ». Il «grande piano» avrebbe avuto come «fulcro la riforma costituzionale dell’articolo 41, annunciata da mesi dal ministro Tremonti » (oltre a misure di collocazione sul mercato di patrimonio pubblico e di defiscalizzazione per imprese e giovani).

È un peccato che questo piano veda la luce così tardi e con una credibilità ridotta. Non mi riferisco alla credibilità personale di Berlusconi, in questa fase per lui complessa, ma alla specifica credibilità di questo suo piano. È infatti inevitabile chiedersi per quali ragioni già nei precedenti governi e poi nei primi 2 anni e mezzo dell’attuale governo egli non si sia impegnato a fondo nelle liberalizzazioni, nella promozione della concorrenza e nella lotta alle rendite di posizione. Soprattutto questo ci si attendeva da lui — un «liberismo disciplinato e rigoroso» — come aveva confermato presentandosi alle Camere nel 1994.

Né gli erano mancati inviti pressanti, anche da queste colonne, a orientare la sua guida politica del governo — nel metodo e nel merito — proprio nel senso al quale sembra aderire ora, improvvisamente e senza spiegare perché solo ora. Nel metodo, sotto due profili. In primo luogo, la disponibilità a un impegno bipartisan per le riforme al fine di vincere le resistenze corporative («Impegno bipartisan prima del voto», Corriere 3 gennaio 2006; «Berlusconi e le riforme », 28 gennaio 2007; «Un’agenda bipartisan», 3 febbraio 2008).

Questa disponibilità, sempre rifiutata da destra e da sinistra chiunque fosse al governo, viene ora manifestata da Berlusconi. Purtroppo ciò avviene in un momento di particolare tensione tra le parti, alla quale il presidente del Consiglio non ha certo mancato di contribuire (anche se nella lettera al Corriere auspica «un Paese più stabile, meno rissoso, fiducioso e perfino innamorato di sé e del proprio futuro»).

In secondo luogo, l’assunzione di una più visibile responsabilità di guida della politica economica e sociale, ferme restando le funzioni essenziali del ministro dell’Economia e delle Finanze. Senza un coordinamento sotto l’egida del presidente del Consiglio, si è qui sostenuto («Futuro dell’Italia e guida politica», 25 luglio 2010), è difficile che la politica di sviluppo riceva attenzione pari a quella, indispensabile, riservata alla disciplina di bilancio. Con la lettera al Corriere — ma di nuovo, perché solo ora? — Berlusconi sembra diventarne cosciente.

Nel merito, solo ora sembra esserci la presa di coscienza che la crescita in Italia è insoddisfacente, che ciò è legato a carenze nella competitività e richiede riforme strutturali, tra cui varie liberalizzazioni (ma anche, speriamo che non venga dimenticato, il rafforzamento delle autorità indipendenti a presidio del mercato). Finora, come si era rilevato («Il silenzio sulla crescita », 4 settembre 2010), l’accento non era stato messo sulla bassa crescita, anche perché si tendeva a diffondere una visione un po’ troppo «rasserenante»).

Nel complesso, è conseguita da quanto sopra una politica economica solida nella tenuta dei conti pubblici ma viziata da errori nella strategia complessiva («Quanto tempo abbiamo perso», 31 ottobre 2010).

Non potrà esserci, a quanto pare, l’auspicata impostazione bipartisan. Speriamo comunque che il Consiglio dei ministri di martedì, nel varare il «grande piano per la crescita», privilegi gli aspetti concreti e operativi delle misure previste, mostri chiaramente in che modo esse avrebbero impatto su competitività, crescita, occupazione.

È anche auspicabile che il piano non offenda l’intelligenza degli italiani. Se per esempio si intende proporre modifiche all’art. 41 della Costituzione, si argomenti perché lo si ritiene opportuno, eventualmente nel quadro di altre modifiche. Ma non si presenti questa come condizione necessaria, o quasi, per introdurre liberalizzazioni. Altri governi hanno introdotto varie liberalizzazioni pur in vigenza di tale articolo. Del resto, il governo attuale ha denunciato l’art. 41 come ostacolo alle liberalizzazioni solo l’anno scorso, benché il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze abbiano avuto modo di misurarsi con questa tematica dal 1994.

Per coerenza, ci si deve anche attendere che, nel piano che verrà presentato martedì, il governo annunci che intende revocare la propria proposta, già approvata dal Senato, di reintroduzione dei minimi tariffari per gli avvocati. (Non sarebbe stato più costruttivo se le opposizioni, invece di rifiutare subito il dialogo bipartisan, avessero indicato questa revoca come una delle condizioni preliminari ad un lavoro bipartisan?).

Se si vuole essere seri sulle liberalizzazioni, si rivisiti pure la Costituzione, ma prima ancora si visiti Atene. Il 21 gennaio il governo Papandreou ha adottato una riforma di quelle che i Greci chiamano correttamente le «professioni chiuse» e noi pudicamente le «professioni liberali». La riforma consiste nell’abolizione, per tutte le professioni, delle tariffe minime, del numero chiuso, delle restrizioni territoriali e del divieto di farsi concorrenza con la pubblicità. È lasciata agli ordini professionali la possibilità di dimostrare, ma avendo su di sé l’onere della prova, che l’una o l’altra di quelle restrizioni sono necessarie per la tutela di interessi pubblici, quali l’integrità nell’esercizio della professione o la tutela dei consumatori.

Mario Monti
06 febbraio 2011 ©
RIPRODUZIONE RISERVATA

Non condivido le tue idee, ma darei la vita per vederti sperculeggiare quando le esporrai.
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