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Addio ad Edmondo Berselli

Ultimo Aggiornamento: 14/04/2010 18:34
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12/04/2010 11:19
 
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Aveva 59 anni, fino all'ultimo ha scritto per Repubblica ed Espresso
non solo politica: era un grande appassionato di calcio e televisione
Addio a Edmondo Berselli
ha raccontato la società italiana
di ANGELO MELONE


Edmondo Berselli

E' morto a Modena, dopo una lunga malattia, Edmondo Berselli. Aveva 59 anni. Scompare una delle figure più eclettiche dell'editoria e del giornalismo italiano. Editorialista di politica per Repubblica e collaboratore de l'Espresso, osservatore attento della società italiana, fustigatore - se necessario - delle sue debolezze e delle contraddizioni della politica con l'occhio dello spirito libero e, senza tentennamenti, laico e repubblicano. E, insieme, narratore - negli articoli e nei libri - delle passioni ( e delle cadute di stile) dell'Italia della musica, dello sport, del mondo culturale e dei suoi salotti. Fino alla gastronomia. Forse un titolo - Quel gran pezzo dell'Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe - sembra metterle insieme tutte mostrando un osservatore poliedrico e senza paraocchi della società italiana.

La stessa vena che ha messo nei suoi libri di analisi della politica - che è riuscito sempre a trasformare in analisi della società - e nei tanti articoli scritti via via per diversi giornali fino all'approdo a Repubblica. Un metodo che nel 2003, con Post-italiani, lo fece considerare come un analista quasi profetico di questa nostra società. Compresa la sua analisi disincantata, e forse per questo ancor più incalzante, del fenomeno Berlusconi nei tanti editoriali per Repubblica. Fino al fondo sul "padrone Berlusconi" del 17 marzo scorso, e alla puntura "La Vacanza" del 3 aprile. Gli ultimi.

Tutte passioni, a partire dalla critica della politica, che Berselli coltiva nel laboratorio bolognese del Mulino dove si incrociano - ma questa è storia della politica italiana - da Andreatta a Scoppola, a Giugni, a Pasquino a Panebianco. Esperienza che diverrà il crogiolo culturale anche dell'impegno diretto in politica di Romano Prodi.

Inizia alla fine degli anni '70 come correttore di bozze della casa editrice, della quale diverrà il direttore editoriale, e lega la sua vita culturale e lavorativa all'editrice e alla rivista bolognese di cui diverrà direttore modificandola profondamente. Intanto collabora alla Gazzetta di Modena, il primo passo del rapporto con numerosi giornali fino al suo arrivo a Repubblica nel 2003. Con il suo stile e le sue analisi - spesso ironiche e divertenti - a tutto campo.

Modi diversi di raccontare l'Italia che costruiscono l'analisi della società e della politica con la sensibilità di un intellettuale che vuole farlo suonando più tasti possibile. Basta mettere in fila solo alcuni dei suoi libri. C'è il best-seller Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica con l'ironico commento della sconfitta del Pd nel 2008. Ma anni prima c'era l'altrettanto noto Canzoni, un ritratto della società italiana dagli anni '50 ad oggi attraverso la musica leggera. E ancora Il più mancino dei tiri, dedicato a Mariolino Corso e attraverso lui al fenomeno calcio. Per arrivare al ritratto dissacrante del mondo culturale italiano con Venerati maestri, operetta morale sugli intelligenti d'Italia.

L'ultima fatica, personalissima e toccante, lo scorso anno con Liù. Biografia morale di un cane. Quasi un addio.
© Riproduzione riservata (11 aprile 2010) Tutti gli articoli di Politica


mi piaceva quello ke scriveva [SM=x43630]
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12/04/2010 11:23
 
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La scomparsa di Edmondo Berselli, il ricordo di Romano Prodi
"L'ironia, il paradosso, l'analisi delle cose fatta in modo volutamente leggero"
Il fuoco dell'intelligenza
in quelle sue telefonate
di ROMANO PRODI


Edmondo Berselli
CI conosciamo da trent'anni. Non riesco a dire "ci conoscevamo" e non so nemmeno se gli anni sono di più. In questo momento sono ben lontano dal pensare ad un'analisi politica di ciò che ha scritto.
Il ricordo è personale, da Romano ad Edmondo. Sono negli Stati Uniti, a fare lezione, non ci potrò essere mercoledì al funerale. Con Edmondo Berselli ci siamo sentiti molto in questo anno. Ha sempre avuto una forza enorme durante tutta la malattia. Ogni sua telefonata era un fuoco di intelligenza. Ironica, piena di paradossi, di fuochi di artificio. L'analisi delle cose serie era fatta in modo volutamente leggero.
Per arrivare a conclusioni serissime, importanti. Era un gioco a rimpiattino anche con se stesso, con una forza d'animo che ogni volta riusciva a procurare sorriso e ammirazione.
Erano pochissimi i momenti di tristezza. Anche se li aveva. Li facevamo volare via, era lui a guidare il volo. Era fortissimo e si riusciva a parlare dell'Italia, del mondo come se se ne potesse parlare ancora per altri vent'anni.
Poi è chiaro che a questo si affianca, per me, come da parte di tutti, una stima enorme per una capacità di scrivere e di analizzare i problemi. Unica, insieme spontanea e colta. Ha cominciato a scrivere giocando sulle punizioni e i cross di Mariolino Corso e con finta leggerezza finiva a toccare gli argomenti più seri in modo straordinariamente efficace. È andato avanti negli anni, libro su libro, articolo su articolo. Mi divertivo e imparavo. Grande lezione, grazie Edmondo per il riso e la riflessione.
E grazie a Marzia, sua moglie. È stata proprio la custode discreta e fortissima dei sentimenti e della persona di Edmondo in quest'anno. Con una strada che arriva da lontano, da trent'anni di matrimonio. Lo ha accompagnato, lo ha difeso, riempito di affetto. Non ne ha perso nessuna riflessione, te le riferiva al telefono quando lui non poteva. Era un legame che continuava con tutti noi all'esterno. È stata lei a contribuire perché il lavoro di Edmondo continuasse, non fosse solo memoria e ricordo. C'è anche Marzia nell'Edmondo di questo anno. Anche questa forse è una lezione. Meravigliosa. Di discrezione, intelligenza, affetto.
Anche lei, Marzia, era colpita dalla sua stessa forza. Sta a noi ringraziarla con affetto ed ammirazione.
Edmondo Berselli è il racconto di un'Italia, della nostra terra, l'Emilia-Romagna, di un modo di vivere e di vivere la politica, di insegnare il piacere dei rapporti umani. Ce lo portiamo dentro, Edmondo.
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IL RICORDO
L'intellettuale ironico
che raccontava il pop
di MICHELE SERRA


Edmondo Berselli
DICONO gli amici più vicini che la bella testa di Edmondo, negli ultimi mesi di faticosissima malattia, trovasse requie, e perfino felicità, solo nella scrittura. La cosa non sorprende. La testa di Edmondo era così piena di oggetti, di persone, di pensieri, che non poteva certo starsene in balia del male, a rimuginare sugli orribili impicci che ostano alla nostra libertà di pensare, e ai pensieri dare un senso, un ordine, una dignità formale.
La testa di Edmondo era speciale: difficile da padroneggiare, immagino, anche per lui che ne era il padrone. Era la testa di un accademico, ben strutturata attorno allo studio, politologia, sociologia, la politica dottrinaria, la storia del pensiero. Ma era piena di finestre spalancate sulla vita "normale", la sua, la nostra.

Le canzoni, il calcio, la televisione, quello che oggi si chiama genericamente "pop", erano per Edmondo materia di incessante curiosità, di partecipazione emotiva e razionale. Un intellettuale rigoroso che non diminuisce il suo calibro culturale solo perché la materia è vile e allegra, e parla di Mariolino Corso e di Pareto, dell'Equipe 84 e di Bauman, con lo stesso rispetto per i materiali della vita: questo era Edmondo Berselli, una smentita vivente della maniera appartata e schizzinosa con la quale il colto rischia sempre di guardare al "volgare". E al tempo stesso - e qui stava il difficile - uno che anche quando divagava lungo i margini più spensierati e leggeri della cultura di massa, non cadeva mai nel cosiddetto "cazzeggio", orrida parola che serve soprattutto a "prendere le distanze".
La distanza, per Edmondo, era sempre la stessa: le cose si guardano (tutte) perché ci stanno di fronte. Si deve "scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando, nei labirinti del quotidiano, tra le alternative intrinseche della realtà": così ha scritto nel suo ultimo libro, partorito già in malattia, sul suo cane Liù, riflessione intensa, divertente, gentile sui complicati rapporti tra i viventi, compresi quelli che per farsi capire possono solo abbaiare. Bene la teoria, bene conoscere i testi sacri e padroneggiare i classici: ma la realtà è solo "lì dove la stai cercando", "verso terra", ed è con il colossale groviglio della società di massa, è con il brulicare degli esseri viventi che ognuno di noi deve fare (umilmente) i suoi conti.

Quando lessi il suo libro (molto partecipe) sull'Emilia rossa, Quel gran pezzo dell'Emilia, gli feci notare, con scherzosa indignazione, che si era dimenticato di citare, nel suo enciclopedico percorso tra le persone e le cose della sua terra, la diva del cinema erotico soft Carmen Villani, che fu popolarissima verso la fine dei Settanta. Mi sembrò seriamente colpito da una chiosa così minima, e così poco nevralgica. Perché per lui il "pop" meritava lo stesso interesse di altre emerite rassegne di studiosi e di testi importanti. E molte delle sue energie, da adulto di successo, le ha dedicate all'inventario delle canzoni, alla critica televisiva, al racconto meditato dei suoi anni di formazione (gli anni del beat, i luminosi Sessanta non ancora incattiviti dall'ideologia), alla collaborazione teatrale con il suo amico Shel Shapiro, a un viaggio televisivo lungo i percorsi "padani" da restituire urgentemente a una memoria più serena e profonda, parlando più di Guareschi e Bertolucci, magari, che delle camicie verdi e degli ultimi ritrovati di una tradizione inventata.

Era un provinciale di mondo. Amava profondamente la sua Modena. Flessioni quasi impercettibili di quella parlata resistevano nella sua voce colta: no, non è necessario essere teatralmente, ruvidamente "indigeni" per avere una forte identità territoriale. Lo vidi l'ultima volta nella stazione di Brescello, il paese di don Camillo, per una chiacchierata televisiva su Guareschi e la sua Bassa, in un pomeriggio di novembre fradicio e freddo che più bassaiolo di così non si poteva. Non era mai invasivo, mai saccente, mai cattedratico, nei suoi confronti era difficile nutrire soggezione anche pensandolo direttore del Mulino, capo di un cenacolo tra i più autorevoli del Paese. Scriveva benissimo, una prosa ricca, allusiva, fulminante negli incisi, e se non tutti i savants diventano bravi giornalisti è probabilmente perché mancano della sua quasi infinita elasticità di pensiero, indispensabile per adattare all'uso quotidiano pensieri raccolti leggendo la saggistica pesante. Divagante, spiritoso, acuto, leggerlo non era mai un'esperienza scontata. In ogni editoriale, in ogni libro, si indovinava una diffidenza radicata verso l'eccesso di pathos, i sentimenti incontrollati. Non infiammabile, non infiammava mai: ragionava, con un piglio quasi anglosassone molto raro dalle nostre parti. Una "freddezza" continuamente corretta dallo humour, dall'intelligenza, dall'amore per la realtà.

Leggendo il suo Liù, che è quasi un testamento intellettuale, si capisce che molto del suo aplomb era dovuto a un profondo pudore. Il libro si chiude con una straordinaria mozione degli affetti, un lunghissimo elenco di amici e di luoghi, di persone e di città italiane, che adesso ci commuove profondamente. È un bell'elenco, in fin dei conti consolante, che racconta un'Italia migliore di come la pensiamo nel nostro ordinario malumore: sapeva vederla. Edmondo era un realista, ma non un pessimista. La fatica di capire, non certo la smania di giudicare, è stato il suo grande merito di intellettuale e di giornalista. Ci mancherà moltissimo, ci mancheranno i suoi nervi saldi, il suo rispetto per le piccole cose, la sua amicizia discreta, la misura di una scrittura che non si lascia mai sopraffare dalla realtà perché non la ripudia e non la bestemmia: la guarda, la vede, la accetta. Più difficile per noi accettare che Edmondo non ci sia più. Nel "labirinto del quotidiano", sapere che uno come lui stava cercando di orientarsi ci faceva sentire meno soli, e meglio accompagnati. Guardando una partita di calcio, ascoltando una canzone di Guccini o discettando sulla crisi della sinistra, continueremo a sentirlo nostro coetaneo, nostro amico, nostro compagno di viaggio.
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La scomparsa di Eedmondo Berselli. Nel laboratorio bolognese
era cresciuto con Matteucci, Scoppola e Andreatta
Dal "Mulino" all'Italia
la politica come piacere
Nella casa editrice ha avuto il merito di tenere unite personalità diverse
Diceva: "Il mio lavoro è andare a prendere un caffè"
di FILIPPO CECCARELLI


Edmondo Berselli
ADESSO sarà molto più difficile capire la politica, in questo passaggio cruciale, senza Edmondo Berselli.
E ancora più difficile sarà interpretarne le vicissitudini non tanto nei suoi mutevoli scenari, ma alla luce di quello che, normalmente invisibile e spesso irriconoscibile, stabilmente domina e muove la vita pubblica e al tempo stesso le sta sotto, e dietro, ma anche al lato e soprattutto a traverso. Là dove solo la cultura, la rettitudine e la curiosità spingono a volgere lo sguardo.
Viene da riaprire i suoi libri. Rigore e buonumore s'impongono fin dalla calligrafia delle dediche. Scorrono ricordi. La piccola grande e tenera sorpresa de Il più mancino dei tiri. L'allegria dell'Italia leggera. L'impeto con cui in Post-italiani si esamina, si dà dignità e si offre un manuale per comprendere in anticipo questo tempo senza età. E ancora: la fantastica scorrevolezza di Quel gran pezzo dell'Emilia; il sulfureo dileggio dei Venerati maestri; la nostalgia di Adulti con riserva fino alla "biografia morale" di Liù, quanto di più simile a un congedo.
Ecco. A troppi lettori mancheranno d'ora in poi gli indispensabili guizzi di Edmondo, le sue vitali intuizioni, gli imprevedibili collegamenti, la gioviale e sapiente irriverenza con la quale consigliava di osservare il potere e i potenti come entità del tutto relative e anche provvisorie, da non prendersi mai troppo sul serio.
E' una lezione anche scomoda da praticare nei giornali e nei laboratori della conoscenza: quanti altri se lo potevano permettere?
Laurea in filosofia, era approdato giovanissimo al Mulino: correttore di bozze destinato a diventare direttore editoriale e poi alla guida della rivista, da lui trasformata in una pubblicazione agile, poliedrica, aperta alla cultura di massa. Sempre molto seria, ma per diversi aspetti anche spiazzante. Si sa che il Mulino è stato un prodigio di convivenza per culture politiche, personalità di spicco e appartenenze accademiche. In quel luogo si ritrovavano cattolici democratici come Scoppola e Andreatta; socialisti riformisti come Gino Giugni e Federico Mancini; intellettuali vicini al Pci come Gianfranco Pasquino; e laici anche piuttosto anticomunisti come Nicola Matteucci e poi Angelo Panebianco. Meno si sa che per anni quella rara armonia, quella fruttuosa coabitazione è dipesa parecchio anche dall'impegno, dalle mediazioni e in definitiva dalla sensibilità di Edmondo Berselli che scherzando diceva: "Il mio lavoro è andare a prendere un caffè".
In realtà è stato più uno studioso onnivoro che un intellettuale specializzato. Nessuno è mai riuscito a incasellarlo in qualche partito o cordata che non fossero quelli rispondenti a una sardonica eccentricità. Incaute leggende gli attribuivano frequentazioni nel mondo di Prodi, eppure resta di Berselli, o comunque si deve a lui l'entrata in circolo della più divertente raffigurazione del Professore che "spande bonomia da tutti gli artigli".
In realtà poteva contare su un ingegno privo di pregiudizi; e rispetto alle novità era assolutamente consapevole che solo un approccio meticoloso e insieme anti-retorico gli aveva consentito di congedare con i dovuti riconoscimenti una intera classe dirigente e nel contempo di poter seguire, documentandola in profondità, la grande mutazione italiana e le sue conseguenze nell'immaginario prima ancora che nel sistema politico.
Dalle radici storiche e dalle cronache, dalla memoria come dall'attualità Berselli estraeva materiali di ogni genere che con un accorto e personalissimo metodo finivano per trasfigurarsi nel calderone di una mitologia sociale che non di rado si rivelava spassosamente illuminante: il mussolinismo e il karaoke, Padre Pio e Dagospia, le osterie e l'ecstasy, l'Azione cattolica e il wonderbra, l'Angiolillo e il rap, e Capalbio, la moda fusion, il delitto di Cogne, il revisionismo, Afef, l'uninominale e il divertissement spinto a virtù di rassegnata temperanza.
Ebbene sì: un politologo come si deve, quindi ben lontano dall'accademia. O forse: un professore-scrittore-giornalista che accumulava la più agguerrita complessità per restituirla in forma di disarmante chiarezza. Eppure, al di là dei compiti e delle definizioni, viene oggi soprattutto da pensare a lui come a un uomo che per tanti anni ha suonato il suo spartito, la sua canzone, perché no?, su di una gigantesca tastiera.
A un estremo c'erano le note gravi, la storia, la geografia, il duro studio a tavolino, le dottrine politiche, le bibliografie, le statistiche, anche; all'altro estremo c'erano i toni della vita, gli imprevisti, i sentimenti, gli scherzi, i ricordi e tanti, tantissimi amici. Misterioso era il modo in cui riusciva a combinare, o meglio ad armonizzare questi momenti, questi stati dell'essere. Ma straordinario era l'effetto di questa sua lezione sulla pagina, lungo il filo del ragionamento, o nel fiume della conversazione. Che poi è quello che resta vivo di una persona - e non c'è morte, anche ingiusta e precoce, che lo possa nascondere, anzi.
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Era una delle firme che amavo di più
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