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Addio al Prof. Antonio Guarino

Ultimo Aggiornamento: 09/10/2014 21:44
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02/10/2014 22:58
 
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Le ultime interviste per i suoi cento anni.
Repubblica.

Antonio Guarino, memorie di un centenario.

Di Giustino Fabrizio.

Oggi Antonio Guarino compie cento anni. È nato a Cerreto Sannita, nella casa dei nonni materni, quando ancora esistevano l’Impero austro-ungarico, quello prussiano, quello russo e quello ottomano. È stato giurista, magistrato, avvocato, docente universitario, accademico dei Lincei, politico e giornalista. Lo siamo andati a trovare nella sua casa di via Aniello Falcone affacciata sul golfo. In poltrona o alla scrivania, siede sempre con le spalle alla finestra. "Il mare è troppo bello e distrae, ti incanta come il fuoco del camino. E poi adesso c’è anche un altro motivo". Quale, professore? "Prima quelle finte regate della Coppa America, poi il tennis con quello stadio assurdo. Meglio voltare le spalle a quell’incompetente di sindaco".

Il tennis è una passione battuta in una finale decisiva solo dal Diritto, quello con la d maiuscola. "Studiavo a Milano al liceo, frequentavo il circolo del tennis, ero un terza categoria già pronto per passare alla seconda, ma poi preferii lo studio". Il padre è magistrato, cambia spesso sede. Il giovane Antonio sceglie Giurisprudenza a Napoli, nel ‘32. A 18 anni pubblica il suo primo libro "Collatio bonorum", nel titolo il latino del Diritto romano. A 22 anni si laurea. I sogni di gloria subiscono il primo impatto con la realtà quando una malattia costringe il padre a lasciare la professione. Guarino trova un posto di assistente precario nella cattedra di Diritto amministrativo del professor Forti a Roma, 600 lire al mese, il primo stipendio. Magrissimo, lui e lo stipendio, non si mangia. Per mettere qualcosa in tavola, oltre a dare lezioni private, partecipa a un corso trimestrale per radiocronisti all’Eiar, l’antenata della Rai: gli danno 500 lire, raggiunge e supera le fatidiche mille lire al mese degli anni Trenta, più o meno mille euro di oggi.

Che Italia era quella della sua gioventù? "Prima che Mussolini stabilisse dalla sera alla mattina che l’Italia era diventato un paese razzista con le leggi del ‘37 e decidesse di avventurarsi in guerra in soccorso dell’apparente vincitore Hitler, molte scelte del regime avevano consenso. La politica economica, il concordato e il trattato con la Chiesa, la designazione di ministri bravi come De Stefani e Gentile segnarono dei punti. Poi però venne il trionfo dei gerarchi, i tipi alla Starace. Presero piede le orazioni da semidio di Mussolini a Palazzo Venezia, un semidio che poi chiedeva al padre di Claretta Petacci il permesso di avere la figlia come amante. Però ancora nel ‘36 la presa di Addis Abeba diede agli italiani la sensazione del riscatto da un passato coloniale inglorioso, quello segnato dalle umiliazioni inferteci dall’etiopico ras Menelik, e di essere riusciti a superare l’ostacolo delle sanzioni pretese contro di noi da due paesi super-colonialistici come la Francia e l’Inghilterra".

Ha qualche ricordo personale di quegli anni? "Quando nella mia classe venne un giovanotto per reclutare avanguardisti, io il mio nome lo detti poi svicolai per i gabinetti. Mi davano fastidio le adunate oceaniche e quel linguaggio infarcito di cascami dannunziani. A me D’Annunzio non piaceva. Chi sfilava alle adunate del sabato mattina si risparmiava 7 dei 18 mesi del servizio militare. Io e Giuseppe Mirabelli decidemmo allora di passare dal sabato fascista al sabato fascistissimo".
E cioè? "Consisteva nel rimanere a casa il sabato e uscire gli altri giorni. Da allora ho preso l’abitudine di lavorare intensamente di sabato".

Il professore ha ricordi molto vivi degli anni lontani e cita a memoria il cosiddetto inno del generale Gariboldi: "Si scopron le tombe, si levan i morti/I nostri gerarchi sono tutti risorti./Finché noi pugnammo fiorivan negli orti/ma or che la pugna diventa pugnetta/i nostri gerarchi accorrono in fretta./Se spira il più lieve sospiro di vento/domandano, ed hanno, medaglia d’argento:/e Pinco Pallino, di tutti il più gonzo/rimedia lo stesso medaglia di bronzo./Vien fuori medaglia, vien fuori che è l’ora/vien fuori medaglia, medaglia al valor". Italo Gariboldi è il generale che guida le truppe che entrano ad Addis Abeba, dopo la vittoria i gerarchi si precipitano in Etiopia per appuntarsi facili medaglie. "Lo racconta nel libro "Roma 1943" Paolo Monelli, un grande giornalista".

Il giornalismo è un’altra grande passione di Antonio Guarino, che tiene tuttora una rubrica per i nostri lettori di Repubblica ("Note a margine") e che in passato ha scritto per il Corriere della Sera, il Mattino e soprattutto è stato un pioniere della radio. "Alla fine del corso a pagamento all’Eiar nel 1936, pagamento nel senso che era l’Eiar che pagava, ci fu un concorso interno. Arrivai primo, davanti a Vittorio Veltroni che aveva due anni meno di me ed era bravissimo. L’Eiar ci assumeva a ben 1700 lire al mese. Vittorio accettò, io invece mi trovai di fronte a un nuovo bivio e scelsi di andare a Berlino nella cui università avevo vinto una borsa di studio". A Berlino, Guarino studia con i luminari, quasi tutti ebrei, del diritto privato. E fa il corrispondente per l’Eiar, raccontando via radio la storica conferenza di Monaco del ‘38 tra Hitler, Mussolini e i primi ministri di Francia e Gran Bretagna. Sembra la pace, invece è la guerra. Rientra in Italia, richiamato alle armi. "Mi ripugnava dover essere nemico di paesi come Francia e Inghilterra. Speravo di andare il Libia, invece fui mandato sul fronte russo, come sottotenente. In realtà in Russia non arrivai, perché mi ammalai a Dnipropetrovs’k in Ucraina e fui rispedito a casa con sospensione dal servizio. Dei miei commilitoni non mi risulta sia tornato nessuno".

In Italia Guarino vince un concorso dopo l’altro: per la scuola media, per la magistratura, per l’università. C’è un concorso che non ha vinto? "Sì, quello per capitano dell’Aeronautica. Era decisiva la prova fisica, io ero un tennista, avevo buone speranze. Ma prima della prova mi diedero un vasetto in cui dovevo fare pipì: non ci riuscii. E più il sergente mi incitava a suon di "dai, coglione", meno ci riuscivo. Venni bocciato". Collabora da magistrato al ministero della Giustizia di Dino Grandi alla preparazione del nuovo codice civile. "Detti il mio piccolo contributo con l’istituto della società a responsabilità limitata nel diritto commerciale, una figura che avevo studiato a Berlino e che era ancora sconosciuta in Italia, la Gesellschaft mit beschränkter Haftung (GmbH)". Poi preferisce la carriera universitaria e deve scegliere tra le sedi di Camerino o di Catania per l’insegnamento di Storia del diritto romano. "Scelsi Catania. Arrivarci da Napoli era un’impresa. Si andava in treno fino a Paola, dove la linea si interrompeva e bisognava procedere su carri trainati da buoi fino a un altro treno per Villa San Giovanni. Ma c’era una cosa che valeva tutto il viaggio: i supplì sul ferryboat dello Stretto, indimenticabili. Poi da Messina si proseguiva su camion di passaggio.

L’Università era stata bombardata, facevo lezione all’aperto tra le mura sbreccate. A Catania ebbi i miei primi due allievi formidabili, Santi Di Paola e Franca La Rosa". Ne avrà tanti altri, anche un presidente di Corte costituzionale come Francesco Paolo Casavola, e poi Francesco Guizzi, anche lui giudice costituzionale, Gennaro Franciosi, Luigi Labruna, "ma al di là dei nomi la cosa più importante che ho fatto nella mia vita è stata di formare una classe di giuristi, non solo quelli noti, ma tantissimi bravi avvocati e magistrati". I rapporti personali e intellettuali di Guarino con i suoi maestri e allievi sono stati, com’è naturale, densi e complessi. Solo la singolare storia dell’amicizia/inimicizia con Mario Lauria richiederebbe un lungo capitolo.

Dopo aver vinto il concorso universitario, Guarino conosce il suo futuro suocero. In pratica un monumento vivente: Vincenzo Arangio-Ruiz, ordinario di Istituzioni di diritto romano, uno dei firmatari nel 1925 del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Liberale, Arangio-Ruiz sarà ministro della Giustizia nel primo governo di unità nazionale del maresciallo Badoglio. Nei confronti del professor Arangio (così sempre rispettosamente chiamato) Guarino nutre, più che ammirazione e affetto, una devozione sconfinata. Ma sul piano accademico manifesta sempre un atteggiamento di pudica estraneità. Quel che è certo, è che dal suocero apprende la disciplina del caffè amaro. "Arangio beveva il caffè senza zucchero o, come impropriamente si dice, amaro. Anche Lauria lo beveva amaro, per imitazione di Arangio. Io lo bevevo amaro per imitazione di Lauria. Anche tutti gli altri assistenti presero quest’abitudine". A casa Guarino tutti bevono il caffè amaro, compreso il figlio Giancarlo, docente di Diritto internazionale, che confida di aver sposato un’assistente del padre, Brunella Biondo, perché colpito dal suo carattere: "A lei piaceva con lo zucchero e lo disse, nonostante venisse guardata come una marziana".

Nel 1950 Vittorio Veltroni, che nel frattempo in Rai ha fatto carriera, ordina a un impiegato di chiamare tutti gli Antonio Guarino che sono sugli elenchi telefonici alla ricerca del vecchio compagno di corso, quello che aveva inventato la rubrica "Lettere all’avvocato di tutti". Guarino nel ‘50 ha appena ottenuto la cattedra di Istituzioni di diritto romano a Napoli. "Vogliamo mettere in piedi la redazione della Campania e della Calabria, non abbiamo giornalisti professionisti, te ne puoi occupare tu per un paio di mesi, giusto per avviarla?, mi disse Veltroni. L’insegnamento non mi lasciava molto tempo libero, ma Veltroni insisteva e, in fondo, il mestiere di giornalista mi affascinava. Scelsi uno pseudonimo, Antonio Federici, e accettai. La sede era in via Troia, vicino all’Università. Misi un corrispondente in ogni città, fino a Messina. I corrispondenti telefonavano, noi scrivevamo le notizie e sempre per telefono trasmettevamo il notiziario a Roma. Con me c’era Giannetto La Rotonda, un grande cronista. Luigi Compagnone lavorava da noi come impiegato, lo feci assumere come giornalista". Il giornalista Antonio Federici vince anche la prima edizione del Premio Napoli, ma dopo due anni Federici-Guarino lascia la redazione.

Fa anche l’avvocato. "Mi occupavo dei ricorsi in Corte d’Appello e in Cassazione. È stato l’unico periodo della mia vita in cui ho fatto un po’ di soldi. I guadagni del magistrato, del docente o del giornalista non sono lontanamente paragonabili a quelli dell’avvocato". Nel 1976 Giorgio Amendola gli propone di candidarsi come indipendente nelle liste del Pci al Senato. Era comunista? "Io sono un liberale, ma avevo sempre votato per la sinistra. Per i socialisti, quando c’era De Martino, o per il Pci". La candidatura con il Pci causa il primo strappo con il Mattino, con cui collaborava: "A via Chiatamone era sopravvenuto alla direzione un giovanotto di carattere vivacissimo e molto democristiano, il quale ironizzò sulla mia candidatura dicendo che mi avrebbe fatto fare affari come avvocato. Mandai a quel giovanotto la foto della lettera di dimissioni che avevo spedito da tempo all’Ordine degli avvocati". Quel giovanotto è Orazio Mazzoni, giornalista di talento. Guarino riprende a collaborare con la direzione di Pasquale Nonno, smette definitivamente con Sergio Zavoli.

Nella biblioteca di via Aniello Falcone vi sono molti spazi vuoti. "La maggior parte dei miei libri li ho donati all’Università un paio di mesi fa, tengo solo una copia di quelli che ho scritto e i tre volumi del Corpus Iuris", la grande compilazione giustinianea del diritto romano. Ma il vuoto maggiore nella biblioteca del professore è la rivista Labeo, la creatura a cui più era affezionato, dopo la moglie Marina, scomparsa pochi anni fa, e i due figli Giancarlo e Federica. Dopo 49 anni di attività, nel 2004 Labeo ha cessato le pubblicazioni. "La diressi all’inizio con Francesco De Martino, poi da solo fino al 1989 quando lasciai l’Università e affidai la rivista ai miei più stretti collaboratori. Era trimestrale, l’editore Iovene all’inizio era spaventato per i forti costi iniziali, ma dopo quattro anni avevamo raggiunto il pareggio. In occasione dei miei 90 anni, mi sono visto arrivare un volume di Labeo dedicato a me. Nella dedica, in latino, era scritto che i miei collaboratori non ce la facevano più e si ritiravano dall’impresa. Per me fu una tragedia, i conti erano ancora fortemente in attivo, Labeo si vendeva in tutte le università italiane ed europee, anche in America, nonostante fosse scritta in italiano. La chiusura di Labeo e la ignobile riforma di Luigi Berlinguer che ridusse il diritto romano a una materiuzza nozionistica, queste sono state le mie più grandi delusioni universitarie". Non lo hanno mai deluso, invece, gli studenti. "C’è molto da imparare da loro, anche da quelli che danno risposte sbagliate, perché lì c’è la radice della critica che favorisce il miglioramento. Anzi, ho sempre cercato di entrare in contatto con gli studenti che mi guardavano con l’aria di non aver capito, mentre non amavo quelli di primo banco, attentissimi e falsi".

In cento anni qual è stato il cambiamento più importante che ha visto? "Quelli in positivo sono stati tantissimi, in negativo la decadenza della democrazia in Italia negli ultimi anni. Chi mi ha deluso di più, a parte Berlusconi che fa gara a sé ed è indefinibile in negativo, è stato Super Mario: è arrivato, ci ha salvati dal precipizio e poi ha sbagliato tutto, dalla legge finanziaria troppo favorevole ai produttori alla decisione di fondare un partito personale. Ha fatto bene ad andarsene". E tra Grillo e Renzi come la vede? "Grillo per me è buono come comico. Come persona seria ci metterei Albertazzi, non Grillo. Non discuto i suoi deputati, anche se molti sono cretini, ma il metodo con cui sono stati scelti. L’unica cosa in cui ha ragione è nel gettare via Berlusconi. Su Renzi ero partito diffidente, ma poi ho visto che ha delle buone idee, e sono lieto se le realizzerà".

Che cosa desidera per il suo compleanno? "Può sembrare volgare, ma desidero rimanere solo. Mi è dispiaciuto dirlo ai miei figli e a tutti i discendenti. Voglio essere lasciato solo, non so che cosa farò o penserò. Ho scritto una serie di articoletti, "Ultime paginedi diritto romano", che finiscono con le parole di una poesia di Di Giacomo: esprime il mio carattere". La poesia è "Palomma ‘e notte". A chi manderà queste "ultime pagine"? "A qualche collega, ai familiari, a qualche amico?".






Nolite conformari huic saeculo sed reformamini in novitate sensus vestri.
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