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06/12/2012 21:08 | |
Allora: sono quattro telefonate, di cui una il 24 e una il 31 dicembre. A parte dunque gli auguri tra Napoltano e Mancino e per le famiglie, ne restano altre due. Personalmente ritengo che il Presidente di una Repubblica parlamentare avrà anche di fatto la fiducia di un buon numero di Italiani, ma non è verso di loro responsabile politicamente (appunto, non è né Hollande, né Obama), quindi il mio pensiero è che, se anche volesse fare sapere quello che si sono detti, non potrebbe. Il problema è: agiva nel caso nell'esercizio delle funzioni, seppure non attraverso un atto tipico, bensì informalmente, o no? Se sì (o nel dubbio), il segreto di ufficio vincola anche il Presidente della Repubblica . A parte il fatto che Napolitano aveva comunque già emesso un comunicato con cui dichiarava di avere investito (come Presidente del CSM) il Procuratore Generale della Cassazione dell'esigenza, rappresentatagli dal senatore Mancino, di un coordinamento tra Procure sui diversi tronconi di questa benedetta inchiesta, sicché presumo che abbia lasciato così intuire il punto, resta da vedere se una seria indagine giudiziaria è piuttosto screditata da questo episodio o da procuratori politicizzati (come mi sembra indubbio che siano questo Di Matteo e questo Ingroia e non ho bisogno di fare esempi). Poi è indubbio che la privacy di tutti (sottolineo tutti), non solo del Presidente della Repubblica, debba essere protetta meglio, ma non certo perché chi scrive - ad esempio - sia uguale a Napolitano. Ho pari a lui uguale dignità di cittadino, certo, ma io non sono il Presidente della Repubblica e non ho certo le sue prerogative |
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07/12/2012 20:20 | |
Posto l'articolo in opposizione di Cordero, preannunciato da Giusperito, trovato attraverso Facebook e segnalo per onestà la traccia scritta della discussione in Corte Costituzionale del professor Pace, co-difensore della Procura di Palermo, pubblicata in www.forumcostituzionale.it, forum su "Il Presidente intercettato". Tra i due, il difensore - con il suo solito stile insopportabilmente retorico e un'argomentazione faziosa e supponente -mi sembra Cordero: "chi lo tenti (di giustificare la tesi dell'Avvocatura dello Stato, cioè) cade nel vaniloquio": ipse dixit, ma Cordero è forse un Padrterno inappellabile? E' l'unico che conosce la procedura penale italiana o si può anche dissentire da lui senza essere inceneriti sul rogo e trattato da studente ignorante? Pace è qui "fazioso" per incarico professionale, ma assolve al compito con molta maggiore eleganza. Nel merito, trovo che Trixam abbia - come gli capita spesso - centrato il punto: in un'Italia alla frutta, personalmente ritengo che può essere compito del Presidente della Repubblica anche lasciare sfogare un ex Presidente del Senato (oggi privato cittadino, ma non uno che prima passava per caso di là), anche per capire meglio che cosa fosse stata questa cavolo di "trattativa". Quando ha emesso un comunicato sulle conversazioni, ha avuto cura di riferire (lasciando intendere a chi lo voleva) che ad insistere per chiedere un coordinamento delle indagini in corso al Procuratore Generale della Cassazione era stato appunto Mancino, non lui. Cui prodest attaccare oggi Napolitano, rimasto purtroppo l'unico punto di riferimento istituzionale del Paese, quando anche Monti sta per cadere e - con immaginabile gaudio dell'Europa - Berlusconi ritorna a candidarsi leader del centrodestra? Insisto: per me (ma, per carità, posso sbagliarmi, nessuno è il Vangelo, nemmeno Cordero), il titolare di un organo monocratico come quello presidenziale è praticamente sempre "nelle funzioni" e anche da una conversazione con la moglie o col verduraio può per paradosso capire cose e trarre elementi per esercitare poi le sue attribuzioni tipiche e formali. Detto questo, le motivazioni le leggeremo, ma ho sempre pensato che sarebbe stato meglio chiarire le prerogative di più organi costituzionali (cioè non del solo Capo dello Stato) con legge costituzionale. Con il "lodo Alfano", insomma, ma attenzione: approvato con legge costituzionale, non ordinaria
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La Repubblica, giovedì 6 dicembre 2012
LA GEOMETRIA DEL DIRITTO di FRANCO CORDERO
Motivare le sentenze è affare serio, talvolta arduo, antipatico, rischioso. È pandemonio a Napoli quando Sua Maestà Ferdinando IV, persuaso dal vecchio ministro Bernardo Tanucci (da giovane professore nell’ateneo pisano), esige decisioni motivate (prammatica reale 27 settembre 1774). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’ Italia. Martedì 2 dicembre, dopo quattro ore, dalla camera di consiglio filtra l’oracolo. Poche frasi incongrue, ma non potevano suonare meglio, se presupponiamo l’esito favorevole all’attore, tale conclusione non essendo motivabile nell’ordinamento italiano, anno Domini 2012. Impresa impossibile: in qualche misura il diritto è anche geometria; e supponendo che la corvée sia disegnare nello spazio euclideo un triangolo i cui angoli non siano 180°, vengono fuori faticosi sgorbi. La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: ad esempio, parlava in una cabina telefonica e occhi lesti decifrano i segni labiali; data l’inviolabilità, il voyeur è testimone ammissibile o no, secondo l’augusto beneplacito. Idem quando l’incauto conversatore s’infili in linee soggette a controllo telefonico. Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (in un film Clint Eastwood, ladro, ascolta e guarda, nascosto dietro una tenda, mentre the President in preda all' alcol collutta con un' amica e la cosa finisce male); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell'art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. M’ero permessa una citazione dalle avventure d’Alice, settimo capitolo, dove Cappellaio, Lepre, Talpa spendono parole matte; e notavo come, dedotta l’«inviolabilità», tutto diventi asseribile, anche che l’Unto sia profeta, regoli i cicli naturali, guarisca le scrofole, et cetera. La Carta è muta in proposito e i lavori preparatorî non lasciano dubbi sul disegno dei Costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’ immunità processuale che, senza fondamento, lì attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (voleva imbrigliarla già l’autore dell’omonimo trattato cinquecentesco, Giovanni Botero) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli. I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c. p. p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1) e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra. Pour cause i comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’ art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari). In cauda venenum, scrivevano vecchi avvocati latinisti. Meno forbito, il comunicato esige l’ immediata distruzione dei materiali sacrileghi (era «sacra» la persona regale nello Statuto al quale regrediamo): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disant inviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. L’art. 271, c. 3, lo presuppone: va stabilito se i reperti siano fruibili; mandarli in cenere al buio è fosco stile inquisitorio. Quel giudice non ha in corpo lo Spirito santo: forse sbaglia definendo irrilevante qualcosa d’utile; o sta affossando materiale costituente corpo del reato (art. 271, c. 3, dov’è ovvio il rinvio all’art. 269, c. 2, sull'udienza camerale, art. 127). Supponiamo che N stia scontando l’ergastolo, e parole del presidente nel dialogo con un intercettato forniscano materia alla revisione della condanna; o l’inverso, che costituiscano notitia criminis: va tutto al diavolo in rigorosa clandestinità? Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c. p. p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana.
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